Gli arhat sono i discepoli di Shakyamuni, il primo Buddha.
Le divinità dalle teste e braccia multiple provengono direttamente dal pantheon indiano ed originariamente non erano buddhiste. Rappresentano, invece, il Vishnu induista, uno degli elementi della triade Brahma-Vishnu-Shiva, una divinità benevola, il “preservatore”, uno dei più antichi dei dell’India, pure di molto più antico del Buddha. Tuttavia, il buddhismo, ovunque andasse, sapeva assimilare pacificamente le religioni preesistenti. All’estremità delle sue multiple braccia, Vishnu brandisce i suoi attributi tradizionali: la mazza, il loto, la conchiglia e la ruota. I dischi che presentano le braccia superiori simboleggiano il sole e la luna. La mano mediana sinistra porta un arco, quella destra stringe una freccia. L’inferiore sinistra una piccola fenice. Nella grotta di Yun-Kang, Vishnu è seduto su un’altra fenice dalle piume simili a scaglie, che stringe una perla nel becco.
Si tratta di una iconografia eterogenea. Infatti, il veicolo usuale di Vushnu è il garuda, un’aquila nemica del serpente, mentre la fenice è un motivo fondamentalmente cinese.
Il dogma impone ai fedeli di dedicarsi alla meditazione per rinascere nel paradiso del Buddha Amitabha (Amitayus – Dhyana – Sutra, Meditazione sul Buddha Amitayus). Quando colui che ha compreso pienamente la verità dei sutra è sul punto di morire, Amitayus, accompagnato dai suoi Bodhisattva assistenti e da tutto il seguito, gli avvicina un seggio rosso porpora e lo saluta con queste parole:
“O figlio mio nella Legge! Tu hai praticato la dottrina mahayana; tu hai compreso e creduto la verità più alta. Per questo, ti vengo incontro per riceverti”.
Così egli stesso e i mille Buddha creati gli tendono la mano. Quando il credente guarda il proprio corpo, si vede seduto sul trono d’oro. Levando le mani giunte glorifica subito tutti i Buddha e rende loro grazie. In un istante egli rinasce nel lago dei Sette-Gioielli. Il suo trono è un fiore che si schiude dopo la notte. Il corpo del nuovo eletto si adorna dei colori dell’oro rosso. Infine, ai suoi piedi spunta un fiore formato da sette gemme.
Il sutra, in seguito, evoca i mezzi di salvezza che sono a disposizione delle diverse caste. Secondo il suo insegnamento ogni uomo che accede alla salvezza rinasce da un lato nella Terra Pura e il più corrotto può essere salvato se pronuncia con sincerità il nome del Buddha Amitayus.
Dalla Cina al Giappone, gli spiriti delle persone semplici furono soggiogati da questa dottrina che soppiantò i precetti canonici più profondi, ma anche più oscuri.
Infatti, le statue arcaiche si indirizzavano allo spirito piuttosto che ai sensi. Esse incarnavano più una dignità ideale che una ideale bellezza.
Troppo realismo avrebbe allontanato il fedele e distrutto il loro potere d’attrazione. Il buddhismo ha innalzato al livello d’un dogma il principio dell’indifferenza nei riguardi del corpo, prigione dello spirito. I cinesi non si curavano affatto di restituire al corpo le sue vere proporzioni, non essendo provvisti delle necessarie tradizioni artistiche. Essi, inoltre, avevano ripugnanza a trattare il nudo. Presso i cinesi la nudità non suscita l’interesse che ha sempre provocato tra gli indiani, ma anche a causa del clima non sembrava loro molto naturale.
Lo stile Han prevede un geometrismo lineare che rielabora le forme influenzate da tutto ciò che ha raggiunto la Cina (Ellenismo, Gandhara, India, Iran, Asia centrale) in modo da ridurre ancora la parte del naturalismo che l’Asia centrale aveva mutuato dal neo-ellenismo gandhariano e dalla sensualità della scultura indiana. Quindi, il naturalismo cede il passo alla stilizzazione. I tratti divengono più dolci e delicati.
La tradizione artistica cinese sollecita le esperienze e spinge alla ricerca del ritmo e della giusta proporzione. Una delle dominanti dell’arte cinese è l’amore dell’umano. Il gusto della linea e del movimento ne rappresentano una naturale espressione. Il buddhismo, divenuto religione cinese non è semplicemente un credo universale, è un messaggio universale di bellezza.
Un ulteriore simbolo buddhistico universale è Vairocana, che non è né un personaggio storico come Shakyamuni, né un salvatore come Amitabha. È il simbolo di un principio universale, poiché incarna, nella tarda dottrina mahayana, lo spirito creatore primordiale e pancosmico.
Gli innumerevoli Buddha che popolano un milione di mondi sono la sua emanazione. Shakyamuni non è che la manifestazione, in un mondo particolare di questa gerarchia, di Vairocana, Buddha supremo, universale e onnipresente. La principale codificazione di questo sistema – il cui nome cinese è Hua yen – si incontra nell’Avatamsaka-Sutra (tradotto dal kashmiriano Buddhabhadra, nel V° secolo).
Il dogma insegna che la residenza del Buddha Vairocana è un fiore di loto dai mille petali, ciascuno dei quali è un universo comportante miriadi di mondi che, tutti, hanno il proprio Buddha, manifestazione del principio buddhista.
Questa narrazione, fortemente tinta di metafisica, trovò una certa eco presso le case imperiali dell’Estremo Oriente. Specialmente in Giappone, l’imperatore si considerava come l’equivalente in terra del Vairocana centrale. Inoltre, i grandi Buddha delle foglie di loto erano rappresentati dai suoi alti dignitari, i piccoli Buddha dai suoi sudditi.
Al tempo della costruzione del sito di Lung-men il Buddha più popolare era Amitabha. Il suo culto sorse presto in Cina, ma la sua dottrina non prese veramente consistenza che in seguito al lavoro del monaco traduttore Kumarajina, che visse nell’impero dal 383 al 413. Il dogma primitivo buddhista ignorava Amitabha.
La dottrina proclama che l’accesso alla salvezza è relativamente agevole, ed è proprio questa una delle ragioni del favore di cui ha goduto. Per essere salvato basta invocare con cuore. Sotto questo profilo è facilmente comprensibile l’attrattiva esercitata da questa credenza sulla gente semplice che respingeva le forme troppo profonde e astruse del buddhismo.
Questa concezione del Buddha era destinata a prendere il sopravvento su tutte le altre.
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