di Sergio Mauri
Nella sua rilettura del testo platonico, Heidegger non si limita all’interpretazione dello stesso, ma evidenzia delle implicazioni che caratterizzano la filosofia, che la caratterizzano e determinano fino a noi. In Platone due sono le determinazioni dell’aletheia: la svelatezza e la piena luce. La svelatezza, la più originaria, è destinata a venir soggiogata da un’altra determinazione, l’orthotes, la correttezza dello sguardo. L’ambiguità andrà diminuendo diventando veritas, andrà sempre più precisandosi come correttezza dello sguardo, della rappresentazione, assegnando all’uomo (essa determina l’uomo rispetto all’ente) la sua posizione.
Con l’essenza della verità si afferma pure l’essenza dell’uomo. La verità determina la posizione dell’uomo, il peso va sul versante dell’intelletto e l’uomo così si colloca al centro di tutto ciò che è. Un indirizzo determinato dal passaggio da svelatezza a idea, che arriva fino a oggi. Con Nietzsche ci troviamo in presenza di una radicalizzazione estrema del platonismo. Qui la tesi di Nietzsche è che la verità è un errore, il valore per la vita determina, in ultima analisi, la verità.
Da Descartes la faccenda riguarda l’uomo, con la possibilità di conoscere l’ente. Ente e verità coincidono. Nietzsche almeno apparentemente va in controtendenza. Sembra ci sia una sovversione di questa coincidenza. Nietzsche dice che in tutto ciò che vive si producono le condizioni in cui il vivente possa conservarsi e potenziarsi. L’uomo interpreta ciò che gli sta intorno, il rapporto con ciò che lo circonda in una direzione prospettivistica. La capacità/forza prospettica sta nel rappresentarsi l’ente in modo da avere una interpretazione vera. Nietzsche dice che tale rappresentazione è falsa, una distorsione del divenire che non corrisponde al divenire.
Tutto è mutamento e non possiamo afferrare ciò che diviene. Ricordiamo che verità è stabilità, stabilizzazione. Tutto ciò che è, in Nietzsche, è falsificazione. Nietzsche aderisce e al contempo se ne distacca. È, nell’ultimo caso, un’inversione di una tesi metafisica che, dice Heidegger, rimane sempre metafisica.
L’ente è, essenzialmente, idea dal punto di vista platonico. Il venire alla presenza in Platone si ha come idea, quindi non più come tensione tra velato e svelato. L’idea non dipende dalla svelatezza, ma ha avuto il sopravvento sulla svelatezza. L’idea determina ciò che si configura per noi come svelatezza. L’ambiguità platonica sovverte l’ordine di come stavano le cose tra velato e svelato. L’idea non è più ciò che viene in primo piano nella svelatezza. L’idea è diventata il fondamento della verità. Aletheia è un’essenza iniziale che rimane ignota, dice Heidegger. Possiamo intuire qualcosa di originario, resta però ignota come esperienza. L’uomo, rappresentandosi l’ente, può calcolarlo e conoscerlo, si pone al centro del rapporto con l’ente, ente al di sopra degli altri enti. Heidegger dice di non dare ciò per scontato e aggiunge che questa posizione dell’uomo è stata decisa proprio a quel punto, nel passaggio da svelatezza a verità. Verità diventa conoscenza dell’ente. L’uomo si rapporta all’ente conoscendolo, in base alla dottrina platonica della verità. Originariamente, dice Heidegger, l’esperienza della verità è stata completamente diversa, non legata alla conoscenza. Da qui anche l’idea che una filosofia ha senso solo se è scientifica. Per Heidegger l’idea di una filosofia scientifica non ha senso.
Paideia diventa formazione di un corretto guardare. La differenza fra il soggiorno interno e quello esterno alla caverna sta nella sophia, nel sapersi orientare. Essere in grado di non perdersi all’interno della dimensione in cui ci troviamo. Orientare in ciò che è presente in quanto è stabile. Sophia è la capacità di orientarsi nella presenza, in ciò che è presente, cioè stabile. Sapersi orientare, cioè, avere delle “competenze”. Anche nel fondo della caverna c’è sophia, dopotutto le ombre sono stabili. Quel sapere di laggiù, quella sophia è superata da un’altra sophia che coglie l’essere dell’ente nelle idee. Quest’ultima si stabilizza nell’idea, in ciò che si mostra da sé. Questa è un’amicizia (philia) per le idee; fuori dalla caverna la sophia è filosofia.
Guardare in direzione delle idee, dell’idea di bene. Idee che consentono lo svelato. Filosofia come conoscere, in modo diverso dalle altre scienze, ma in quella direzione da Platone in poi. In Platone filosofia indica non solo un sapersi orientare nell’ente, ma che determina l’ente in base all’idea. L’ente è ciò che è in quanto idea. L’essere dell’ente è l’idea. Questa filosofia che inizia con Platone sarà quella che conosciamo come metafisica. Se qualcuno vuole una definizione di metafisica, la può ritrovare nel mito della caverna in Platone, prima ancora che sia coniata. Dove dimostra l’assuefazione del pensiero a ciò che è “laggiù”, verso un’altra sophia. Un pensiero che va al di là delle ombre, in direzione delle idee. Qui le idee rappresentano forme sovrasensibili, non sensibili, che possiamo cogliere con “un guardare non sensibile”, con l’intelletto.
Tutto ciò che è sensibile viene messo da parte per rivolgerci al sovrasensibile. Dobbiamo rivolgere il nostro sguardo verso l’idea di tutte le idee, cioè il bene che qui è to agathon, ma anche to theion. Da quando l’essere è idea, il pensiero dell’ente come idea è metafisico e la metafisica è teologica.
La causa originaria dell’ente e trasferita in Dio. Da to agathon a Dio, ente da cui dipendono tutti gli altri enti, da cui si produce l’assetto del pensiero. In direzione di un essere dell’ente interpretato in termini platonici. È, dunque, decisa la posizione dell’uomo.