Il leit-motiv liberale è: tolleranza con i tolleranti e intolleranza con gli intolleranti. Definita l’intolleranza a partire da un’idea ben precisa di tolleranza, chi viene definito intollerante non ha che da attendere l’esclusione. Un’esclusione che deve essere comunque prodotta, perché ha senso difinirsi tollerante solo se qualcuno non lo è. Questa dinamica di inclusione-esclusione è il motore costitutivo della politica moderna. Infatti, è chiaro che, fintanto che si ragiona in termini di identità nazionale si presuppone l’esclusione di un qualcuno a partire dal quale quella specifica identità può essere fatta valere. Cioè: sono italiano perché non sono algerino o cinese. Oppure, perché l’algerino e il cinese non sono italiani.
Siamo in un periodo di grave crisi economica e questa crisi si manifesta ancor più quando le file davanti ai servizi del welfare tendono ad allungarsi. Ecco allora che quelle file vengono indirizzate verso sportelli ad erogazione di diritti differenziata. È il caso di quelle regioni del nord Italia in cui la variabilità dei diritti è definita secondo appartenenze linguistiche. Ad esempio definire il friulano una lingua da insegnare nelle scuole, anche se in forma non obbligatoria, non è un dato culturale e folcloristico, ma concerne il dirottamento di risorse pubbliche verso ambiti particolari.
Significa decidere per l’appartenenza alla comunità friulana. Tutto ciò in collaborazione, a suo tempo, con la cosiddetta sinistra radicale, collaborazione che si mantiene in vita ogni qualvolta il consenso sociale lo richieda. In Friuli, ad esempio, il PD ha gestito molto bene questa situazione, assimilando una buona parte della lezione di sinistra. Dando, quindi, grosso peso a questa politica comunitarista ed identitaria. Voto di scambio? Non-voto di scambio? Queste politiche comunitariste partecipano della crisi del diritto che tentano di riarticolare sulla base delle appartenenze identitarie contro il carattere astratto dell’universalismo giudiridico.
I comunitaristi imputano all’universalismo di essere discriminatorio proprio quando afferma l’eguale rispetto di ogni individuo. Discriminatorio perché trattando tutti allo stesso modo, farebbe astrazione dalle identità particolari dei soggetti e dai loro contesti culturali, fino a produrre l’estinzione di una particolare identità culturale. Tema, questo, particolarmente sentito dai rezionari di destra e di sinistra che si oppongono alla globalizzazione.
Sul versante opposto gli universalisti riaffermano il primato dell’individuo, della sua libertà di scelta e dei suoi diritti. Rispetto a queste due soluzioni non si tratta di schierarsi o di applaudire, ma di ragionare dimostrando la non-neutralità dei concetti politici, la non-neutralità del concetto di popolo, di sovranità popolare, di diritto, di libertà.
In conclusione, il rifugiarsi in identità particolari non è una risposta alla crisi, ma uno degli elementi della crisi. Una crisi che non può essere fronteggiata con un finto relativismo giuridico che concede diritti a chiunque, soprattuttto se si tratta di un soggetto particolare.
La tradizione comunista, invece, è fatta piuttosto di disapppartenenze: alla nazione quando questa chiama alla guerra o al modo di produzione capitalistico quando esige nuovi sacrifici. Marx dimostrò l’impossibilità di definire un equo salario, dimostrando al contempo l’inutilità di battersi per il miglioramento fine a se stesso delle condizioni salariali. Egli dimostrò al contrario la necessità di distruggere la presente società per costruirne una liberata: quella comunista. Marx ed Engels erano per l’abolizione del rapporto salariato, perno dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non per il miglioramento delle condizioni di vendita della forza-lavoro dell’operaio al capitalista.
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