L’islamismo della catastrofe.

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Da: salvage.zone

Di: Jamie Allinson

L’Islamismo della catastrofe.

L’articolo comincia con l’inquadramento del tema che, secondo l’autrice, bisogna sistematizzare nel modo seguente: Islamismo come fenomeno del tardo capitalismo che ha aperto spazi politici alla destra estrema. La Allinson sostiene esserci alcuni miti sull’ISIS e su ciò che stà accadendo in Siria.

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[…] Il primo mito dice: gli USA hanno preparato un cambio di regime per rovesciare Assad, finanziando le milizie islamiste che sono poi confluite nell’ISIS. Questo mito non tiene conto della sollevazione popolare siriana del 2011, prima che il ruolo dell’ISIS diventasse importante e nel rifiuto di qualsiasi solidarietà con i rivoluzionari siriani. Il modello rivoluzione siriana –> milizie islamiste –> ISIS è falso. È vero che dopo alcuni anni di massacri e disperazione l’opposizione siriana sia formata da un asse nazionalista sunnita. Questa tendenza è presente nell’ancora esistente FSA (Free Syrian Army), nella sua variante ultra-settaria Jabhat Fateh al-Sham (ex affiliati di Al-Qaida conosciuti come Jabhat Al-Nusra) con Ahrar Al-Sham la principale milizia che occupa il nord della Siria. Queste tendenze sono estremamente preoccupanti per il futuro di una rivoluzione siriana. L’ISIS non è l’inevitabile prodotto di questa politica.

Per prima cosa, nel commentare il mito del complotto USA-ISIS, dobbiamo riconoscere che alcuni combattenti del FSA sono passati all’ISIS, in alcuni casi lavorando come doppi agenti dell’ISIS all’interno delle brigate dell’FSA, come documentato da Michael Weiss e Hassan Hassan nel loro libro “ISIS: inside the army of terror“. Inoltre, il quantitativo di armi e munizioni mandato dagli USA in Siria è stato fortemente limitato nel tempo (anche visti i risultati) e la precondizione agli stessi era quella di combattere l’ISIS piuttosto che Assad. Più significative, in questo senso, erano le armi americane prese dall’ISIS in Iraq, all’esercito iracheno.

Armi che furono usate contro gli sciiti nell’estate 2015 (Operazione [degli sciiti, ndt] noi ti obbediamo, oh Hussein!). Tuttavia, il supporto “americano” a qualcuno deve essere spiegato da chi ne parla. Intanto vediamo di capire meglio la cosa. A parte l’Operazione Inherent Resolve, la campagna di bombardamenti per colpire l’ISIS che ha prodotto anche circa 1500 vittime civili, gli USA avevano due mezzi per intervenire nella guerra civile siriana. Il primo riguarda i canali politici del Congresso, ed è esplicito, l’altro è segreto e concerne la CIA. Del primo tipo di iniziative è il “Train and Equip programme“, iniziato nel 2015 sfociato nella formazione del “Nuovo esercito siriano” l’anno successivo.

Queste iniziative arrivano a guerra civile già conclamata e non possono essere considerate la sua causa, al pari delle rivolte del 2011. esse erano chiaramente rivolte contro l’ISIS e Al-Nusra, non contro Assad. Il finanziamento da parte del Congresso americano di 500 milioni di $ per “Train and Equip” (disponibile al “Congressional Research Service report R43727 Train and Equip Program for Syria”) era chiaramente mirato alla “difesa del popolo siriano dagli attacchi dell’ISIS”. Gli addestratori americani dichiaravano con enfasi che nemmeno un proiettile doveva essere sparato contro il regime (Mc Clatchy, dicembre 2015).

Nel luglio 2015, 54 uomini furono rispediti in Siria sotto gli auspici della “Division 30“, uomini che vennero attaccati e catturati da Al-Nusra come vendetta per un attacco aereo americano. Nel nord siriano fu anche creato il “Liwa al-Mutasim” senza troppo successo, tanto che gli USA decisero di focalizzarsi a sud e ad est.

Il fronte meridionale del FSA ha mantenuto la sua caratterizzazione originale: composto per lo più da sunniti, ma non islamisti. Ha continuato ad ottenere dei successi fino agli inizi del 2016 contro le forze di Assad. Le incursioni di ingenti forze islamiste (Nusra e ISIS) nel 2014 e l’accordo russo-giordano di bloccare l’invio di armi alle forze anti-Assad, hanno raffreddato il fronte sud. Dal momento in cui la coalizione “Fateh Haleb” ruppe l’assedio di Aleppo nell’agosto 2016, il fronte sud è rimasto poco attivo o concentrato sui jihadisti, alienando così l’FSA dalle forze d’opposizione ampiamente intese. Gli USA hanno ora offerto spazio e armi alla resistenza anti ISIS nei pressi di Deir Ezzour sotto il nome dell’Esercito Libero Siriano (FSA), dove gli USA hanno molta influenza nella fornitura di armamenti, si vedono meno combattimenti contro Assad o non se ne vedono proprio. La prova, perciò, è conclusiva ed incompatibile con il fatto che l’esercito americano avrebbe armato il FSA per destituire Assad.

Le operazioni coperte degli americani sono state confermate come presenti almeno dal 2013. secondo il New York Times del gennaio 2016, il programma chiamato “Timber Sycamore” era operativo dal 2012 per inviare “aiuti non letali e senza armi ai ribelli”.

Nella primavera del 2013 a due anni dall’insurrezione del 2011 e a 18 mesi dall’inizio del conflitto armato, Obama autorizzò la CIA a mandare armi allo FSA. Anche questo non può aver dato l’avvio né all’insurrezione popolare del 2011 né alla guerra civile che era già ben che cominciata. Queste operazioni non furono decise per incrementare la vendita di armi, per lo più di provenienza saudita, ma per ottenerne il controllo.

Queste operazioni coperte sono più difficili da tracciare, tuttavia sappiamo che i loro principali insediamenti furono in Giordania (per il fronte sud) e in Turchia (per quello del nord). Quando si parla dell’FSA che sarebbe stato armato dagli USA, vuol dire che fu ad esso permesso di ricevere armi e munizioni dai due MOC (Military Operations Centres) di cui sopra. Il giornale degli Emirati, The National, nel giugno del 2016pubblica un’intervista ad un comandante del FSA, circa le funzioni del MOC di Amman, in cui dichiara che “ne arrivano abbastanza per continuare a combattere, ma non per vincere”. Ma la vera prova della politica USA sta nel mancato invio, all’FSA, di armi pesanti. Obama ha inviato all’FSA le armi anticarro, ma ha evitato di mandare quelle antiaeree (MANPADS). Uno dei motivi per cui Assad è al potere è proprio questo: il fatto che lui disponga di queste armi (sia proprie che di provenienza russa) al contrario dei suoi avversari.

