Il lutto è movimento, la nostalgia è la stasi.
Si dice che viviamo in un periodo in cui dominano le “fake news” e la “politica della post-verità”. Bisogna capirsi meglio. La politica pre o post-verità include la “guerra al terrore” e tutte le falsità e ortodossie che guidano alla sconfitta delle élite ad iniziare dal “credit crunch”, la stretta creditizia. Ciò che è stata superata è la tecnica, non la verità. Per cui l’idea di “fatto” come misura oggettiva della realtà ha perduto terreno. La tecnocrazia è esattamente ciò che intendiamo come “politica della post-verità”. I fatti non fanno altro che evitare la spinosa questione della verità. Le “fake news” sono una fusione di infotainment, propaganda, pubbliche relazioni e pessimo giornalismo che hanno trovato nuova linfa nella pubblicità in rete (e relativi guadagni).
Coloro che lanciano invettive contro le “fake news” colpevoli di aver fatto crescere il fascismo e il populismo di estrema destra non si accorgono che queste forme degradate di informazione hanno trionfato nel vuoto di proposte politiche prodotto dal consenso del dopo-Guerra Fredda. Inoltre, non si dice nemmeno che le “fake news” sono uno dei sintomi del crollo del quasi totalmente monopolizzato controllo ideologico precedentemente goduto da ampi settori, statali e commerciali, dei mass-media. La frammentazione dei contenuti, la crescita del “narrowcasting” (cioè la trasmissione mirata dei contenuti), la proliferazione degli autori, potrebbero anche avere un senso più positivo di quello che hanno, ma il problema è che noi ci siamo dentro all’ombra della catastrofe.
La caduta dell’URSS non ha segnato la sconfitta né la conferma del socialismo, se non per la inequivocabile questione per cui la persistenza del capitalismo significa la morte di tutte le specie viventi. Tutto, dai partiti ai sindacati alle pubblicazioni, si frammenta a livello atomico. La politica, senza la possibilità di un futuro liberato, diventa reazionaria. Nuove forme di politica antisistema stanno emergendo per approfittare delle nuove forme di media sociali, ma non possono da sole rimpiazzare quanto si è perso. Senza riconoscere ciò che è stato perso non possiamo utilizzare creativamente ciò che è stato lasciato.
Mentire è una condizione della nostra autonomia. Chiedere a qualcuno di non mentire significa che quel qualcuno non è uguale a noi, bensì inferiore, poiché non abbiamo alcun diritto di chiedere risposte veritiere a chi ci è pari. Inoltre, c’è il problema che l’onestà intellettuale obbligata, sabota il pensiero. Applicate queste considerazioni alla politica, una strategia politica consistente in una sfilza di “fatti”, e vi accorgerete che sarebbe una tirannia della tecnica e un’evitare la verità.
Quando parliamo di politica della “post-verità” presupponendo di essere appena usciti da un’era (dall’Iraq al credit crunch) in cui la verità era raccontata, prendiamo un granchio. I fatti, come un qualcosa di puramente oggettivo e misurabile, non possono essere mai totalmente oggettivi. Parlare per luoghi comuni apparentemente neutri è come esporre il prestigio dell’ideologia dominante.
Pertanto è strano ed inutile dare tutta la colpa della “post-verità” ad Internet, come se il tutto non fosse interno al nostro mondo di relazioni economiche e sociali: Internet è una serie di processi e relazioni mediate dalle sue basi tecnologiche e dai suoi protocolli. Tuttavia, una cosa è particolarmente interessante perché inclusa nel processo, ed è la scrittura.
Siamo tutti autori e tutti veniamo pubblicati. Indubbiamente passiamo molto tempo a scrivere. Si tratta di una democratizzazione e mercificazione dello scrivere. Scrivere ci dà la possibilità di reinventarci. Usando certe forme linguistiche o certe parole diamo forma ad un qualcosa che altrimenti non ci sarebbe.
