di Sergio Mauri
- È in atto, da tempo, un’antropomorfizzazione degli animali, ovviamente non di tutti, ma di quelli che nella nostra cultura sono più importanti e vicini a noi. L’antropomorfizzazione comporta una sorta di umanizzazione dell’animale che giunge fino al punto di attribuirgli dei diritti. Parliamo di diritti giuridici, variamente declinati. Diritto alla sopravvivenza, a un trattamento “umano”, congruo alla sua natura e capacità di sentire paura e dolore. Si rivaluta anche la sua vita, il suo diritto alla vita. Una situazione singolare, storicamente senza dubbio nuova, almeno in questi termini e dimensioni[1].
- Questa mossa è un avvicinamento, prodotto da noi umani, degli animali a noi e non il contrario. Il centro dell’attenzione, dunque, continuiamo a essere proprio noi umani, le decisioni sono nostre esattamente come i valori investiti e – a monte – la capacità di istituirli. Non interroghiamo gli animali, poiché sappiamo non potrebbero comunque risponderci. Probabilmente non avrebbero interesse a farlo, almeno in termini a noi congrui. Ma nemmeno li lasciamo in pace, gli animali, vogliamo a tutti i costi avvicinarli a noi, controllare e manipolare le loro vite che, penso sia doveroso dirlo, non sono minimamente interessate ai nostri principi e obiettivi.
- Nasce un quesito assolutamente legittimo: l’attribuzione di diritti agli animali, serve a metterci a posto le coscienze? Questa domanda la poniamo in virtù del fatto che noi gli animali li abbiamo soggiogati già dall’inizio del nostro rapporto con loro o ne abbiamo trasformato profondamente la natura. Solitamente, infatti, noi espungiamo totalmente dalla descrizione del nostro rapporto col mondo animale questo soggiogamento brutale che ha contraddistinto il nostro dominio sul pianeta (Horkheimer).
- Direi che potremmo considerare, in relazione a quanto affermato finora, i movimenti pro-natura e pro-animali come una modalità di pacificazione delle nostre coscienze, senza andare a toccare veramente ciò che causa tutto ciò, che è proprio il nostro stare al mondo, con queste determinate modalità.
- In aggiunta, il massimo dell’ipocrisia si raggiunge quando si parla di protezione degli animali e salvezza della natura nel mentre si dovrebbe – in tutta onestà – svelare la ragione di tutto questo parlare: salvare noi stessi.
- D’altro canto, e parallelamente, non possiamo negare ci sia stato, nei decenni, una progressiva disumanizzazione dell’umano; disumanizzazione e non animalizzazione, sia chiaro, il termine non l’ho usato a caso. Il processo non è andato assolutamente nella direzione dell’animale, ma verso una de-sensibilizzazione e “automazione” dell’essere umano, con il risultato di renderlo malleabile alla bisogna. Una macchina docile, con dei limiti, delle paure, degli interessi ben precisi da difendere[2], solo attraverso una profonda macchinizzazione e de-sensibilizzazione dell’umano stesso.
- Agente di questo processo è stata la razionalità. Facoltà determinante, che ci caratterizza, che fa di noi ciò che siamo. Nel bene e nel male. Essa giustifica, nel nome di uno strumento che ha eliminato tutti gli strumenti di conoscenza alternativi, le scelte della nostra società, dallo stare al mondo, alla politica “migliore”, alla scienza, al miglior modo di produrre e fruire dei beni materiali e spirituali per vivere.
- Il grande rimosso è, dunque, l’uso, lo sfruttamento, il massacro degli animali su cui, potremmo dire, si fonda la piramide sociale del mondo che conosciamo (ancora Horkheimer).
- Un soggiogamento operato dalla nostra specie nei confronti degli animali che è andata di pari passo con quello degli uomini, attraverso quel processo visto al punto 2. Un processo che non sembra ancora ultimato, di cui non si può, tuttavia, incolpare unilateralmente la tecnica, come alcuni fanno[3], ma che riguarda principalmente il soggetto. Il soggetto per come si pensa, si vede, si auto-considera, ha coscienza di se stesso.
- Detto questo, comunque, dobbiamo ricordare che il mondo animale, anche eliminando del tutto la presenza dell’uomo che lo violenta, non sarebbe un “letto di rose”, continuerebbe a essere un luogo di violenza “naturale” e (chiaramente) non “culturale”, come nel caso della presenza umana[4].
[1] Nessuno nega, infatti, che in determinate culture vi siano degli animali sacri o cose simili, ma stiamo parlando in modo ristretto dell’Occidente.
[2] Si tratta di bisogni creati ad hoc. Il cittadino come portatore di interessi, quindi di proprietà un modo per poterlo controllare e colpire (Hegel).
[3] Parzialmente Galimberti, Severino, Heidegger, con articolazioni e distinguo vari.
[4] Qui si vuole porre l’accento sul fatto che nell’uomo la violenza assume una caratterizzazione di tipo culturale, non “naturale”, ovvero l’uomo non uccide altri uomini per mangiarseli e di questo uccidere per poter vivere l’animale non si pone dei problemi di coscienza.