L’FSA richiese fortemente, agli americani, le armi antiaeree per difendere Aleppo nel 2013. Nessun’arma fu inviata. Gli USA, inoltre, bloccarono i ripetuti tentativi del Qatar di inviare armamenti antiaerei ai ribelli (NYT, 12/8/2013 “Arms Shipments from Sudan seen to Syria Rebels“).

Il motivo di tutto ciò risiede nel fatto che USA e Israele temevano questi armamenti potessero ritorcersi contro di loro. Se questo è un tentativo di rovesciare un regime, è un tentativo piuttosto misero. Al contrario di ogni ricostruzione fantastica basata su interpretazioni di Leaks di basso livello di intelligence, come sono quelle di Wikileaks, non c’è stata alcuna strategia americana finalizzata all’abbattimento del regime di Assad.

Già dal 2011 gli USA di Obama riconoscono il Consiglio Nazionale Siriano come “la guida e la legittima rappresentanza del popolo siriano” per un periodo di “transizione”. Per gli USA, tuttavia, la “transizione” è un qualcosa che dev’essere “gestito” dall’interno del regime. Il modello di “gestione” del passaggio del potere ha il suo esempio nello Yemen: da Ali Abdullah Saleh a Abdrabbuh Mansur Hadi.

Nella sua conferenza stampa dell’ottobre 2015, Obama dichiarò che la politica americana in Siria era per “il mantenimento dello Stato e dell’esercito intatti”.

La differenza tra russi e americani verteva soprattutto sullo status di Assad.

Petraeus, l’ex vicerè d’Iraq, responsabile di “Sycamore Timber”, dichiarò all’agenzia di informazioni curda Rudaw, nel marzo 2015, che la “priorità” fosse l’ISIS poiché questa “sosteneva lo sforzo in Iraq”.

Oggi la politica russo-americana è confluita verso la fine del conflitto e l’individuazione dell’ISIS e Nusra/Fateh Al-Sham come il problema.

L’apice di questa politica si è avuta con la proposta di bombardare insieme la Siria, nel settembre 2016. L’accordo venne poi meno a causa della rivelazione delle intenzioni (russe e di Assad) di riprendersi Aleppo dopo pesanti bombardamenti, senza tenere conto dei siti civili. Comunque, quando gli USA bombardano accidentalmente i soldati di Assad a Deir Ezzour, gli USA stessi si scusano ed offrono compensazioni in denaro. Al contrario, quando gli USA bombardano Manbij durante la battaglia tra ISIS e il Syrian Democratic Forces, guidato dai curdi e sostenuto dagli USA, il 19 luglio 2016, in cui muoiono almeno 73 civili, questo fatto non viene riconosciuto, tantomeno compensato.

Il bombardamento di Manbij era parte di una più ampia campagna degli USA in Siria, ma non contro il regime di Assad. L’intervento americano in Siria si è indirizzato apertamente verso i curdi del PYD ed il suo braccio armato, il YPG, il cui ricevimento di armi, intelligence, consiglieri e supporto aereo dagli USA stessi non ha precluso la loro mitizzazione da parte della sinistra euroatlantica. I successi dell’autogoverno di Rojava non sono da sottovalutare, mentre i nemici del PYD sono anche i nostri nemici. L’intervento turco nella Siria settentrionale nell’agosto 2016, in alleanza col FSA e le brigate islamiste, ha esteso l’area di contenimento del PKK e del YPG, ma ha portato alla presa di Jarabulus dalle mani dell’ISIS. La politica curda, tuttavia, non è riuscita a trascendere i propri confini etnici non riuscendo a coinvolgere i non-curdi dell’area. Il risultato di ciò si è visto nella battaglia di Hassakeh dove Assad ha affrontato seriamente i curdi per la prima volta.

L’ISIS quindi non è il prodotto di una strategia americana nell’area per la semplice ragione che non c’era alcuna strategia. La CIA, inoltre, a parte il suo essere inaffidabile come fonte di informazioni per noi, non può essere accusata – in questo caso – di aver tramato chissà come contro Assad, poiché se lo avesse veramente voluto egli non sarebbe più al suo posto da molto tempo.

La politica degli anatemi.

Nel 1996 l’emiro del Gruppo Islamico Armato (GIA) algerino, Antar Zouabri emise una fatwa contro tutta la società algerina che non si era unita al GIA, definendola “apostata”. Questa fatwa era diretta sia contro il FIS (Fronte Islamico di Salvezza) che contro il governo. Tuttavia, anche il GIA godeva di complicità e collusioni col governo stesso, poiché, caso emblematico, nel famoso massacro di Rais (un paesino che appoggiava il FIS) 4 elementi del GIA uccisero 238 persone ad una distanza di soli 100 metri da una caserma dell’esercito.

L’ISIS ricorda, in grande, il GIA, impiega tra Iraq e Siria tra i 30.000 e i 50.000 uomini. Senza contare gli affiliati in Nordafrica, Asia meridionale, e reti sparse in Europa, America o Australia che hanno giurato fedeltà ad Al-Baghdadi. L’ISIS tuttavia, tralasciando gli alti e bassi militari, ha la sua differenza rispetto ai predecessori sul piano della capacità organizzativa e dell’esperienza sul campo, due cose da prendere molto seriamente.

Una delle più sterili domande sull’ISIS è quella che chiede se l’ISIS sia islamico o no. Una risposta plausibile potrebbe provenire dai teologi, non dai commentatori politici. La risposta “no” viene data per difendere i musulmani dagli attacchi islamofobici. Ma la natura islamica del fenomeno è materia per quelle autorità religiose che credono ci sia un qualcosa che si possa chiamare “credo e pratica autenticamente islamici”.

Questa analisi non è compatibile con quella materialistica che non inizia con le idee autoriflesse della religione o della politica, ma “con i limiti materiali, i presupposti e le condizioni indipendenti” dal volere dei credenti.

