Dare una definizione appropriata e, definitiva, di terrorismo, non è stato sinora possibile nemmeno da parte dei governi, giornalisti, accademici o think-tank di qualsivoglia tipologia.
Terrorismo è per prima cosa, e di gran lunga, una categoria legale e non c’è alcuna interpretazione legale e nessuna definizione legale che non sia passibile di inconsistenza e contraddittorietà. O di essere emendata. E finché la legge sarà la forma dominante dell’ideologia, quella sua indeterminatezza alimenterà altri discorsi ideologici, particolarmente nelle scienze sociali e nel giornalismo.
Uno dei momenti topici della letteratura sulla “guerra al terrore” fu quando l’accademico Alan Krueger concludeva il suo libro “What makes a Terrorist”, suggerendo che fosse un errore proprio il menzionare la parola terrorismo. Ciò successe poiché il suo libro era un manuale sulla controinsurrezione che cercava di fornire delle basi solide alla “guerra al terrore”. Krueger non aveva alcun interesse nella violenza politica esercitata dalle Forze di Autodifesa Unite della Colombia o dai Contras nicaraguensi, al pari di tutte quelle forme di terrorismo prodotte dagli Stati. Se lo avesse fatto, non avrebbe che potuto contraddire le prescrizioni contenute nel progetto di “promozione della democrazia”. Anche Christopher Hitchens, come sapete, affrontò la situazione con una definizione di partenza abbastanza insoddisfacente: “La tattica di chiedere l’impossibile, chiedendolo in punta di fucile”. Nelle sue ultime interviste egli riuscì a dire che le “cause del terrore islamico” erano “l’ideologia del terrore islamico”, aggiungendo poi “Io non dico che tutti i musulmani siano dei terroristi, ma ho notato che un numero estremamente alto di terroristi è musulmano”. Non è un caso che gli ideologi dell’anti-terrorismo siano finiti col dire tali stronzate. Il problema non è solo nell’uso del linguaggio intorno al terrorismo, ma risiede nel linguaggio stesso. La sua natura implicitamente normativa, e contrastante, può ben essere illustrata quando tentiamo di definire il termine “terrorismo”.
Esso include una violenza politica che vuole allargare il senso di paura all’interno di larghi settori di popolazione. Questa violenza indica il coinvolgimento degli Stati o solo delle forze non-statali? Come possiamo definire le categorie di “civili” o “non combattenti”? Se il terrorismo include gli attacchi ai militari, questi devono essere fuori servizio? E se sono in servizio, devono essere lontani da un qualsiasi campo di battaglia? Che cos’è un campo di battaglia in un contesto globale nel quale le guerre vengono combattute sistematicamente al di là dei confini e per mezzo di droni?
Da come uno risponde a queste domande si capisce la normatività delle risposte, ed egualmente si determinano come terrorismo situazioni e formazioni politico-militari.
Facciamo un esempio. Gli USA considerano l’attacco suicida alla USS Cole nel 2000, da parte di Al Qaeda, come un caso di terrorismo. L’attacco avvenne contro un vascello composto da militari in servizio. L’attacco venne definito come atto terroristico perché in quel momento non vi era uno stato di belligeranza dichiarato. Tuttavia, l’attacco di Al Qaeda alla nave ancorata nel porto di Aden era parte di una generale offensiva contro la presenza militare USA nel Medio Oriente, e questo suggerisce che le ostilità militari esistessero. Ma quello che voglio dire è che gli USA hanno il potere di determinare ed imporre le proprie definizioni legali nelle quali i militari sono impiegati e di non considerare perciò quello uno stato di belligeranza, e quindi di classificare l’azione militare subita come un atto di terrorismo.
Facciamo un altro esempio. Il governo USA di certo non considera l’aggressione militare di Falluja come un atto di terrorismo. Questo nonostante il fatto si sia impiegato una violenza politica atta ad intimidire settori ampi di popolazione, e siano stati colpiti grandi numeri di civili. La spiegazione di tale azione fu che fu portata a termine da uno Stato legittimo con un mandato dell’ONU e attraverso accordi col governo iraqeno. Non c’è alcuna buona ragione per accettare le definizioni del governo americano, se non quella che concerne la loro forza politico-militare nell’assicurare che le uniche ragioni sono le sue, e il potere ideologico di imporre il tutto nel senso comune. Allora dobbiamo ammettere che la parola “terrorismo” è inerente ad un tipo particolare di narrazione. È semplice, allora, confermare normativamente questa narrazione, senza tanti preamboli, e farne senso comune. Sulla strage di Parigi la narrazione in atto è quella dell’islamismo che ha attaccato la libertà, cioè noi. Il corollario a questa narrazione consiste nel ricordarci che questo succede perché vi è un atavico impulso codificato nell’Islam che lo rende peggiore delle altre religioni. In queste circostanze l’etichetta “terrorismo” ci porta direttamente nel vicolo cieco della violenza razzista ed imperialista, della repressione di Stato, che ci garantiscono la ricorrenza di questo tipo di eventi anche in futuro.
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