Ripubblico un mio testo, di 10 anni fa, sull’argomento, in forma dialogica.
-Credo comunque di aver capito che i “no-global” non esistono più. Ora si parla di new-global, (nemmeno questi esistono più, nda.) il che fa capire molte cose. Volere un mercato globale etico resta pur sempre, in fondo, imperialismo…Mi sembra un’obiezione condivisibile. Parlo di ciò che vedo: nella mia città l’antagonismo no-global passato al new global si esplicita in: negozi equi e solidali (per ricchi, visti i prezzi da “libero mercato”) librerie e bar alternativi. A pagamento s’intende, perché la logica del profitto deve essere abbattuta da altri, costa troppa fatica!
-Non confondiamo, però, l’imperialismo strisciante che si insinua nel movimento (ed è destinato a divenire capitalismo) nella forma dei “negozi equi e solidali” con i prezzi da ricchi, con l’intero movimento.
A me quelle citate sembrano chiare evoluzioni del salto della quaglia, disciplina che in Italia vanta campioni di rilievo mondiale.
– Ora si parla di new-global, il che fa capire molte cose. Volere un mercato globale etico resta pur sempre, in fondo, imperialismo…
Vediamo. New Global significa soltanto che alla dimensione globale dei mercati si oppone la dimensione globale della lotta, come annunciatrice di una società globale su principi diversi da quelli di mercato. Il primo passo da compiere (già ampiamente compiuto) è quello di capire che un No Global italiano (o New Global per quelli che vanno a nozze con le sigle) si sente associato ad una realtà che lo vuole più affine, per aspirazioni, ad una operaia tessile filippina, o a un raccoglitore di banane Chiquita in Ecuador, che a Berlusconi o Fassino.
Una volta si chiamava “internazionalismo proletario”, ma vuoi perché analizzare debitamente la parola “proletario”, non è da tutti, sia per distinguersi da esperienze del passato con cui non tutti si identificano (ad esempio i cattolici del movimento), si è preferita la nuova sigla New Global (che peraltro ha avuto poca fortuna rispetto a quella antecedente).
Si tratta comunque di quisquilie terminologiche.
-Mi spiego meglio. Il problema del “mondialismo” o della “globalizzazione” non è, in primo luogo, un problema di mercato iniquo e di sfruttamento economico. Questo può sembrare strano, ma è necessario affrontare il punto della questione a viso aperto. Il grave danno che provoca la globalizzazione dipende dal fatto che essa nasce dalla pretesa di universalizzazione del mondo occidentale. Non è solo il mercato, a diventare globale, ma anche e soprattutto il pensare e sentire europeo, il linguaggio (pensiamo ai tanti sperduti villaggi di qualche angolo del mondo in cui campeggiano scritte in inglese…), i sistemi sociali, etici, politici e ideologici. New global significa senz’altro “lotta globale”, ma le coordinate della lotta chi le imposta? L’occidente, al solito (e, per inciso, chi l’ha detto che certo internazionalismo proletario non fosse imperialista?).
Alla fine, è una via “etica” per l’esportazione dei “diritti umani universali” e per il consolidamento dell’economia (imperialista) occidentale, che a detta di molti non può durare a lungo poggiando su queste basi di sfruttamento. Un mercato globale equo non può non essere imperialista, in quanto è già mercato globale: imposto quindi storicamente dall’imperialismo, con le tragiche conseguenze, soprattutto culturali e sociali, che tutti conosciamo. Forse è impossibile tornare indietro, ma le teorie di decrescita hanno questo obiettivo.
Non mi risulta, infine, che il movimento abbia espresso simpatia per un movimento patriottico e realmente antiimperialista, ma più effettuale e a suo modo rivoluzionario, come l’Hezbollah; mi piacerebbe invece saperne di più sul giudizio dei new-global su uno Chavez, per dire, anche se in quel caso il discorso è molto diverso.
-In economia, i “new-global” non contestano tanto la globalizzazione in sé, quanto il fatto che le sue istituzioni sfuggano ad ogni logica democratica. Ma sono le istituzioni in sé ad essere imperialiste, e non il fatto che il loro potere sia autoreferenziale. L’Africa era alimentarmente autosufficiente finché i colonizzatori europei non le hanno imposto il mercato; e ora ci rendiamo facilmente conto delle conseguenze enormi che questo crimine ha avuto, le quali, finché restiamo all’interno proprio di quel mercato che ha combinato il disastro, non sembriamo in nessun modo in grado di arginare.
– New global significa senz’altro “lotta globale”, ma le coordinate della lotta chi le imposta? L’occidente, al solito.
Ma non è affatto così. Il presindente del Forum Mondiale delle Alternative, una delle sedi più importanti di confronto del movimento NO Global, è l’egiziano Samir Amin (un economista di estrazione marxista, tra le altre cose), che dice e ripete che la paternità del movimento non sono affatto le sommosse di Seattle, che pure furono importanti e che lui appoggiò interamente, ma che queste non fecero altro che far emergere in Occidente un movimento già abbondantemente presente a livello globale, col che si intende l’Asia, l’Africa e l’America Latina, oltre all’Occidente.
Quanto a Chavez la questione è molto semplice: sono i partiti che devono avere una posizione ufficiale su questo o quel problema, non i movimenti.
– È piuttosto facile dimostrare che un Forum Mondiale delle Alternative, nella sua pretesa di essere universale, è europeo al 100%. Così come lo è il marxismo, per carità…
Seattle è stato un punto di svolta simbolico fortissimo, che ha dato enorme visibilità anche e sopratutto alle varie correnti di protesta europee (sindacali, ambientaliste, ecc ecc); in questo senso, secondo me potrebbe benissimo essere preso come punto di definizione del No-Global. Ciò che accadde prima era di tenore ben diverso: lo zapatismo, per esempio, non partiva da astratti precetti economici globali, ma dalla nuda volontà, da parte degli indios del Chiapas, di disporre della propria terra e di vivere secondo i propri costumi. Il “movimento globale” extraeuropeo è nato da una generalissima comunione di simili intenti di moltissime realtà locali diverse fra loro, che hanno finito per convergere sotto un ombrello su cui l’occidente ha piena egemonia simbolica e comunicativa. Probabilmente non è che ci fossero molte altre alternative; le grandi masse di sfruttati si sono poste così in maggiori condizioni di visibilità, ma il rovescio della medaglia è che l’ombrello ha finito per fare astrazione da ogni particolare situazione politica concreta, all’insegna di un vaghissimo multiculturalismo buonista, che dall’opposizione frontale ai poteri economici porta alla violenza rituale da un lato, e ad una loro critica sistemica, col fine di disegnare un modello alternativo di mercato globale, dall’altro.
Almeno, mi pare che sia accaduto questo…
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