L’ISIS, di certo, ha il suo posto nella storia e tradizione dell’ISlam politico. È perciò necessario comprendere la storia, le variabili e la base sociale di una tale tradizione se vogliamo comprendere l’ISIS. Lo sguardo di Chris Harman era quello di trattare la questione del come realizzare una società islamizzata in quanto politica, attraverso lo stesso tipo di dilemmi, fratture e fonti comuni alle altre società. L’aspirazione a sovvertire l’ordine presente delle cose non è di per sé sufficiente: è richiesta una base sociale per sostenere qualsiasi progetto politico significativo.

Il confronto col mondo esterno ha sempre posto un dilemma sia agli islamisti che alla sinistra rivoluzionaria.

Harman identificò 4 tipi di risposte a questo dilemma, con le rispettive affiliazioni di classe. Nella prima, Harman parla di “islamismo dei vecchi sfruttatori”, le classiche stratificazioni sociali conservatrici composte da proprietari terrieri, possessori di awqaf (manomorta, cioè diritto di proprietà perpetuo e privilegiato, connesso un tempo ai beni ecclesiastici e feudali, che erano dichiarati, oltre che inalienabili e inconvertibili, esenti da imposte), mercanti del bazar, mastri artigiani e così via. Nella seconda abbiamo “l’islamismo dei nuovi sfruttatori”, cioè quello dei proprietari del capitale finanziario ed industriale che hanno approfittato dell’apertura economica nell’Egitto degli anni ’70 e ’80, in cui la Fratellanza Musulmana è stato l’esempio centrale. Ci sono poi “gli islamisti dei poveri” che Harman identifica con gli ex-migranti dalle campagne alle città che si sono trovati gettati nell’insicurezza economica, se paragoniamo la loro nuova situazione con le piccole certezze della loro vita precedente. Questo gruppo, tuttavia, non ha fornito il nucleo portante dei quadri, degli ideologhi ed il sostegno alla politica islamista: questi sono arrivati dall’ “Islamismo delle nuove classi medie”. Questo tipo di islamismo rappresenta una forma di populismo: la classica politica di modernizzazione delle classi medie nel Sud Globale che prende la forma conseguente il fallimento del proclamato “socialismo”dei regimi di liberazione nazionale. A questo proposito, formazioni come il movimento neo-Salafita o i rivoluzionari islamici khomeinisti erano molto più vicine ai primi movimenti di liberazione nazionale, costruiti con gli studenti, gli ingegneri, i funzionari statali di livello medio basso e così via. Da questo ambiente nascono Al-Qaida e l’ISIS. Il metodo Harman è il corretto punto analitico di avvio, tuttavia non c’è bisogno di accettarne tutti i contenuti come tali.

Un punto che necessita di revisione – a causa del corso delle rivoluzioni e controrivoluzioni arabe – è la categorizzazione della Fratellanza Musulmana in quanto “riformista. In senso generale, nella ricerca di un cambiamento all’interno delle compatibilità del sistema, la Fratellanza è riformista. Non lo è da un punto di vista marxista. Il suo programma e la sua cultura politica sono eminentemente borghesi , senza il “collegamento organico” ai movimenti dei lavoratori, come succede invece nel Labour Party britannico.

I collegamenti organici della Fratellanza sono quasi sempre con il capitale, piccolo o grande, la relazione che intrattiene con i poveri e le classi subalterne è di tipo caritativo-clientelare piuttosto che di integrazione politica.

Questa non è una ragione per condannare la cooperazione tra le forze della sinistra e quelle della Fratellanza, specialmente se teniamo conto dell’attrazione di massa che l’organizzazione riesce a produrre in certi paesi e la pesante repressione a cui viene sottoposta. Tuttavia, si deve riconoscere che le traiettorie aperte da una tale cooperazione non sono quelle di un orizzonte comune socialista o di un organismo politico della classe lavoratrice, ma quello molto più limitato di una politica democratica.

Detto questo, sebbene l’ISIS rappresenti questo tipo di campo, non può essere letto semplicemente come “il frutto amaro” dell’imperialismo. Harman analizzò acutamente, nella sua discussione sul GIA ed altre simili tendenze, che i quadri ed il programma politico emergevano da un particolare ambiente sociale e da un particolare dilemma politico. Similmente, le fonti dell’ISIS sono riscontrabili nella fusione tra il “wahabismo” e quella del “salafismo politico” che si fecero conoscere come il “risveglio” (sahwa) durante gli anni ’80. il wahabismo è quella versione dell’Islam sunnita fondato da Muhammad Ibn Abd al-Wahhab all’interno della penisola arabica nel 19° secolo, che poi conquistò quasi l’intera penisola in alleanza con la confederazione tribale degli Ibn Saud. I seguaci del wahabismo preferiscono esser conosciuti come seguaci della “salafa”, la prima generazione seguente a quella del Profeta, che si sforza di portare nella società quella comunanza etica che dovrebbe riprodurre (l’immaginato) passato storico. Il lignaggio dell’ISIS giace in un ulteriore settore, quello del messaggio wahabita assieme al salafismo politico di un tempo particolare. Nella sua forma originale il salafismo era un movimento quietista di preghiera e sottomissione ai dominatori sul terreno in cui “l’ordine è dato da Dio” e che “qualsiasi ordine è meglio del caos”.

Le origini dei gruppi armati islamisti come l’ISIS riposa sulla metamorfosi del salafismo successiva all’esecuzione – nel 1966 – di Sayyid Qutb, il teorico egiziano della guerra santa politica.

Gli scritti di Qutb sono fondamentalmente incentrati sul come realizzare una società islamica. Il suo metodo di “propaganda attraverso l’azione” e dell’allargamento della coscienza – presi essenzialmente in prestito dai movimenti di guerriglia urbana del suo tempo – erano in contrasto con la pratica salafita prevalente, che consisteva nel vedere un cambiamento desiderato, più che reale: tenere bassa la testa nelle questioni politiche, cercare di influenzare l’ambiente circostante attraverso l’esortazione, la pubblica carità ed il buon lavoro. Quest’ultimo rimane, come lo è stato storicamente, la maggior pratica salafita. In più, c’è una strategia perseguita dalla Fratellanza – l’incorporazione di una strategia politica in una specifica base sociale, aumentandone la forza dentro e fuori lo Stato – con varie gradazioni di successo.

