Questo libro rappresenta, per Marina Rossi, un lavoro di grande e precipuo interesse che affonda le sue radici al 25 aprile del 1985, ed in particolare con l’arrivo, in quel di Gorizia, di Ivan Ruski. È con il crollo del Socialismo Reale che gli archivi si aprono e si può riparlare dell’argomento. Marina Rossi conosce anche Ivan Kulikov dell’Accademia delle Scienze, con cui può verificare e conoscere la pubblicistica, sull’argomento, in lingua russa.
Il tema è inedito ed anche i molti contenuti del libro apportano dati e conoscenze nuove di cui nemmeno immaginavamo l’esistenza. Ad esempio, tra le tante cose nuove pubblicate in questo libro, anche quella sulla figura già conosciuta di Livio Malalan, sloveno del Carso che, assieme alla sua famiglia, lavorava politicamente e militarmente con i sovietici.
In questo libro si parla di prigionieri sovietici della Wehrmacht. In Italia ce ne sono stati in tutto circa 5000. Nella nostra regione furono 459, e solo in Toscana 1600. Solo una minoranza di questi si diede alla Resistenza, con i rischi che questo comportava. Alcuni di questi sovietici, tuttavia, vengono soggetti al prikaz, un editto secondo cui i traditori sovietici dovevano subire anche la persecuzione della propria famiglia, oltre a quella personale.
Quale fu il rapporto tra Osvobodilna Fronta sloveno e sovietici, anche in quanto rapporto tra popoli slavi?
In questa regione si è creato un rapporto particolare tra Trieste e la Russia, già dai tempi di Caterina la Grande. I nostri cantieri, infatti, costruivano navi, sia per l’Austria-Ungheria che per la Russia. La rivoluzione russa, inoltre, da noi ebbe un’eco straordinaria, in un proletariato abbastanza numeroso ed organizzato. Dobbiamo ricordarci che, al 1914, vi erano a Trieste qualcosa come 1109 stabilimenti industriali.
Vi è poi la corrente intellettuale del panslavismo che pone le basi per la fratellanza dei popoli slavi. Ivan Regent, nato a Contovello-Kontovel vicino Trieste, è in Unione Sovietica per far conoscere gli sloveni e da un programma radiofonico, Radio Mosca, opera in questo senso. I sovietici, peraltro, sono molto felici di potersi aggregare all’Osvobodilna Fronta sloveno.
Il libro, implicitamente, sottolinea l’importanza della plurinazionalità della Resistenza che, tuttavia, si contrappone al nazifascismo esso stesso plurinazionale.
Marina Rossi sottolinea la presenza di sovietici anche in Carinzia e al confine tra Austria e Ungheria. Anche in Serbia si contano dei sovietici. Sul Carso sloveno si conobbe soprattutto il battaglione azerbaijiano. Erano un battaglione di catturati nelle prime ore dall’ingresso dei tedeschi in territorio sovietico, diventati collaborazionisti per questioni di sopravvivenza, che facevano il doppio gioco e collaboravano anche con i partigiani.
È un libro che contiene anche i diari di Zygaiev ed altri, di primario interesse. I sabotatori sono altro dai combattenti, la distinzione che ne viene fatta è d’obbligo. Il libro è una novità e contiene notizie, piccole o grandi che siano, di evidente interesse. Goruppi, testimone diretto poiché interno ai fatti narrati, ci dice che i sovietici di nazionalità azerbaijiana stavano un pò per i fatti loro, anche se venivano regolarmente coinvolti negli addestramenti. Il clima era tipico della guerra, un clima difficile, dove i rapporti umani erano molto complessi. Rybacenko, comandante dell’Armata Rossa, quando si rivolgeva a costoro lo faceva di spalle, perché non erano degni di guardare in faccia un vero combattente dell’Armata Rossa. Tuttavia, quelli che tenevano un buon comportamento nella guerra al nazifascismo, potevano sperare di ritornare in patria e riprendere una vita, forse, normale.
Nella parte finale del conflitto, le carte politiche iniziano a scoprirsi. Durante la battaglia di Opicina i neozelandesi imposero che i sovietici non scendessero a liberare Trieste. Marina Rossi cita Pirjievec e sostiene che Tito avesse di certo una qualche ingordigia verso Trieste, ma nelle carte sovietiche l’avvallo a questa ingordigia non c’è. A Tito interessava Trieste, a Stalin no. La presentazione si conclude con un brevissimo excursus sulla Trieste della guerra fredda, ricordando che il “palazzo rosso” sul canale di Ponterosso era la sede dei servizi segreti britannici. Insomma, un libro immancabile per ogni ricercatore storico o appassionato di storia.
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