di Sergio Mauri
Vico tenta di mettere ordine nelle idee, iniziando dal chiarire il significato delle parole che usiamo.
Perciò noi semplicemente non parliamo e basta, usando il linguaggio come un nostro mezzo, ma siamo parlati e le parole hanno una loro autonomia e un loro senso. La consapevolezza che le parole pensano e noi pensiamo attraverso il pensiero contenuto nelle parole e smetterla di pensare si possano usare delle parole come dei semplici strumenti neutri a nostra disposizione.
Questa è la consapevolezza di Vico. Si tratta del primo passo per mettere ordine nel nostro linguaggio. Quando conosciamo l’etimo, l’origine della parola, poi bisogna cominciare a pensare con queste parole che pensano.
Pensare è impossibile se non attraverso il linguaggio. La parola, in ultima analisi, rimanda a ciò che non è parola: la parola non è fondamento della parola.
Tutti noi facciamo la storia, ma non sappiamo mai la storia che facciamo. Ci confrontiamo con l’insondabilità dell’origine della parola e l’imprevedibilità del futuro. Una parola non nasce per definire e determinare una cosa, nasce per potersi esprimere. La parola ha una relazione problematica con la cosa.
Nella parola una cosa può apparire solo come apparenza e fenomeno. Quando noi diciamo una cosa non diciamo la cosa, ma un fenomeno. “Fare ordine” significa capire i limiti della parola. Senza un limite non puoi fare ordine.
Quindi la filologia si deve accompagnare con l’esattezza; l’etimologia con l’immaginazione. La filologia ci fa comprendere la storia e il divenire della parola e la sua problematicità.
Come faccio a comprendere il senso, il simbolo di quella parola usata da Dante o Virgilio? Non basta la filologia. Devo avere la capacità e la forza di traspormi in quell’epoca anche senza potermi veramente immedesimare in quell’epoca. Non potremo mai essere contemporanei o nella testa di Virgilio, ma potremo immaginarci in quell’epoca e in quel contesto. Si tratta quindi di un esercizio di mobilità tra distanza e vicinanza.