Il Qutbismo ed i suoi discendenti sono caratterizzati da una sintesi di elementi esclusi da entrambi quegli ultimi metodi. Propone un programma politico e condanna le società esistenti per essere in uno stato di ignoranza pre-islamica (jahiliyya) dovuta, in parte, all’intrusione dell’imperialismo occidentale. La risposta a questa degenerazione non è quella di ricercare una base sociale nella società corrotta, ma di sfuggirvi – sia in senso metaforico che fisico – stabilendo un’avanguardia che abbia nell’Islam il suo punto di riferimento dominante e solo poi ritornare ad islamizzare la società, sia con la predicazione che con la forza fisica. La caratteristica chiave di quasi tutte le correnti islamiste, risiede nel trasformare la lotta materiale contro l’imperialismo e il capitalismo in una „lotta ideologica contro ciò che essi vedono come i suoi effetti culturali“. Il Qutbismo prende questa logica proponendo il „takfir wal-hijira“ cioè „l’anatema e l’esilio“ dalla società che ha permesso a se stessa di essere così corrotta.

Qutb era in buona compagnia. Tra i suoi epigoni annoveriamo Abu Muhammad al-Maqdisi che fu, a sua volta, il massimo ispiratore ideologico di Abu Musab Al-Zarqawi, il fondatore dell’ISIS. Due esempi di occupazioni straniere nel mondo islamico, quella sovietica in Afghanistan e quella americana in Iraq, hanno fornito il coagulante incarnato dal neo-salafismo.

In contrasto con i primi pensatori salafiti come Rashid Rida, relativamente flessibile sulla questione del rinnovamento islamico, la stella polare di questo ambiente fu Ibn Taymiyyah, studioso sunnita del 13° secolo. La sua idea di Islam era molto rigida, sia nel considerare il monoteismo, che nel teorizzare l’assassinio per quei governanti che non seguono il vero credo e la vera pratica religiosa. Questi principi formano le fondamenta teologiche di una strategia politica. I malanni del mondo arabo-islamico sono perciò ascritti non al capitalismo o all’imperialismo in senso marxista, ma al dominio corrotto die tiranni che hanno deviato dal vero Islam.

Inoltre, Maqdisi suggerisce, nel suo influente libro „La via di Abramo“, che l’Islam ruota intorno alla fondamentale distinzione tra la lealtà verso gli islamici e la slealtà verso i non-islamici. Su questa base l’anatema può essere esteso, oltre ai non-islamici e ai miscredenti, anche a coloro che accettano passivamente il ruolo dell’autorità apostata. La popolazione è diventata corrotta, vivendo in un’ignoranza pre-islamica, formando una base passiva su cui il nuovo mondo viene imposto.

La violenza salvatrice è un modo per gettare un ponte fra due entità come lo sono un programma politico e le basi sociali. Come ha affermato un quadro dell’ISIS intervistato da Weiss e Hassan „Il progetto è pronto , dovete piazzarlo nella società come la corona ad und ente assicurandovi che tenga“.

Il grado di penetrazione fra i quadri di basso livello dell’ISIS di questo programma e visione del mondo, non è chiaro. Al livello militare più alto l’ISIS fonde una spuria serie di elementi che derivano largamente dall’invasione dell’Iraq e dalla catastrofe sociale conseguente. Com’è noto, una larga parte die superstiti sunniti dell’apparato di sicurezza dell’Iraq baathista dominava, inversamente da ciò che succedeva in Siria, in fusione con il „franchising“ iracheno di Al-Qaida a metà anni 2000. Lo Stato Islamico in Iraq, la prima incarnazione dell’ISIS della metà degli anni 2000, si alleò con una milizia islamo-baathista, la Jaish al-Rijal Al-Tariq al Naqshibandi (l’Esercito degli uomini dell’Ordine Naqshibandi), guidata da uno degli uomini più vicini a Saddam, Izzat Ibrahim al-Douri. Quest’alleanza fu l’inizio dello Stato Islamico in Iraq. Gli interrogatori die combattenti dell’ISIS catturati, pubblicati su The Nation, rivelano un quadro demografico della gioventù sunnita dell’Iraq: bambini dell’occupazione nati in un Iraq assediato, ma ancora baathista, dopo la Guerra del Golfo del 1991, che crebbero nella terrificante violenza di metà anni 2000, quando la loro comunità e gli uomini in particolare diventavano obiettivi dell’occupazione e dei suoi rappresentanti locali.

La transizione dal quietismo all’anatema e poi alla costruzione statuale nel salafismo politico, si formò allora per scelta politica e non teologica, come Harman comprese bene. L’ISIS è il risultato del punto morto rappresentato dal tentativo di imporre un ordine islamico all’intera società senza il sostegno dello Stato o della maggioranza della popolazione. Le precondizioni di questo progetto si trovano non solo nell’occupazione imperiale, ma pure nella rivoluzione, o piuttosto in una rivoluzione che non è riuscita a stabilire un’alternativa politica nazionale duratura. L’ISIS è un’istituzione statale costruita senza una base sociale: la rivoluzione siriana aveva una base sociale che non è riuscita ad affermarsi, oltre il livello locale, come potere istituzionale. È questa la contraddizione che ha permesso, assieme alle connivenze della controrivoluzione di Assad, l’espansione dell’ISIS.

Creature della rovina comune.

Ogni rivoluzione è una terrificante e grottesca commistione di collasso e rinascita. La rivoluzione è una forma di disastro e salvazione. L’intera imposizione di un ordine neoliberista richiede un momento in cui, la distruzione e il disastro diventano un’opportunità, almeno così immagina Naomi Klein quando parla di „capitalismo della catastrofe“. La catastrofe generata ed esacerbata dal capitalismo neoliberista offre più opportunità per far avanzare il progetto. La Klein cita Milton Friedman sull’impatto dell’uragano Katryna: „è una tragedia, ma anche un’opportunità“. Se il fatto è sovracitato e l’implicita visione di un benevolo, non disastroso capitalismo una chimera, l’intervento della Klein si è dimostrato produttivo.

Il Collettivo „Fuori dalla foresta“, in risposta, ha sviluppato la nozione di „comunismo della catastrofe“ come una strategia per l’emancipazione su di un pianeta distrutto nel periodo dell’Antropocene (l’era attuale, quella dell’intervento dell’Uomo, ndt).

