di Sergio Mauri
E’ quello che mi sono proposto di fare venerdì 7 marzo 2014 a Trieste, presentando il libro Partigiani a Trieste, i Gruppi di Azione Patriottica e Sergio Cermeli, con la collaborazione della storica slovena Marta Ivašič e di Davide Rossi, direttore del Centro Studi Anna Seghers di Milano. Trieste è, da molto, troppo tempo purtroppo, il luogo principe di ogni manipolazione della storia. Aggiungerei, che è il fulcro di ogni esperimento in tal senso, di ogni operazione orientata a disinformare sulla storia, ma anche sulla cultura locale o nazionale. Allargando un pochino la visuale, potremmo dire che tutta la Venezia Giulia, fino alla contigua Istria passando per l’Isontino e su su fino alla Val Resia, zone di interesse coloniale per il Regno d’Italia prima, venticinquennio fascista incluso, con continuità senza increspature significative nell’Italia repubblicana, sono di precipuo interesse per operazioni di caos informativo e mediatico.
L’obiettivo, apertamente dichiarato della nostra classe dirigente è sempre quello: la cosiddetta memoria condivisa, o sarebbe meglio dire che questa classe dirigente vuole che la propria memoria di comodo divenga patrimonio comune di tutta la società. Una memoria condivisa vettore di pacificazione, che vuol dire esplicitamente “ognuno al suo posto”. Il problema è che una memoria collettiva deve esserlo veramente e non calpestare la memoria, le vite, i morti degli altri per una mera operazione politica di chi pensa solo, sui corpi di chi non c’è più e non può più difendersi , a costruire consenso elettorale e carriere istituzionali. A questo proposito mi diverto spesso a riflettere sul fatto che, paesi come la Russia o la Cina, o il Regno Unito, non sembrano soffrire di problemi di mancanza di memoria condivisa. Come potrebbero, con 25 milioni di morti (la Russia) durante l’invasione nazifascista e la distruzione di buona parte del proprio paese (nel caso della Cina) durante l’invasione giapponese, passando per l’esperienza coloniale antecedente. Che dubbi dovrebbero avere i rispettivi popoli? Nessuno, in effetti. Solo in paesi di pulcinella come il nostro i dubbi sono più delle parole, o come diceva Paolini “nemmeno davanti ai campi di concentramento e alle camere a gas c’è una presa di posizione o un’ammissione di responsabilità”.
Eppure, eppure, una cosa andrebbe detta, finalmente. Ed è questa: che nel mentre la classe dirigente fatica ancora e perciò si impegna ogni giorno sui media che possiede (tutti) a inculcare la propria memoria, in una sorta di lavaggio del cervello per raggiungere un tipo di pacificazione che tranquillizzi chi ha perduto la guerra, c’è chi questa memoria condivisa l’ha sempre avuta. Parlo dei comunisti, italiani e sloveni, croati e jugoslavi che lottarono insieme contro lo sfruttamento padronale che giunse fino al punto di armare il fascismo per stroncare ogni possibilità di lotta dei subalterni.
Partigiani e Trieste, parla di questa unità, di questa memoria condivisa, praticata concretamente dagli italiani e dagli jugoslavi (sloveni, croati, serbi…), in queste zone, nel nome dell’internazionalismo proletario che non era (e non è) una vuota formula magica da recitare quando comoda atteggiarsi a rivoluzionari, ma un modo concreto di essere, lottare, rapportarsi all’altro. Rispetto per la lingua e la cultura, per le persone in carne e ossa qualsiasi sia la loro nazionalità, reciproco aiuto quando infuriava la guerra ed infine, la scelta della lotta armata per non finire inceneriti in qualche campo di sterminio o semplicemente spazzati via dalla furia di coloro che in ogni città, in ogni villaggio, lasciavano solo devastazioni e morte, sotto l’egida della svastica.
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