Abbiamo dunque visto che Hobbes e Locke in comune hanno la prospettiva della fondazione dello Stato. Un ente politico apparentemente neutrale, poiché tollera solo valori confacenti al potere (e al ceto dominante). Lo Stato liberal-liberista non è tollerante, ma accetta solo i propri parametri e valori di dominio. È uno Stato monoclasse, poiché attraverso il sistema elettorale censitario permette a una sola classe di partecipare alla vita politica. La macchina politica è assoluta, mantenendo la potestas sul diritto. Qui prenderà l’avvio il positivismo giuridico, una prospettiva monistica che supera tutte le prospettive dualistiche incentrate sul rapporto diritto naturale/diritto positivo. Si tratta di uno Stato in grado di proteggere la persona umana offrendogli anche una possibilità di intervento. Il diritto è comando. Al processo di formazione dell’assolutismo statale partecipa anche Kant. Kant, dice Todescan, riflette sulla logica dello stato di diritto lockiana. Kant, dunque, andrebbe ricollegato ai contrattualisti, alla scuola del diritto naturale (Grozio, Hobbes, Locke, Pufendorf). Kant si collocherebbe accanto ai fautori, come Locke, dello Stato liberale. Kant viene annoverato tra i protagonisti dell’Illuminismo, anche se in modo più discreto di Voltaire. Sviluppa una prospettiva opposta all’assolutismo imperante. Vediamo brevemente il testo kantiano Sul detto comune “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”. Per Kant la sudditanza del suddito nei confronti del potere è il più grande dispotismo che si possa pensare. Qui abbiamo un collegamento con Locke: ognuno deve esser felice a modo suo, ognuno deve poter ricercare la propria via, purché non rechi danno alla libertà altrui. In ciò potremmo cogliere la distanza che separa Kant dalla teoria dello Stato etico hegeliano. Tuttavia, è la prospettiva liberale che offre le basi all’assolutismo statuale, poiché la costruzione liberale, presupponendo l’essere umano libero (in natura) e sregolato, fa sì che il male della regolamentazione sociale risulti necessario, con la conseguenza di recepire il diritto come strumento del controllo sociale assolutamente monopolizzato dallo Stato. Questa concezione si fonda su un’idea innata in un essere umano presociale, privo di vincoli. Tale essere umano deve essere regolato tramite una forza superiore. Ma visto che tale libertà dello stato di natura è semplice finzione, ipotesi, allora tutta la questione è finzione atta a giustificare l’assolutezza dello Stato. Anche Kant si potrebbe collocare dentro questo itinerario. Punto di riferimento qui è la Metafisica dei costumi. In questa opera Kant distingue tra diritto pubblico e privato che corrispondono a due forme di regolamentazione dei rapporti sociali.
L’una ricollegata a un ambito a-statuale (lo stato di natura), l’altra a un contesto in cui vige il diritto dello Stato. Vi è in Kant la compresenza fra stato di natura e società civile, ma solo in quest’ultima è possibile un “possesso perentorio”. Viceversa, nello stato di natura il possesso è soltanto “provvisorio”. Fuori dal diritto pubblico l’essere umano è libero di seguire le proprie inclinazioni e dar sfogo all’arbitrium brutum, frutto dell’impulso sensibile (stimulus). Questo essere connotato da una “libertà selvaggia” lo ritroviamo anche nello scritto Per la pace perpetua. “Libertà selvaggia” nel senso che l’essere umano riconosce sé stesso come fine, ma non l’altro come fine in sé. Tutto ciò accade nello stato di natura caratterizzato dal diritto privato. Della mancanza di reciprocità ne consegue un altro aspetto del pensiero kantiano, quello dell’antagonismo – che è presente nello stato di natura, ma mancando un suo riconoscimento è un antagonismo negativo, non positivo. Attraverso di esso progredisce (è positivo); altrimenti è dominato dalla bramosia individuale (è negativo) – che deriva dalla insocievole socievolezza dell’essere umano. Ma l’essere umano deve fare propria la massima secondo cui nessuno deve trattare se stesso o gli altri come un mezzo, ma sempre come fini in sé. Quindi, formulazione di un imperativo categorico da cui ne discende uno pratico ai sensi del quale trattare l’umanità sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Qui, grazie alla razionalità umana, assistiamo al passaggio da un agire istintuale a uno stadio che Kant presenta come unione sistematica di diversi esseri ragionevoli, ognuno dei quali deve ritenersi autore di una legislazione universale affinché possa giudicare se stesso e le sue azioni. La ragione fa sì che l’essere umano diventi un buon legislatore. Però, qui si fa un salto enorme: dallo stato di natura si arriva al regno dei fini. Cosa c’è in mezzo ai due? Cosa c’è tra lo stato di natura e l’illuminazione della ragione che permette di arrivare al regno dei fini?