Le catastrofi, suggeriscono, creano „comunità disastrate“ in cui le pratiche egualitarie sonno prefigurate e la generalizzazione delle catastrofi nel tardo capitalismo crea un percorso verso un“legame delle catastrofi“, l’autorganizzazione della riproduzione sociale una volta venuta meno la normalità capitalistica. La caratteristica di quest’autorganizzazione, suggeriscono, è probabile sia un „bricolage“ che ripropone (contrariamente alla posizione del gruppo Endnotes e di altri che affermano essere insalvabili le strutture del capitalismo) l’infrastruttura logistica delle società esistenti.

Iracheni e siriani stanno sicuramente subendo una catastrofe causata dagli umani e dalla loro politica. per gli iracheni il disastro consiste nell’invasione imperialista e nella conseguente guerra civile; per i siriani è la distruttiva controrivoluzione di Assad e le tattiche dell’assedio a tutto campo, della fame e die bombardamenti che ha impiegato.

Specialmente in Siria, tuttavia, gli organi dell’autogoverno locale fatti emergere con forza dalla rivoluzione hanno avuto qualcosa del carattere descritto come „catastrofe del comunismo“ – sebbene questi rappresentassero un’emancipazione politica più che sociale: „democrazia del disastro borghese“ potrebbe definirli meglio. È contro questi organi che sia l’ISIS che il regime di Assad hanno diretto le loro energie, spesso di concerto e con un elevato grado di successo.

Il processo iniziò con l’infiltrazione di operativi di Al-Qaida (allora sotto l’egida di Al-Nusra) nelle aree liberate dal regime. I primi infiltrati erano pochi di numero che spesso portavano con sé del contante, pistole ed ausili medici. Dopo la spaccatura tra l’ISIS e Nusra, soprattutto, iniziarono la presa di intere aree liberate dal regime e guidate dai consigli rivoluzionari locali. Come affermato da Robin Yassin-Kassab e Leila Al-Shami nella loro essenziale storia della rivoluzione siriana Burning Country, nella città di Saraqeb, sede di un consiglio particolarmente attivo, l’ISIS chiuse il centro dei mezzi d’informazione e della stampa e ne arrestò i relativi membri. È probabile che le crocifissioni e frustate operate dall’ISIS a Raqqa nel 2013 non fossero ai danni die sostenitori del regime, ma degli oppositori politici.

Christof Reuter riporta, nel Der Spiegel, che il gruppo prese il potere a Raqqa per mezzo dell’eliminazione fisica della locale brigata dell’FSA, rapendo i leader rivoluzionari locali ed uccidendo un giornalista e attivista anti-Assad di primo piano, spedendo poi via email ai contatti del giornalista le foto del suo cadavere con il commento „sei triste ora per il tuo amico?“. Lo stesso schema fu ripetuto in tutte le aree prese dall’ISIS, completamente in linea con il modello di controllo baathista ereditato dai funzionari della sezione dell’intelligence irachena che ne forma una parte importante della leadership. Ciò è in linea pure con la dottrina dell’ISIS secondo cui le rivoluzioni del 2011 avrebbero „rimpiazzato il meglio con il peggio“. Per questa ragione l’ISIS considera la Fratellanza Musulmana egiziana come l’apostata peggiore per aver partecipato alle elezioni del 25 gennaio della rivoluzione.

L’ISIS è controrivoluzionaria e orgogliosa di esserlo.

Come risultato, l’attore cui l’ISIS è risultata più utile non sono né gli USA né la Turchia, ma piuttosto il regime di Assad, sebbene l’ISIS non sia semplicemente uno strumento o una creatura del regime in misura maggiore rispetto agli altri Stati del Golfo. Molte delle istanze di cooperazione frag li stessi, per esempio nella vendita e produzione di energia, potevano venire dismesse come esigenze legate alla guerra. C’è invece una lunga storia che le riguarda. Prima che lo „Stato Islamico in Iraq“ nascesse, l’intelligence baathista siriana cooperava con i gruppi sunniti che combattevano l’occupazione americana dell’Iraq. Come rivelano i „Sinjar documents“, il regime stabilì le linee di rifornimento e transito dalla Siria all’Iraq che furono poi rigirati all’ISIS per infiltrare la Siria una volta che la rivoluzione era iniziata. All’inizio della rivoluzione siriana il regime adottò la strategia che gli permise di resistere con tale resilienza: violenza estrema e settarismo. Nel suo discorso all’Assemblea del Popolo nel marzo 2011Assad accusò i contestatori di essere parte „dei tentacoli di una grande cospirazione“ basata sugli „elementi settari“ e chiamò i siriani al loro „dovere nazionale, morale e religioso“ di „affossare la sedizione“. In quel momento non c’era alcun Esercito Libero Siriano (FSA). Quando il primo di questi gruppi apparve nell’estate del 2011 esso non era composto di sanguinari jihadisti, ma da disertori dell’Esercito Siriano e contestatori che difendevano loro stessi dal fuoco delle armi del regime. Queste unità in certi casi venivano addestrate da Zubaida Al-Meeki, un generale donna Alawita, il disertore dell’esercito di più alto grado, per la rivoluzione. Nella città costiera di Latakia, nella patria Alawita (sebbene in lieve maggioranza sunnita) i contestatori espulsero dai loro ranghi i jihadisti. Nelle aree miste, come nel centro di Homs, il regime concentrava e scaricava un’eccezionale potenza di fuoco sui distretti sunniti nel mentre preservava quelli Alawiti.

Senza dubbio una delle mosse più astute del regime fu quella di imprigionare, torturare e uccidere gli attivisti rivoluzionari mentre rilasciava dalle prigioni un gran numero di jihadisti. Centinaia di migliaia di siriani vennero imprigionati dal 2011, un gran numero di questi torturati a morte e i loro corpi fotografati. L’archivio fotografico rivelato dal disertore „Caesar“, rivelava la vastità della cosa, riportando oltre 6000 casi. Nella primavera del 2011 Assad rilasciò diverse centinaia di islamisti detenuti, appartenenti a violenti gruppi takfiristi, inclusi quelli che sarebbero diventati la leadership siriana dell’ISIS. La prevalenza di questi gruppi e la relativa assenza degli attivisti civili die primi momenti della rivoluzione non è un mistero, come non è un mistero l’odio conseguente della maggioranza sunnita per tutte le minoranze religiose. La cosa ha a che fare con il fatto che Assad ha rilasciato i jihadisti e ucciso gli attivisti.

