Lo scontro teorico è tra economisti neoclassici e neokeynesiani. Ma entrambi i campi sono stati sconfitti: i primi per aver volutamente chiuso gli occhi innanzi al crollo del neoliberismo; i secondi che hanno rimosso totalmente la loro sconfitta di fronte al tandem politico Reagan – Thatcher negli anni ’80, fino ai nostri giorni, in cui si sono dimostrati incapaci di interpretare le cause e le concause del disastro sociale ed economico attuale. Non si tratta, tuttavia, di insufficienze analitiche e demeriti individuali, ma di inadeguatezza teorico-politica dovuta al consenso incondizionato e complice del modello dominante negli ultimi decenni: anarchia del mercato e profitto come obiettivo prioritario ed essenziale. Siamo al dominio egemonico del pensiero unico neoliberista, o meglio, capitalconsumista. L’accettazione acritica di questo modello ha, come conseguenza, il soffermarsi solamente sul suo vivere e riprodursi senza – tuttavia – sottoporlo ad un serio esame. Nondimeno, come afferma Engels nell’Antiduhring, testo molto importante per tutta la teoria marxista e per questo preso a riferimento dagli autori del volume, l’economia come scienza storica si fonda su leggi particolari che si manifestano in ogni singola fase di sviluppo della produzione e dello scambio in genere.
Lukacs, come Manacorda ed ogni altro filosofo marxista, concentrano le loro attenzioni sul carattere sociale del lavoro. Questo tema, se rapportato al momento che stiamo vivendo, in cui, nel mezzo della crisi, nella sinistra politica si afferma il dibattito su reddito e lavoro, fa emergere il limite della visione di quella stessa forza che consiste nello slegare la formazione del reddito dal lavoro. Errore dovuto alla rinuncia del metodo di analisi marxista che non è un testo al quale uniformarsi, bensì un metodo di lavoro e di comprensione del mondo, ovvero della realtà. Quella intorno al lavoro e al suo valore in quanto punto di partenza fondamentale per capire come si forma il prodotto sociale di una data collettività, la sua ricchezza (sempre in termini sociali) e la possibilità di ripartirla tra i suoi membri, potremmo definirla come la prima legge economica universale.
Un altra regola fondamentale sancisce la forza distruttiva della Natura. Il marxismo non ha mai ricercato il ritorno agli stati di natura, decrescita inclusa. Tuttavia, proprio dalla coscienza di questa distruttività della Natura prende le mosse per regolarla in armonia con lo sviluppo sociale nato dall’abbattimento (futuro) del capitalismo e dello sfruttamento del lavoro salariato. Dobbiamo ricordare che il socialismo, secondo Marx, è compatibile con la più avanzata tecnologia che rabbonisce la Natura in modo da potersi riprodurre per non autodistruggersi.
Altra legge universale è quella che sancisce “la costante dipendenza della produttività sociale umana” innanzitutto “dallo sviluppo di scienza e tecnologia che, combinata con quella del carattere sociale del lavoro ci fa ricavare un’altra legge universale qual è quella della caduta tendenziale del saggio di profitto“, che è improprio definire universale, ma andrebbe chiamata – piuttosto – fondamentale, essendo una costante nel modo di produzione capitalistico. È una legge che prevale ciclicamente dopo ogni fase di accumulazione.
Per individuare le leggi economiche assolutamente generali, bisogna partire da Engels e dal suo Antiduhring. Tutto parte dalla produzione, evidenziando che “produzione e scambio sono due funzioni diverse. Può esserci la produzione senza lo scambio, non lo scambio – che proprio per sua essenza è scambio di prodotti – senza la produzione“.
Attraverso la sostituzione del termine “consumo” con quello di “scambio“, otteniamo una delle più elementari leggi economiche universali. Cosa sono, allora, le leggi economiche universali? Sono quelle leggi che sono anche nessi regolari e ripetuti di dipendenza tra fenomeni produttivi diversi posti in costante rapporto dialettico di causa ed effetto e che si manifestano in tutte le formazioni economico-sociali del passato, presente e futuro.
