Prolegomena.
C’è una questione teleologica che possiamo porre sotto forma di quesito, che vale la pena di essere affrontata e risolta una volta per tutte, sia nel piccolo della nostra individualità che nel grande insieme dei numeri collettivi, ed è la seguente:
“C’è o non c’è qualcosa per cui valga la pena di combattere una guerra santa?”.
È precisamente in questa questione teleologica, e nei contenuti che richiama, che possiamo riassumere e spiegare le caratteristiche e le differenze fra la nostra cultura e quella della Cina.
In entrambi i campi culturali non manca la voglia o la necessità di combattere e di morire per un fine. Non che in Estremo Oriente, come in Occidente, manchi un concetto di valore ed una conseguente scala di valori ai quali conformarsi, ma anche sottomettersi. Tantomeno manca, in Estremo Oriente, come (troppo spesso) erroneamente affermato dalla scuola occidentale, il senso del sacro1.
Tuttavia, il nichilismo non è nato in Estremo Oriente.
Il punto che dobbiamo affrontare e capire ci interroga su una questione di tutt’altro segno e portata. Nella visione culturale della Cina, ferma restando l’assenza di un punto di rottura drammatico e definitivo che significhi quel richiamo sottile e ambiguo della morte, quel desiderio di morte fattosi storia e non fenomeno contingente, quella fine ricercata e drammatica2 che preluderebbe a nuovi inizi, nel mentre è invece ben presente una circolarità dei processi, in cui le parole inizio e fine sono bandite perché inutili, dobbiamo chiederci in che modo e quanto tutto ciò sia vero.
Non che nelle tradizioni sia colte che popolari, in uno spettro di possibilità che vanno dalla poesia al teatro, manchi il tema della morte. Tutt’altro. Esso è richiamato proprio come strumento di confronto con cui valutare e verificare le azioni dei vivi, la purezza delle loro intenzioni o il loro spirito di sacrificio estremo. Ma, tuttavia, appare come elemento parziale di un tutto immensamente più esteso, denso e profondo che si chiama vita. La morte, in questo senso, è parte della vita, un piccolo momento di un disegno, di una trama incommensurabile.
La morte, allora, non è il tutto, il perno che nel nichilismo eternamente presente nella nostra cultura è introduzione alla morte, e non può esserlo. Cultura della morte, del lineare percorso di inizio e fine, da una parte; cultura dell’eterno modificarsi dell’essenza delle cose, dall’altra.
Finito contro infinito. Caducità contro eternità.
Perché, dunque, la cultura più profonda della Cina, quella che si snoda tra il Confucianesimo, il Taoismo e il Buddhismo, non ha prodotto armate di uomini pronti a lanciarsi contro i propri simili, in nome del ristabilimento o dell’avanzamento di certi valori? Questo mi è sembrato il nodo centrale di ogni discorso sulla Cina. Dalla sua cultura profonda voglio partire, cercando di portare qualche risposta alla domanda che mi sono posto, alla fine di questo breve saggio.
Parecchi anni fa, parlando con una massaggiatrice professionale italiana della questione culturale inerente l’Oriente (Cina e India) dal quale provenivano tutte quelle soluzioni che prevedevano la cura del corpo in armonia con la mente, a partire dallo yoga, passando per l’agopuntura ed arrivare al buddhismo, questa affermava: “Mentre noi andavamo in una direzione diversa e opposta, come la tecnologia e un diffuso materialismo, loro hanno curato degli aspetti diversi come l’equilibrio mente/corpo e l’atteggiamento filosofico verso la vita“.
L’affermazione della professionista, perentoria quanto discriminante, finiva per creare una dicotomia Oriente/Occidente che, ad un’analisi meno superficiale, poteva sembrare alquanto manichea.
Ed infatti, ad analisi compiuta, la questione appare assai più complessa e subito riconducibile a due direttrici argomentative: 1) lo studio della storia cinese e 2) la ricezione di quella storia da parte nostra.
Sul primo punto, se lo sguardo non è superficiale, si nota che anche la Cina ha avuto lunghi periodi di guerre, insurrezioni, instabilità politiche e sociali. Proprio in virtù di ciò, si comprende la necessaria nascita di forti controtendenze politico-morali, quali il legismo e il confucianesimo. E, forse, si capisce anche meglio la natura di tali forze e il loro profondo radicamento.
Sul secondo punto, invece, e più curiosamente ancora, si comprende quale sia stato il livello di selettività della nostra ricezione della complessità della storia d’Oriente, ridotta ad una serie di facili clichè, schemini banali a cui si riduceva la vera complessità dell’Oriente, impossibile per noi da capire fino in fondo. Invece di porre l’accento su aspetti quali il rispetto dei valori fondanti, delle gerarchie sociali (non necessariamente derivate da quelle economiche), l’attitudine all’impegno personale, lavoro incluso, al rispetto dell’ordine sociale quando non sia miserevole per la popolazione, abbiamo aperto le orecchie solo allo yoga, ai santoni indiani, all’agopuntura e al buddhismo, peraltro nella sua versione giapponese, in ossequio a certe gerarchie geopolitiche.
A questo punto, si aprono alcune sotto-questioni: 1) perché è accaduto questo?; 2) chi o che cosa ne è responsabile?
Mi sento di rispondere nel modo seguente: 1) perché sono parti decontestualizzate, ancorché importanti, di una cultura la cui estrapolazione permette di essere spendibili nel nostro contesto culturale, e 2) il mainstream culturale formato dall’industria culturale a cui collaborano, spesso acriticamente, i maggiori intellettuali, spesso omettendo le informazioni e i contenuti, più che affermando cose non vere.
1Differenzialismo ed Essenzialismo.
2Da non confondere con l’immobilità o la staticità
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