Questa collusione continuò tanto quanto la controrivoluzione si sviluppò in guerra civile. Quando l’ISIS prese i territori dall’FSA, questi vennero largamente risparmiati dai bombardamenti altrove scatenati dal regime su ospedali, distretti civili e semplici negozi.

Fino all’inizio di Inherent Resolve nel 2014, raramente Assad combattè del tutto l’ISIS: gli scontri principali ebbero luogo intorno a Deir Al-Zour nell’estremo oriente, centro di produzione petrolifera. La battaglia per Palmira, sito archeologico famoso internazionalmente, ha fatto guadagnare al regime il titolo di „protettore del patrimonio artistico mondiale“ contro la „barbarie fondamentalista“. I documenti sull’ISIS, rilasciati a Sky News nel maggio 2016, mostra la collusione tra l’ISIS e Assad nel produrre proprio questo risultato, incluso l’ordine dato appena prima dell’intervento del regime nella ripresa del sito che dice di „ritirare tutta l’artiglieria pesante e la contraerea da e intorno Palmira fino alla provincia di Raqqa“. [IS files reveal Assad’s delas with militants“, Sky News, 2/5/2016].

La controrivoluzione di Assad è stata il disastro in Siria, l’ISIS la sua beneficiaria. È stato l’ISIS ad organizzare l’infrastruttura – i campi petroliferi in primo luogo – die territori siriani „liberati“, permettendogli di distruggere le strutture rivoluzionarie locali. Fu l’ISIS ad essere stato in grado di assemblare un nuovo ordine emergente dalle rovine, in grado di funzionare. È stato l’ISIS che ha dimostrato il fegato e l’unità ideologica tali da imporre la „catastrofe della controrivoluzione“.

Qui risiede un’importante lezione per i rivoluzionari: se non imponi un piano per rirpoporre il „bricolage“, qualcun altro lo farà.

Il ruolo di repressione della rivoluzione, proprio dell’ISIS, significa che sia una forma di fascismo? La valenza retorica del termine è ovvia: fuori dai circoli fascisti nessuno può essere accusato di argomenti a favore del fascismo. Di più: definire un nemico come fascista permette il formarsi di ampie coalizioni contro quel nemico. Per questa ragione, il termine „Islamofascismo“ è stato adottato molto ampiamente da quegli intellettuali e forze politiche che sostengono la guerra americana al terrorismo e al dispotismo locali, che dipingono loro stesse in termini laici. Per le stesse ragioni coloro che si oppongono a questa guerra sono stati timidi nell’identificare la politica islamista col fascismo per paura di legittimare la guerra imperialista e le reazioni islamofobiche. Il caso ISIS in Siria ha iniziato ad intaccare questa cautela. L’intellettuale siriano di sinistra Yassin Haj Saleh, uno che non sostiene la guerra al terrore ed egli stesso originario di Raqqa e i cui stessi membri della famiglia son stati rapiti dall’ISIS, descrive il regime come „il fascismo in doppiopetto“ e l’ISIS come „il fascismo barbuto“. Ghayat Naisse della Corrente Rivoluzionaria della Sinistra Siriana ha presentato l’analisi marxista forse più lungimirante suggerendo che l’ISIS sia fascista per natura. Ricade nella classica definizione di fascismo, dice Naisse dalle pagine del giornale „International Socialism“, poiché l’organizzazione riposa su quegli strati sociali descritti da Trotzky, nel caso tedesco, come „pulviscolo umano“ – gli strati atomizzati della piccola borghesia capeggiati da un partito-milizia che cerca di fondare una nuova forma di Stato. Piuttosto che riflettere e mobilitare le masse per capovolgere le relazioni sociali, questo partito-milizia percepisce se stesso come una élite guerriera in campo per riplasmare gli umani attraverso l’uso della più estrema violenza. Il fascismo è così un movimento „contro lo status quo“ che funziona per preservare il capitalismo attraverso la distruzione di ogni spazio politico indipendente, in primo luogo di quello occupato dalle organizzazioni delle classi subordinate – una distruzione che l’ISIS ha di sicuro creato. Per questa ragione, la politica fascista cresce veramente solo in tempi di crisi quando quelle classi subordinate sono abbastanza minacciose e le classi dominanti sufficientemente minacciate da queste richiamano gli imprevedibili servizi di un esercito-partito di estrema destra.

Dalla parte opposta dell’argomentazione di Naisse, sulle stesse pagine di quel giornale, ci sono Haytham Cero e Anne Alexander. L’ISIS, dicono, non può essere considerata fascista perché manca di quella base di massa piccolo borghese caratteristica del fascismo europeo ed è più una milizia settaria locale sotto l’egida di un ambizioso „signore della guerra“. Si tratta allora di una reazione opportunistica molto simile a formazioni come il Lord’s Resistance Army ugandese. L’ISIS non cerca né necessita di una base di massa con cui abbattere un movimento rivoluzionario di lavoratori come quelli in Italia e Germania negli anni ‚20 del ‚900, perché nessuno di questi movimenti era presente in Siria o in Iraq e non c’era alcuna rivoluzione in atto. Nessuna di queste due ipotesi devono essere cancellate, ma sembrano al tempo stesso entrambe inadeguate.

La questione se l’ISIS sia fascista o meno sembra più significativa se posta in maniera diversa: quanto fascismo c’è nell’ISIS? Non c’è bisogno di chissà quale coscienza politica per capire che le prime due decadi del 21° secolo vedono il collasso del vecchio ordine politico più o meno come nel periodo fra le due guerre nel secolo scorso e che questa crisi sta facendo nascere strani effetti sotto il segno del „populismo“. L’ascesa di partiti e contendenti di estrema destra nelle democrazie liberali, come Trump negli USA o Le Pen in Francia, ne sono gli esempi più notevoli. Non tutti i sintomi sono macabri, come Sanders e Corbyn dimostrano. La crisi di mediazione e della rappresentanza scaturita dalla crisi finanziaria del 2008 sta – indubbiamente – dando fiato a forme proto o pseudo-fasciste. I sentimenti non sono una definizione scientifica.