Il socialismo è la prima ed immatura fase di crescita del modo di produzione comunista. Tornando al capitalismo, la legge economica universale del costo-lavoro è di basilare importanza*. Dal Capitale di Marx, ricaviamo altre leggi fondamentali: la legge dell’erogazione gratuita e costante di valori d’uso economici da parte della Natura; la legge dell’indispensabilità del lavoro umano, elemento determinante e concausa del processo di riproduzione materiale del genere umano; la legge della trasformazione necessaria e costante di una parte del lavoro vivo in strumenti di produzione, quindi, del prodotto sociale complessivo tra mezzi di consumo e mezzi di produzione; la legge della dipendenza costante e necessaria del consumo dal processo produttivo, ovvero niente produzione nessun consumo; *per tale legge il costo sociale di qualunque bene già inventato viene determinato dalla quantità e qualità di lavoro globale socialmente necessario a riprodurlo; la legge dell’innovazione-lavoro per cui il costo di ciascun bene/servizio prodotto ex-novo o sensibilmente perfezionato dalla creatività umana è determinato dal lavoro socialmente necessario a produrlo per la prima volta; la legge dell’ammortamento-lavoro per cui il lavoro in precedenza accumulato nei mezzi di produzione e nelle materie prime/fonti energetiche si trasferisce e cristallizza nel costo-lavoro globale dei beni prodotti, in relazione al logorìo subito dai primi nel corso del processo di produzione; la legge del costo della forza-lavoro per cui serve una quantità determinata di mezzi di consumo per assicurare il processo sociale di riproduzione della forza-lavoro e della sua prole; la legge della riparazione-lavoro o del tempo di lavoro necessario per la riparazione e pulizia degli oggetti di consumo e dei mezzi di produzione; la legge del trasporto-lavoro, per cui al costo sociale di produzione-lavoro immediata di un oggetto va aggiunto il tempo socialmente necessario per trasportare il bene dove dev’essere utilizzato; la legge dell’asimmetria costante tra il costo-lavoro e l’innovazione-lavoro, tra il tempo necessario socialmente per produrre ex-novo un bene e quello invece necessario per riprodurlo e clonarlo; la legge del “rasoio di Occam” dell’utilità, per cui qualunque bene-servizio non contiene alcun reale costo-lavoro se non ha un’utilità sociale; la legge della “distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite“, date di volta in volta, tra settore della produzione di mezzi di produzione e settore di produzione dei mezzi di consumo, tra il fondo di lavoro accumulato neglia strumenti di produzione ed il lavoro vivo; la legge dell’aumento dei bisogni materiali e culturali dell’uomo, conseguente all’incremento del livello qualitativo di sviluppo del processo produttivo e delle conoscenze tecnico-scientifiche che vi si applicano; la legge dell’usura/logoramento costantemente determinata dalla forza distruttrice della Natura contro tutte le opere e le forze produttive degli uomini, a partire dalla longevità ed efficienza della forza-lavoro; la legge della “dote di natura” di conservare costantemente il costo-lavoro condensato nel fondo dei diversi mezzi di produzione trasformandoli ed utilizzandoli nel processo produttivo, impedendo il logorìo inevitabile provocato dalla Natura; la legge della costante dipendenza della produttività sociale dal livello variabile di sviluppo della scienza e tecnologia; la legge della dipendenza del costo-lavoro di ciascun oggetto d’uso dal grado variabile di produttività sociale raggiunto dalla forza-lavoro nelle varie fasi storiche, tanto maggiore è la produttività sociale generale, tanto minore è il costo-lavoro dei diversi oggetti d’uso (proporzionalità inversa tra produttività del lavoro e costo-lavoro); la legge della dipendenza della produzione di pluslavoro da un livello qualitativo sufficientemente avanzato e da una soglia critica di sviluppo generale della produttività del lavoro sociale; la legge della trasformazione di una parte del lavoro sociale in lavoro complesso e potenziato, in grado di produrre nello stesso tempo di lavoro molte più energie psicofisiche rispetto al lavoro semplice e non-qualificato; la legge generale della ricchezza sociale o della disponibilità di mezzi di sostentamento e non solo, cioè la quantità di valore d’uso, di ricchezza materiale a disposizione delle diverse società e formazioni economico-sociali; la legge del costo unitario nella produzione in serie, per cui il costo unitario di ogni singola unità prodotta è dato costantemente dalla divisione tra costo totale e quantità di beni prodotti, per cui all’aumento della produzione a parità di costo totale, il costo unitario diminuisce; la legge del circolo virtuoso tecnologico, per cui una determinata massa critica di scoperte tecnologiche di grande portata, innesca sempre un processo di crescita del processo produttivo e degli scambi economici, favorendo un ulteriore sviluppo tecnologico; la superiorità scientifica e tecnologica determina costantemente, fin dai tempi del confronto tra Homo Sapiens e Neanderthal, un migliore processo di riproduzione economica dei segmenti della società umana che godono di tale supremazia; la legge della progettazione-lavoro come forza motrice costante e necessaria del processo produttivo che consiste nella indispensabile presenza di un progetto cosciente per lo svolgimento delle attività produttive, come nella copiatura/riproduzione cosciente di un modello produttivo già esistente.
