Dalle origini, nel 568 d.C. al Romanticismo, 1848. Dal 568, c’è l’invasione dei Longobardi che permettono l’entrata delle tribù degli Slavi alpini. Nel 1925 Montale recensisce il testo di Cankar Il servo Jernej e il suo diritto (Hlapec Jernej in njegova pravica), dopo essere stato invitato a farlo da Bobi Bazlen che aveva segnalato la bontà del testo. Bazlen ne parlò come di un testo di grande purezza.
Si evince la scarsa conoscenza reciproca in tema di letteratura slovena. Il testo di Meriggi, in bibliografia, del 1961, è l’unico e miglior caso pubblicato sull’argomento storia della letteratura slovena.
La Slovenia è oggi una nazione di entità esigua, circa 1700000 persone parlanti all’interno della Slovenia stessa; 2200000 persone parlanti con gli sloveni nel mondo. Abbiamo le comunità che risiedono nei paesi confinanti, Austria, Italia (in 36 comuni), Ungheria e Croazia. Gli zamesti sono quelli che vivono oltre confine.
Milan Kundera ha considerato gli sloveni “un popolo fondato esclusivamente sulla cultura”. Friedrich Engels definì gli sloveni un popolo “senza storia”. Fu Prešeren colui che diede un’identità definita alla cultura slovena.
Ciril Zlobec fu dispensato dall’azione armata partigiana con la motivazione che per lui era molto pericoloso sparare col mitra e quindi doveva scrivere poesie per dare speranza al popolo (e ai partigiani stessi).
Oggi con l’irruzione del consumismo il poeta ha deposto (o quasi) la propria aureola. Tuttavia, resiste una letteratura e resistono varie forme del fare cultura. In Slovenia ci sono 800 riviste periodiche, 350 autori di letteratura, poesia, teatro. Ci sono 58 biblioteche pubbliche. L’otto di febbraio, ogni anno, in Slovenia è giorno di festa per commemorare la morte di France Prešeren.
Alojz Rebula sostiene che per gli sloveni la letteratura è la vita stessa.
Epoca proto-slovena. (568 d.C. (arrivo degli sloveni alpini) – 1000 d.C. (Monumenti di Frisinga, Brižinski spomeniki).
Dal VI al X secolo. Dall’insediamento, ai primi documenti scritti in lingua slovena. Dal 568, c’è l’invasione dei Longobardi che permettono l’entrata delle tribù degli Slavi alpini. La proto-patria degli Slavi è tra il Mar Nero e il Baltico. Nel V secolo il gruppo si rompe: russi e bielorussi a est; cechi, slovacchi e polacchi a ovest; bulgari, serbi, croati e sloveni al sud.
L’insediamento degli antichi sloveni andava dalla Drava al Balaton e dal Danubio al fiume Kopa a sud. Fonti significative sulla presenza slovena sono quelle di Paolo Diacono (Historia Langobardorum), scritta nel 774 circa, in 6 libri. Diacono definisce gli Slavi “valida moltitudo” soprattutto per aver protetto un suo antenato, di nome Paolo anch’egli, in fuga dagli Avari.
A Broxas (Brišče) nel 670, vicino a Cividale, i friulani sconfiggono gli Slavi alpini. Il condottiero friulano Wectari è citato nel testo di Diacono. Vi si dice, peraltro, che gli Slavi erano già presenti nelle Valli del Natisone, nel VII secolo.
Abbiamo poi il Placito del Risano[1] del 804, una petizione contro la colonizzazione slava dell’Istriano.
Carlo Magno aveva affidato il territorio dell’Istria al duca Giovanni. Gli Slavi aravano le terre di Giovanni vi pascolavano le armenti dello stesso e non quelle dei maggiorenti locali. Il Placito attesta la cacciata degli Slavi. Anche qui abbiamo la menzione di un loro insediamento stanziale.
Abbiamo poi l’Evangeliario di Cividale, una raccolta di vangeli, dei quattro vangeli canonici. Tra il IX e il X secolo degli amanuensi scrissero i nomi di 1500 pellegrini germanici e slavi. Si ritrovano nomi comuni e nomi di dignitari slavi importanti. L’Evangeliario doveva, molto probabilmente, essere conservato a San Giovanni in Tuba. Lo scambio era: offerte e doni in cambio della trascrizione sull’Evangeliario, del proprio nome.
Gli Slavi erano pagani, con divinità che ricordavano quelle greche. Poi gli Slavi alpini sono stati cristianizzati a forza dal nucleo salisburghese e dal Patriarcato di Aquileia. Non ci sono fasi intermedie. L’Evangeliario testimonia la cristianizzazione degli Slavi.
Il regno di Samo, mercante Franco, a capo degli Slavi antichi, tra il 623 e il 658 dà vita al primo regno slavo. Il Principato di Carantania va dal 658 al 725 circa. Era governato da un knez. I koseci erano liberi contadini carantani. Il rito di insediamento del knez era completamente in lingua slovena, fino al 1814. Tra le tracce coeve di creatività letteraria abbiamo il seguente testo:
ZAGOVOR ZOPER OTOK (formula magica contro la tumescenza)
Wotok, pojdi
Raz mozg (midollo) na kost (ossa), raz kost na meso (carne),
raz meso do dlako (peli), raz dlako na zeleno trato.
Tam pojdi devet komalcov (wbok) na tla.
Nel testo c’è un ritmo, una rima, un climax di crescendo in negativo.
[1] In esso vengono esposte le recriminazioni di 172 testimoni giurati, rappresentanti di città e borghi fortificati istriani, circa l’operato dei vescovi istriani e del duca franco Giovanni, discendente del re longobardo Astolfo. Il patriarca di Grado, Fortunato da Trieste, all’epoca vescovo di Pola in quanto allontanato dai suoi domini dalla fazione filobizantina che aveva un forte centro di potere ad Eracliana, pur filo-franco vi compare in qualità di mediatore. Lo scrivano stesso del documento, Petrus, è un suo diacono. I nobili locali e le municipalità lamentano l’esosità dei vescovi e le violazioni di consuetudini acquisite durante la dominazione bizantina, come i diritti di erbatico e ghiandatico. Soprattutto protestano per l’aumento dei contributi (per la maggior parte in natura) e dei lavori obbligatori richiesti dal duca, per la sua ingerenza nella gestione delle terre comuni, nelle quali ha insediato slavi (Slavi pagani), e della servitù. A seguito di esse i missi imperiali (il presbitero Izzo, il duca Cadolao e il conte Ajone) prendono “decisioni e accordi” sottoscritti e promessi dai vescovi e dal duca a favore delle nobiltà e municipalità locali. Il documento, tra i più importanti del periodo, risulta particolare anche nel non essere un placito vero e proprio, mancando di alcuni elementi distintivi. In esso risulta visibile la transizione dall’ordinamento romano-bizantino, caratteristico dell’Esarcato d’Italia cui l’Istria appartenne per due secoli fino al 788 (pur essendo stata assoggettata ai Longobardi dal 750 circa al 774), che garantiva ai centri urbani la giurisdizione sull’entroterra, al regime feudale introdotto dai Franchi, pure in assenza di un’occupazione diretta. I terreni pubblici comuni, gestiti al tempo perlopiù da uomini liberi che li coltivavano o utilizzavano come pascolo in forma di “vicinie”, erano infatti considerati dai Franchi proprietà della corona. È anche la più antica testimonianza scritta riguardante la presenza di popolazioni slave in Istria nelle immediate vicinanze di Trieste.