Il problema tipico del fascismo è se può esser definito dal suo programma ideologico, la sua pratica politica o dalle condizioni da cui emerge. L’ideologica fascista tende all’eclettismo, assemblando parti di altre tradizioni politiche. La pratica politica fascista tende ad essere violenta ed estetica. La classiche condizioni per l’emergenza del fascismo, per quanto ne sono coscienti i marxisti, sono quelle della crisi evidenziata sopra: l’incapacità della classe dominante di continuare con le forme normali della politica e la sua volontà di allearsi con i partiti-milizia più violenti per distruggere un insorgente movimento di lavoratori.

Se uno cerca queste possibili configurazioni nell’estrema destra contemporanea – ISIS incluso – ve ne ritroverà qualcuna. La dislocazione del risentimento post-crisi sugli outsider o i musulmani si ritrova ampiamente nell’UKIP, in Trump o Le Pen. L’ISIS trasuda estetismo dalle sue bandiere, dai gesti delle mani e violenza controrivoluzionaria estrema sebbene nella forma della presenza sui social e valori altamente produttivi. Tuttavia, una lista completa in grado di abbinarsi con i fascismi storici non è possibile. In larga parte è a causa della comune assenza: quella della presenza di un minaccioso movimento dei lavoratori che il fascismo cerca di annientare.

La crisi contemporanea richiama ulteriori movimenti reazionari che non sono degli strumenti utili ad una classe dominante alla fine della sua storia, ma il progetto di una „comune rovina delle classi in contesa“. Se l’ISIS è fascismo è il „fascismo della rovina“. Solo questo può essere il caso più rilevante del mondo al di fuori del Medio Oriente.

Il fatto che l’ISIS sia una forma particolare di islamismo e che la sua visione del mondo abbia un carattere peculiare è importante e conseguente. L’ISIS è certamente un progetto dentro il capitalismo, come vedremo più sotto. Non è, pure nel ricevere fondi dagli Stati del Golfo, un progetto die capitalisti. Il nucleo dell’organizzazione, l’amalgama di funzionari dell’intelligence baathista e i jihadisti internazionali sunniti potrebbero esser visti come una „classe in formazione“, coagulantesi intorno ad una violenza eccezionale e ad una identità settaria. E nemmeno l’ISIS può essere visto come il plausibile rappresentante della borghesia siriana o irachena: i suoi membri non appartengono a questi gruppi e la loro relazione con essi è brutalmente estorsiva. L’ISIS coltiva relazioni con particolari gruppi sociali, commercianti di petrolio e sceicchi tribali, ma questo è parte della sua strategia di costruzione di alleanze piuttosto che rappresentarne una base sociale come tale.

L’ISIS è una forza controrivoluzionaria che funziona per distruggere tutte le organizzazioni popolari indipendenti emerse durante la rivoluzione. La relazione di questa controrivoluzione con le sottostanti relazioni produttive non risiedono nella direzione cosciente di un progetto di classe, ma nei limiti della riproduzione imposti ad una visione senza una base sociale sicura.

La presa dell’infrastruttura capitalista in nessun‘ altra situazione è così chiara come nel finanziamento dell’ISIS.

Economia escatologia.

Le relazioni sociali urtano, nella loro ricerca di finanziamenti, contro lo Stato, le sue istituzioni e le altre organizzazioni. È attraverso questa realtà mondana che i limiti causali di un sistema di riproduzione sociale si istituisce: un’organizzazione che ricerca e riceve i propri finanziamenti dai sindacati e/o dal sistema cooperativo sarà terreno fertile per un certo tipo di visione del mondo; una ricerca di finanziamenti che si fonda sul petrolio ne provvederà un’altra.

L’ISIS, a questo riguardo, rappresenta un caso sconcertante, la cui illuminazione non è aiutata dall’ampia disseminazione di miti intorno a chi sponsorizza e sostiene l’organizzazione.

Il primo di questi miti, sostenuti sia a destra che a sinistra, è che l’ISIS sia finanziato dall’Arabia Saudita.

Nessuno dovrebbe sottostimare la ferocia del regime saudita: la petromonarchia reazionaria rimane controrivoluzionaria verso l’esterno (per esempio nel sostegno al colpo di stato di Al-Sisi) e repressiva come al solito verso l’interno. Una cosa di cui i sauditi non possono essere accusati, tuttavia, è il sostegno all’ISIS. Gli argomenti contrari al loro sostegno riflettono il conflitto in essere fra tutte le tendenze dell’islamismo sunnita (Fratellanza, Arabia Saudita, ISIS) che si elidono a vicenda in una sorta di inimicizia triangolare. I jet sauditi, quando non sono impegnati a bombardare gli yemeniti, sono impiegati in operazioni militari contro l’ISIS. Lo Stato saudita non ha spedito un solo riyal agli uomini di Al-Baghdadi ed è stato, trag li Stati del Golfo quello che ha avuto più successo nel fermare i flussi privati al gruppo. Secondo la testimonianza, intorno ai finanziamenti all’ISIS, data al House Financial Services Committee da Matthew Levitt nel novembre 2014, i donatori sauditi sono ricorsi ad altri canali per mandare i propri soldi, ed in particolare attraverso la più permissiva giurisdizione del Kuwait.

Ma se i sauditi non pagano per l’ISIS, allora chi lo fa? Le donazioni private sono solo una parte dei finanziamenti del gruppo, ma sono nulla in confronto ai flussi verso Jabhat Al-Nusra/Fateh al-Sham. Al-Qaida è vissuta grazie a pesanti finanziamenti privati, ma l’ISIS è quasi indipendente da questo tipo di finanziamento. Ancora, d’accordo con la testimonianza congressuale di cui sopra, dal 2014 l’ISIS ha costituito riserve per circa 40 milioni di $ da donatori privati del Golfo. Questa è una sostanziosa cifra, ma equivalente – secondo il Financial Times – ad un mese di guadagni, del 2014, derivanti dalle sole vendite di petrolio.

L’ISIS sarebbe di certo danneggiato da un taglio dei finanziamenti „esterni“, ma non ne sarebbe devastato. Questo complica, piuttosto che semplificare, il quadro: se l’ISIS fosse solo un burattino creato dai soldi del Golfo questo si potrebbe spiegare come l’essere (dell’ISIS) uno strumento della sezione più sciovinista della borghesia petrolifera. L’ISIS, tuttavia, si comporta come tutti gli altri Stati capitalisti, nel riprodurre i suoi guadagni, estraendo i propri guadagni dall’imposizione di tasse e col commercio.

