L’intellettuale, se non suscita scandalo ogni volta che apre bocca, non è un intellettuale.
P.P.P.
Come parentesi interna al blog, voglio entrare, per poi uscirvi del tutto, nella polemica sugli intellettuali precari che ha aleggiato ed aleggia nel web (e mi pare solo nel web, a parte i soliti sprazzi minori della carta stampata, mantenendo il problema del tutto sottostimato) partita dalla discussione tra intellettuali precari (Simone Ghelli e Claudia Boscolo + tutti coloro che più o meno precari hanno condiviso la discussione) e ripresa poi da Marco Filoni sul Sole 24 ore.
Chi scrive non è un intellettuale (e si guarda bene dal diventarlo), ma un precario si, scarsamente integrato secondo i canoni dominanti, avendo conquistato uno spazio di manovra “semplicemente” portando avanti certe modalità di comportamento (in soldoni, di scambio paritario) che nel tempo hanno costruito la massa critica necessaria alla sua visibilità ed autosufficienza.
Il problema degli intellettuali (ma chi decide se lo sono? Il mercato? L’Università…?? mi trattengo dalle risate…), purtroppo, è ricorrente nella storia ed è il problema di chi possiede conoscenza e strumenti culturali che intende valorizzare sul mercato mentre sul mercato, in certi cicli storici, la necessità della loro presenza magari non c’è.Siamo in uno di quei momenti storici, purtroppo.
L’ansia degli intellettuali oggi è quella di esserci, di essere presenti, perché la spartizione della torta fa gola a tutti. Mi ritengo sufficientemente adulto da non voler sentir parlare di questioni morali, di giustizia o altro. Di affetto verso il proprio paese nemmeno: infatti, si votano delle facce che promettono benessere e soldi per tutti, una vita inserita negli schemi del consumismo dominante oggi che si vuole mantenere anche con la questua degli ammortizzatori sociali che permettono al cittadino lavoratore di consumare in anticipo sulla ricchezza prodotta. Il Montismo non ha risanato l’Italia come non l’ha risanata il Berlusconismo ed il Renzismo è già al tramonto, ma se anche tutte queste ideologie fossero in grado di farlo, alla fine ritorneremmo alle vane promesse di diventare tutti milionari (in euro).
Non vedo, inoltre, opposizione, contrasto a questa corrente dominante. Intendo che non ci sono fenomeni di massa che ci facciano capire che la collettività sente la misura colma. Perché? Perché la situazione è problematica, ma non grave, ecco tutto. Perché la grande ricchezza economica prodotta nei decenni scorsi è ancora presente tra noi, perché il familismo italiano taglia le gambe ad ogni autonomia, ad ogni uscita in strada a far sentire la propria voce.
Si riproducono gli schemi di sempre, i cicli di sempre, si rinsalda la catena. Ci si dà da fare per “delle sicurezze” invece di rischiare qualcosa, si pensa al mutuo per la casa invece di fregarsene e partire senza il pensiero di costruirsi una proprietà su cui contare.
Ciò che emerge con chiarezza da tutte queste polemiche è la mancanza di capacità di sognare. Non esistono più i dandy (inbound o outbound, è lo stesso), gli avventurieri, quelli che partivano per Londra o Parigi oppure oltreoceano, e vivevano di ciò che sapevano ( o non sapevano) fare improvvisando, talvolta morendo per i propri ideali trasformati in responsabilità, come per incanto, dalla legge dell’attaccamento affettivo. No, si va all’estero per mettere a valore la laurea. Tuttavia, non impressionatevi troppo per il verbo morire: la morte è parte della vita anche se qui in Occidente abbiamo fatto di tutto (e ancora lo stiamo facendo) per scordarcene. In questo nuovo contesto (presente già da decenni) nel quale una persona è indottrinata a non conoscere la parola fine, perché la fine è sinonimo di sconfitta e quindi una faccia dell’esistenza (la vita) prende di forza il predominio sull’altra (la morte), come si può pensare che qualcuno abbia il coraggio di mettersi in gioco? Molti sono i discorsi sui rischi, i sacrifici, sul potersi permettere certi comportamenti o meno. L’Italia non è un paese che stanno fottendo, l’Italia è già fottuta da decenni. Senza rimedio.
Fra le righe della polemica (o della rassegna della frustrazione) intravedo un paio di cose su cui voglio fare dei commenti:
1-la necessità/volontà di andare all’estero visto che l’Italia è un paese per vecchi;
2-la necessità/volontà di finirla con il precariato che provoca esclusione, attraverso l’integrazione meritata nel sistema;
3- L’Italia è un paese rimasto indietro, immaturo sotto l’aspetto culturale, è un paese provinciale che paga la mancanza di rivoluzioni politico/culturali che l’abbiano unito veramente, nonché la divisione interna nella classe dirigente, per bande e clan. Lo status quo serve a riprodurre gli schemi di dominio e se questa è la necessità, non ci si può stupire che manchino progetti e alternative. A proposito chi dei signori che discutono ne ha?
4-La Riforma protestante, la prima rivoluzione del capitalismo nascente, ha dato delle basi (per quanto discutibili e io le discuto) culturali forti per unificare popoli e nazioni, fuori dai nostri angusti confini. Noi abbiamo dovuto aspettare il fascismo per una unificazione tanto burocratica e militaresca quanto di facciata del nostro paese e il dopoguerra per essere finalmente riuniti sotto un unico tetto dalla società del “benessere” con suoi riti ed i suoi miti. E’ un paese fermo perché il movimento implica rischio e responsabilità e da noi nessuno vuole rischiare anche il poco che si è costruito, visto che rimanere senza nulla è cosa da perdenti, da fuori casta, uno che perde il rispetto dei viventi.
5-Chi si autoesilia (non tutti, per carità, ma una buona maggioranza) all’estero (beninteso qui non si parla di lavapiatti o portieri di notte di cui non si parla perché poco elettrizzante, ma di altre professionalità) lo fa perché coglie l’opportunità di una integrazione nel sistema che qui non è riuscito ad ottenere. Poi dall’estero guarda un pò soddisfatto un pò sentendosi superiore a chi invece è rimasto a casa. E dall’estero non sembra battersi per qualcosa, esattamente come faceva qui. Ma, oltre alla constatazione che ognuno di noi i propri limiti e problemi se li porta in giro per il mondo, ma non per questo se ne libera, vorrei capire dove stanno questi paradisi fuori dai nostri confini nazionali. Perché certo andare a lavorare nel Regno Unito può essere stimolante, ma non mi sembra che le questioni sociali o professionali siano assenti: si vuole forse affermare che quel paese sia più accogliente del nostro? Non credo proprio.
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