di Sergio Mauri
La recensione di un libro come questo è per me, assai complessa, poiché coinvolge più livelli di interpretazione, che non saranno mai di facile lettura e mai sarà possibile dipanare del tutto la matassa di idee e sentimenti che vi si sono intrecciati, spesso con drammatica violenza, lungo tutta la storia del socialismo realizzato novecentesco. Le ragioni alla radice di questo mio giudizio di complessità, investono almeno 2 ordini di fattori.
Il primo concerne il mio essere triestino (e talvolta scherzando proprio con Davide Rossi, amo sostenere di essere un triestino per caso o un non-triestino che parla perfettamente il dialetto).
Il secondo si lega strettamente alla mia frequentazione di quegli ambienti e di quella generazione che cambatté il nazifascismo prima e assaltò, poi, il cielo, tentando, con tutti i mezzi disponibili, di portare ad esito positivo l’esperimento della costruzione di un società nuova e diversa. Migliore di quella precedente.
Sul primo punto, posso dire che l’essere nato in una città divisa – diversamente da Berlino, ma anche da Gorizia ad esempio – non da muri o confini tangibili, che tuttavia erano a pochi passi dalla città, ma al suo stesso interno dal punto di vista culturale e antropologico, prima ancora che politico, mi permette di intendere al volo la storia dei berlinesi e della loro città. Capisco immediatamente cosa potesse significare l’esistenza di due forme di vita che si contrapponevano in città, con alcuni quartieri rossi e gli altri neri (o magari grigi), con un mondo socialista che continuamente si proponeva, dando man forte a chi in città vi si rivolgeva speranzoso, nei quotidiani contatti per le più semplici questioni di vita spicciola. Ed è grazie a queste esperienze che mi è difficile dipanare i mille fili di un’esperienza grandiosa – per quanto oggi storicamente archiviata. Un grumo di idee, teorie, fatti, sentimenti, intenzioni e tentativi che nessuna buona volontà letteraria riuscirò mai a spiegare in modo adeguato.
Sul secondo punto, che in parte si lega al primo, devo dire che mi trovo ancora più in difficoltà. Una difficoltà a comunicare la pervasiva ed immensa pienezza di un mondo, quello socialista, che attraverso centinaia di milioni di donne e uomini, si muoveva verso la costruzione di un futuro basato sull’uguaglianza e perciò sulla giustizia e la solidarietà. Non concetti lasciati sulla carta ed ambiguamente declamati, come si è sempre usato in Occidente, ma concretamente realizzati in un continuo processo di verifica nel vissuto quotidiano. Un mondo che, probabilmente, deve ancora decantare del tutto prima di lasciare spazio a nuove esperienze nella direzione della liberazione dell’umanità dalla necessità economica e quindi dallo sfruttamento che ne consegue.
Un mondo, ancora, quello socialista, che riuscì ad influenzare non solo chi ci credeva, ma anche l’Occidente e i comunisti dissidenti costretti ad un raffronto “oltre le chiacchiere e la bella teoria“.
Una generazione, quella che provò a costruire una società di liberi ed uguali – di cui già Davide Rossi aveva, con appassionato amore, descritto i tratti caratterizzanti nel suo libro “La figlia della delegata” incentrato sulla figura di Anna Seghers – che si era mossa in un paio di macro-direzioni.
La prima, per dirla con Giulio Sapelli, andava verso la frugalità, condizione che permetteva a tutti “di essere un po’ più uguali”. La seconda per dirla con Pasolini, andava verso la produzione di beni necessari (istruzione, scuola, casa, lavoro, salute) ma anche di infrastrutture, in antitesi a quelli superflui così tanto presenti in Occidente.
Ma oggi, come facciamo a spiegare ad un/una ragazzo/a quali fossero le idee di quella generazione, corroborate dal sangue e dal dolore dei compagni morti o sopravvissuti nell’impari lotta contro lo sfruttamento capitalista e il mostro nazifascista? Come si può spiegare ad un/una ragazzo/a, le cui priorità, nonostante la crisi, sono l’ultimo modello di cellulare o capo alla moda, che i giovani di 70/80 anni fa ebbero, ad un certo punto, la priorità di doversi salvare la pelle o riuscire a trovare qualcosa da mangiare? E spiegarglielo, sapendo già che una parte della nostra generazione di 50/60enni aveva bellamente ripudiato quelle questioni antropologiche, nonché politiche, disconoscendo lotte e idee, sentimenti e sacrifici di chi ci aveva preceduti? Non è un compito facile.
Tuttavia, le pagine introduttive del libro, in parte, ci regalano, facendolo rivivere, quel bagaglio immenso di amore ed etica che animò quelle donne e quegli uomini; ci restituiscono le gesta e le speranze delle moltitudini di allora.
E, come già osservai in un’altra occasione, per far capire alle giovani generazioni e trasmetterlo adeguatamente dovremmo riuscire a trovare un sistema di segni e di pensiero che sia in grado di entrare più profondamente nella loro mente e nei loro cuori, più profondamente di come sono entrati i valori del consumismo e dell’edonismo. È una questione ancora irrisolta, ma che può trovare argomenti per una propria risoluzione proprio in virtù della crisi del capitalismo contemporaneo.
Il libro di Davide Rossi soddisfa molti quesiti sulla storia e i luoghi di Berlino e della DDR scandagliando, inoltre, con curiosità e precisione la storia del movimento operaio e socialista già dalla fine dell’800, nelle sue intersezioni con le storie delle donne e degli uomini della città brandeburghese. Un notevole compendio di storia di un pezzo di Europa che, al contempo, può avere la scioltezza del romanzo storico. Un lavoro che sta, appunto, in una terra di mezzo tra il saggio di storia, quello di politica e una guida per il turista magari impegnato politicamente che troverà in questo libro un vademecum a quello che sta visitando.
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