di Sergio Mauri
La marea dell’antipolitica che, a fasi alterne ci accompagna ormai da lungo tempo, ha dimostrato di essere un marchio commerciale di profondo e duraturo impatto. Non solo ha tenuto banco per più di vent’anni sulle scene politico-culturali italiane e non solo, ma ha saputo – sapientemente manipolata – diventare una questione morale alla quale le anime belle (e idiote) di questo smemorato paese, si sono accodate, applaudendo i luoghi comuni di cui ogni moralismo è pieno.
Ogni tanto, allora, ci sentiamo ripetere che abbiamo bisogno di persone oneste. Va bene. Peccato non si ricordi che il capitalismo, in questa fase storica, ritorni a ciò che lo ha generato: la criminalità!
A mio avviso, tuttavia, non si tratta semplicemente di sostituire i corrotti con le persone oneste, ma di rovesciare la logica secondo cui i governanti devono governare e i cittadini comuni badare ai propri interessi privati. Peraltro, chi governa si pretende lo faccia in nome dell’interesse generale o del popolo e ciò rappresenta una contraddizione insanabile. Tuttavia, nella realtà non esiste un interesse generale né un popolo, poiché esiste una società con interessi antagonisti.
Quando la cosiddetta antipolitica attacca una classe politica corrotta e super pagata, confonde la causa con l’effetto. In verità, le trasformazioni politico-istituzionali e soprattutto economiche in corso, sono necessariamente accompagnate da nuove forme di corruzione, anch’esse spettacolarizzate.
Come avviene nel moderno marketing, i sondaggi accompagnano le decisioni politiche e, perché no?, potrebbero anche sostituirsi alla costosa e complicata prassi del voto. Non è poi così strano che ciò avvenga. Il sondaggio non è una degenerazione rispetto alla politicità del voto, ma l’esatta espressione dell’insignificanza politica dello stesso.
Tutto ciò è costitutivo dello Stato moderno. Infatti, ciò che il singolo è chiamato ad esprimere non è un interesse politico, ma la propria autorizzazione a che qualcuno agisca politicamente in nome del popolo sovrano. Non importa chi sarà eletto e nemmeno importa quale maggioranza imporrà le proprie decisioni alla minoranza. La cosa importante è che, con quell’atto di autorizzazione, il singolo votante diventi autore degli atti compiuti dal rappresentante-attore. Lo ripeto: non è una cosa nuova! È una logica del capitalismo, spiegata una volta per tutte da Hobbes nel suo fondamentale capitolo 16° del Leviatano.
I rappresentanti-attori, per poter rappresentare, devono essere visibili ed agire, devono avere per forza, un libero mandato. Nessun deputato o senatore può essere revocato, perché non esprime la volontà dei suoi elettori, ma quella dell’intera nazione. Ciò è necessario per il funzionamento dello Stato capitalistico, ma da questa logica segue che la legge, proprio in quanto espressione della “volontà del popolo“, non può essere considerata ingiusta, se non per qualche difetto procedurale.
Il giudizio dei singoli sulla giustezza della legge è – pertanto – una semplice opinione privata che si può esprimere, a condizione che questa non turbi l’ordine pubblico, chiacchierando all’osteria oppure nelle righe di qualche giornale.
Dall’altra parte della barricata, la moderna tradizione comunista ha variamente sperimentato forme politiche in cui i rappresentanti sono, in ogni momento revocabili. La Comune di Parigi, i primi Soviet in Russia e i consigli operai tedeschi del 1918 sono parte di questa tradizione. Una tradizione ricca di esperimenti, di opportunità politiche al di là della forma statale che oggi manifesta la propria crisi. Essere al di là dello Stato è nella tradizione comunista.
Tuttavia, questo non vuol dire replicare quegli esperimenti, ma richiamarsi ad una tradizione politica. Una tradizione alternativa alla macchina statale che si è andata costruendo sull’idea della sovranità popolare. Ne consegue che il superamento del libero mandato e la revocabilità dei rappresentanti non sono logicamente pensabili nel contesto del concetto di popolo e di sovranità popolare. Quindi, libero mandato e sovranità popolare costituiscono la grammatica dello Stato rappresentativo moderno. La sua crisi data dalla nascita ed è inutile, perciò, chiederci o discutere intorno alla datazione di inizio di quella crisi. Se tutte le manifestazioni di antipolitica condannano i rappresentanti eletti perché invece di rappresentare la nazione sembra che rappresentino solo se stessi o gruppi criminali, questo può tutt’al più essere espressione di un qualche sdegno morale, ma non ha significato politico.
Questo ci dice che l’antipolitica è politicamente reazionaria. È una reazione idiota alla crisi della politica. Una reazione che si inscrive completamente dentro la concettualità di quella crisi. È quindi politicamente di destra come lo fu il fascismo. Se i deputati e i governanti rappresentano i propri interessi, ciò non dovrebbe stupire, in un sistema politico-economico che stà privatizzando la sfera politica.
L’azione dell’antipolitica riposa su un duplice fraintendimento: da un lato presuppone la divisione del lavoro secondo la quale i governanti dovrebbero governare e i cittadini, come si diceva, dovrebbero farsi gli affari propri. Dall’altro presuppone che chi governa lo debba fare in nome dell’interesse generale o del popolo.
La negazione dell’antagonismo insito nel popolo è il carattere che accomuna l’antipolitica al fascismo.
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