In nessuna società prima di quella moderna nata con la rivoluzione industriale, la distruzione di uomini e cose aveva mai assunto un carattere di primaria importanza economica. Nella misura in cui l’economia si insinua in ogni aspetto della vita umana, ogni suo aspetto regressivo o di fallibilità in essa implicito, diviene automaticamente un tassello spezzato del grande puzzle della struttura socio-economica mondiale. Un tassello la cui frattura rende fragili anche quelli circostanti. Mentre per millenni le distruzioni per guerra di una civiltà, un villaggio o una tribù, assumeva il carattere di necessità etica (vendetta) o imposizione religiosa (lo vuole una divinità), o mera sopravvivenza o, ancora, allargamento di potere, con l’avvento della civiltà moderna, distruggere è solo l’altra faccia del costruire. Quanto ha guadagnato il capitalismo monopolistico occidentale da un ventennio di guerre in Medio Oriente? Parecchio. Intanto, ha guadagnato tempo e cercato di ritardare la competizione con i giganti orientali (Cina, India, Corea…), ma anche con quella parte del mondo arabo-islamico, possessore di materie prime e capitali che poteva minare la sua supremazia.
Ovviamente, non tutte le ciambelle riescono col buco, per cui i risultati (fermi restando i profitti ottenuti da specifici settori dell’economia occidentale come quello degli armamenti e a cascata tutto l’indotto, e dal business delle ricostruzioni o dei contractors) hanno avuto, come contropartita, l’innalzarsi del debito pubblico di molti paesi dell’area (Stati Uniti in primis) che assieme al combinato disposto della migrazione dell’industria in zone fuori dall’Occidente per spuntare tassi di profitto da accumulazione originaria, ha seriamente compromesso il modello di sviluppo domestico, ormai basato solamente sulla finanza. Fanno eccezione la Germania e l’Olanda, in piccola parte l’Italia, la Francia, la Spagna.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale, la necessità di distruggere uomini e cose per poter ripartire, in Occidente, era assicurato dalle guerre (coloniali, continentali o mondiali). Oggi tutto ciò non è più possibile, molte delle ex-colonie sono bocconi troppo grandi, per cui la strada è quella di guerreggiare nella periferia del sistema, a volte per interposta persona, o quella di distruggere beni e persone al centro del sistema, ma senza dichiarare guerra a nessuno, senza usare metodi esplicitamente aggressivi. Oggi si usa l’economia o meglio la guerra economica. Lo scontro globale in atto sta distruggendo valore economico (mezzi di produzione e finanziari); una parte significativa di quello che era stato costruito nei decenni scorsi. Distruzione e creazione, nel nostro sistema, sono due facce della stessa medaglia che autoalimentano il sistema stesso.
Questo scontro globale implicherebbe un cambiamento di rotta non da parte dei governi (che fanno il loro mestiere ed interessi), ma di coloro che dicono di rappresentare gli interessi dei “popoli”, ovvero i pacifisti, gli ambientalisti, i movimenti, compresi gli alfieri della decrescita che dovrebbero denunciare lo scontro in atto ed essere collettori civili della protesta. Costoro, invece, si ostinano ad organizzarsi secondo modelli fermi agli anni ’60/’70 del secolo scorso, se va bene. Basterebbe, innanzitutto, ammettere che quella che si sta combattendo è una guerra a tutti gli effetti e non una semplice crisi economica.
Ma che cos’è il valore economico? Esso comincia ad imporsi a partire da Hobbes (quindi parallelamente al germogliare del capitalismo) che definisce il valore di un uomo in base al prezzo che si pagherebbe per l’uso del suo potere (Leviatano, 10). Furono in seguito W. Petty e Locke ad intuire la connessione tra valore e lavoro che diventò il fondamento della scienza economica che A. Smith analizzò per primo. Egli confermò essere il lavoro a creare il valore delle merci, ma pose la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio. Quest’ultimo è chiarito dal principio in base al quale lo scambio delle merci è, in realtà, lo scambio del lavoro necessario a produrle, sicché il lavoro è stata la prima moneta pagata per l’acquisto di tutte le cose. Da qui la ricerca è proseguita da Ricardo a Marx, fino a W.S. Jevons, L. Walras e J.M. Keynes fra gli altri.
In conclusione, attraverso questa breve esposizione è chiara la posta che si sta giocando sulla nostra pelle e l’importanza di cambiare angolo visuale per chi vuole contrastare la deriva in atto. Perché ad una guerra economica, la gente dovrebbe rispondere con una guerra economica, che ovviamente deve avere una giustificazione politica. Questa crisi (che abbiamo visto non essere semplicemente una crisi) metterà, in pari tempo, alla prova molti apprendisti stregoni della politica.
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