L’ISIS, ancora secondo il Financial Times, impone come minimo 4 forme di tasse e dazi nei territori che controlla: una zakat generica del 2,5% sulle attività i cui beni sono stimati dai „revisori die conti“ dell’ISIS; una decima agricola del 5% sull’irrigato e del 10% sulle coltivazioni irrorate da acqua naturale; la jizya, una tassa sul voto, imposta alle minoranze religiose o più probabilmente sulle loro proprietà una volta uccisi o espulsi i membri delle stesse; la „cresta“ che l’ISIS prende dal transito commerciale attraverso i suoi territori. L’organizzazione ha anche afferrato dei considerevoli bottini dalle sue conquiste, depositi bancari inclusi, una porzione dei quali è promessa a coloro nche hanno combattuto per impossessarsene. I beni non militari sono venduti ai „mercati del saccheggio“ a prezzi aumentati, similmente a quello che succedeva nei cosiddetti „mercati sunniti“ a Damasco nelle prime fasi della guerra civile siriana dove le milizie del regime vendevano il saccheggiato durante le loro puntate nelle città rivoluzionarie.

L’ISIS raccoglie ingenti somme da queste fonti, o come minimo lo fa fino all’inizio dell’operazione aerea Operation Inherent Resolve. Il Financial Times stima che i dazi sui transiti abbiano fruttato 140 milioni di $ l’anno, costituendo risorse di 875 milioni di $ prima del 2014 e 23 milioni inaspettati nella forma di tasse sui salari die funzionari civili iracheni con la caduta di Mosul. Tuttavia, la fonte di guadagno di gran lunga più redditizia è il petrolio.

Le riserve petrolifere siriane sono piccole e le raffinerie vecchie; le riserve dell’Iraq occidentale sono ben più significative. In entrambi i paesi l’ISIS ha avuto successo attraverso un piano cosciente di presa del controllo della linfa logistica vitale dell’economia capitalistica.

Uno sguardo alle mappe rivela questo: piuttosto che rappresentare uno stato di contiguità, il Califfato copre i campi petroliferi, i trasporti da e per gli stessi ne sono il collegamento ed il controllo è esercitato nelle città vicine ad essi. Nei primi giorni della presa di Mosul da parte dell’ISIS nel 2014, uno sceicco locale originario dalle parti di Kirkuk, disse al Financial Times: „Erano pronti, avevano persone responsabili della parte finanziaria, avevano dei tecnici che si occupavano del processo di riempimento e stoccaggio…..presero dei camion da Kirkuk e Mosul ed iniziarono ad estrarre ed esportare petrolio“.

Il petrolio viene commercializzato dal comitato centrale dell’ISIS, la shura, non attraverso i governatorati subordinati a cui sono devoluti gli affari locali. Questo controllo fa guadagnare all’organizzazione nella regione 450 milioni di $ l’anno: l’ISIS raffina parte del proprio petrolio e fornisce di licenza i commercianti per vendere il resto, anche a prezzi molto alti. L’ISIS vende il petrolio a 20-45 $ al barile, secondo il Financial Times. Vende petrolio e gas naturale al regime di Assad, alle forze ribelli e alla Turchia. Sebbene le collusioni dimostrabili tra l’ISIS e Assad siano numerose e classificabili come strategiche, questo commercio è più probabilmente il risultato della confusa dinamica della guerra civile: tutti comprano da e combattono con tutti gli altri. L’ISIS inoltre detiene un mercato bloccato. Tutti gli abitanti dell’Iraq occidentale e della Siria settentrionale devono continuare ad usare quella energia, cosa di cui beneficia l’ISIS. La visione del Califfato dell’ISIS non è naturalmente incompatibile col capitalismo. Non è neanche incompatibile con la gestione di joint-ventures con il regime di Assad, come succede nella raffineria di gas a Tuweinan, nella Siria orientale. L’ISIS si prende una cresta del 60% del prodotto e dà il rimanente al regime, il quale continua a pagare i salari agli operai e a spedire nuovi ingegneri all’impianto. Hesco, il conglomerato statale per l’energia guidato da George Hasawni, sembra pagare la jizya per i suoi dipendenti non musulmani.

Non c’è bisogno di dire che la disciplina del lavoro, rafforzata dall’ISIS, è apertamente brutale, basata sulle frustate e le esecuzioni sommarie. È un errore credere che le relazioni sociali capitaliste siano incompatibili con la tirannia. Tuttavia, il calo di popolazione delle aree occupate dall’ISIS, si ripercuote sulle sue entrate fiscali. L’ISIS ha risposte alle fughe di popolazione con mezzi coercitivi: emettendo una fatwa che proibisce tali tentativi di fuga.

La mutua utilità di tiranni ed apostati dovrebbe esser chiara. Provvedono l’un l’altra di una strategia di tensione permanente, un mezzo – nelle parole dell’ideologo jihadista Abu Bakr al-Naji – per „eliminare la zona grigia“. I tiranni fanno la parte degli oppressori, gli apostati quella degli impauriti, fin quando non c’è presente almeno un oppresso o un impaurito. Le controrivoluzioni arabe, dal 2011, hanno visto la strategia dei massacri con larghi mandati. Va da sé che coloro che sono impegnati in una politica di emancipazione dovrebbero essere nemici dell’ISIS. Va anche da sé che i nemici dell’ISIS (quelli finti come Assad e quelli veri come i poteri occidentali) non sono necessariamente amici dell’emancipazione. L’ISIS è nato dalla catastrofe della controrivoluzione e dell’imperialismo. La vittoria di queste forze, anche se l’ISIS fosse momentaneamente battuto, porterebbe altre mostruosità, non alla loro scomparsa.

Dell’altro stà arrivando. Sarebbe bello pensare che la morte di un ordine sociale degenerato si potesse fermare ad una sola regione. Il disastro incombe su di noi. L’ISIS era pronto. Chi altro lo è?

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About the Author

Sergio Mauri
Blogger, autore. Perito in Sistemi Informativi Aziendali, musicista e compositore, Laurea in Discipline storiche e filosofiche. Premio speciale al Concorso Claudia Ruggeri nel 2007; terzo posto al Premio Igor Slavich nel 2020. Ha pubblicato con Terra d'Ulivi nel 2007 e nel 2011, con Hammerle Editori nel 2013 e 2014, con PGreco nel 2015 e con Historica Edizioni e Alcova Letteraria nel 2022 e Silele Edizioni (La Tela Nera) nel 2023.

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