Creiamo qualcosa di nuovo. Molti di noi oggi, invece di tenere un diario, mettono la propria vita in rete. In questo modo ci conformiamo ai nostri simili, diventiamo leggibili da costoro. Ad essere sinceri, c’è un’ulteriore forma di scrittura creativa che ha raggiunto un certo livello di autonomia ed è la programmazione, cioè il coding.
Questo ci caratterizza forse anche di più che non lo scrivere nell’alfabeto fonetico.
I media sociali non sono nuovi: certi giornali popolari di sinistra hanno operato, nel passato, come tali, ma è il media sociale capitalista a essere nuovo. I formati di media sociali sono strutturati in maniera tale da fare di noi dei piccoli imprenditori. Il nostro scrivere diventa una forma di “costruzione di una personalità aziendale” che cerca di ottenere un seguito. Si tratta, al tempo stesso, di un’apertura democratica e di una chiusura proprietaria. Entrambe sono nuove opportunità, ma accelerano la “cultura del narcisismo”.
I media sociali da una parte rompono il monopolio ideologico dei media mainstream, dall’altra, col loro individualismo in rete, sono terreno di gioco per il neoliberismo.
Nessuna tecnologia è neutrale. Se l’energia nucleare tende a sostenere strutture segrete e gerarchiche, i media sociali tendono a sostenere l’effetto panottico. Chiaramente tutto ciò ha costi e benefici. Naturalmente, sui media sociali non tutti possono avere successo, anche se in teoria si. Le grandi aziende di media sociali e le aziende di pubbliche relazioni, tuttavia, vincono sempre. Veniamo, quindi, trattati come delle piccole imprese e soffriamo di tutti i problemi delle piccole imprese che, finché non diventano grandi, non hanno le risorse per guadagnarsi l’attenzione che meriterebbero.
I media sociali non sfidano solamente il potere dei grandi operatori, ne aumentano talvolta la forza, grazie al fatto che la competizione e seduzione mercantile fa vincere queste ultime sulla polverizzazione delle idee.
Questo succede perché i media sociali capitalisti non sono alternativi o in opposizione al mainstream, ma ne sono un’estensione. La questione delle “fake news” ha in sé tutte le debolezze per crollare su sé stessa. Quando il Washington Post faceva la guerra contro le “fake news” del Cremlino, pubblicava “fake news” sui tentativi di sovversione da parte dei russi negli USA.
Se, allora, di solito chiamiamo “fake news” un qualcosa che è compreso nell’infotainment, pubbliche relazioni, gossip, propaganda militare e governativa, in che senso parliamo di “post-verità”? Se parliamo ad esempio dei “messicani tutti stupratori” o di “immagini satellitari di laboratori di armi segrete”, ci accorgiamo che entrambe le bugie dislocano il desiderio coloniale in modi differenti, che vanno dalla supremazia bianca globale al nazionalismo bianco difensivo. Un modo per preservare la distinzione razziale organizzata attorno al concetto di “bianchezza”.
Le bugie cui siamo preparati a credere o diciamo, dicono molto dei nostri desideri. Il desiderio è il luogo della verità politica. Il desiderio è l’altra faccia della ragione. Se esso viene escluso dalla politica, se diventa semplice questione di gestione dello status quo o l’assemblare coalizioni per prevenire maggiori cambiamenti, allora i desideri che dovrebbero progettare il futuro si incagliano e diventano nostalgicamente reazionari.
Questa è la vera relazione tra la politica della “post-verità” e la nuova estrema destra. La politica della “post-verità” è il trionfo della politica manageriale, una politica in cui dopo l’89, l’onda lunga della sconfitta del comunismo è stata registrata attraverso un’immediata contrazione dell’orizzonte delle possibilità. Un’intera rappresentazione del 20° secolo in cui i disastri del tempo furono anche il terreno per grandi speranze rivoluzionarie, è crollata.
I media sociali sono i luoghi in cui si ritaglia una personalità-azienda, in cui si può essere alla moda aiutando contemporaneamente, l’accumulazione di capitale. Tutto ciò non è proprio nuovo, se non nel fatto che si è sviluppato all’ombra della catastrofe. Una catastrofe non solo di desiderio e progetti, ma anche luogo verso cui il capitalismo ci stà portando.
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