Oltre a queste leggi economiche universali dobbiamo tenere presenti le megatendenze produttive, ovvero quei processi economici di lungo periodo che non assumono un carattere universale e necessario perché assenti in certe società e per la presenza carsica di controtendenze e periodi di stagnazione e regresso. Queste megatendenze sono: la tendenza generale alla sostituzione crescente della forza-lavoro umana da parte dei mezzi di produzione sociali che ci hanno permesso di diventare una specie dominante e l’unica in grado di acquisire le capacità tecnologiche; la tendenza generale allo sviluppo delle forze produttive e del derivato grado di controllo umano sulle dinamiche naturali, in grado di esaltare le potenzialità umane in tutti i campi (dall’energia alle biotecnologie, dai viaggi spaziali alla trasformazione dei pianeti), questa megatendenza determina l’accrescimento progressivo del numeratore Mezzi di Produzione rispetto al denominatore Lavoro Umano nella frazione MP/L; la tendenza alla crescente sostituzione dell’energia muscolare umana con l’utilizzo di forze motrici extra-umane (dal fuoco alla fusione nucleare); il “rendimento crescente” e la tendenza all’aumento della produttività del lavoro sociale umano; l’incremento tendenziale del livello di sviluppo scientifico della nostra specie; la tendenza generale del lavoro umano a creare un pluslavoro costante ed accumulabile, una volta superata la soglia minima critica, cioè la base materiale indispensabile che possiamo identificare nella rivoluzione neolitica, e nella creazione dell’agricoltura e dell’allevamento; la tendenza al risparmio del costo-lavoro nel processo di produzione dei diversi beni e servizi; la tendenza alla massimizzazione e alla efficientizzazione del risultato/output produttivo; la tendenza al progressivo riequilibrio tra cambiamento della popolazione e cambiamento delle risorse naturali-produttive; la tendenza all’equilibrio nella distribuzione sociale del lavoro, quindi a una sua divisione relativamente stabile tra produzione di mezzi di produzione e produzione di mezzi di consumo; la tendenza del genere umano a creare progressivamente una “praxisfera” a partire dalla rivoluzione agricola del neolitico e a fianco della geosfera/biosfera. Una “praxisfera” capace di generare e riprodurre, come scrisse lo scienziato sovietico Vernadskij “una nuova ed enorme forza geochimica sulla superficie del nostro pianeta. L’equilibrio nella migrazione degli elementi stabilitisi in lunghi tempi geologici, è infranto dall’intelletto e dall’attività degli uomini. Adesso, con tale indirizzo ci troviamo in un periodo di mutamento delle condizioni di equilibrio termodinamicoall’interno della biosfera” (Lineamenti di geochimica, 1924).
Vi sono, inoltre, dei primati universali in campo economico che riguardano: il primato della Natura (sole, terra, ecc.) rispetto al lavoro umano nel processo sociale di produzione di ricchezza e valore d’uso; il primato della Natura sulla praxis umana rispetto al processo globale di logoramento/distruzione sia dei mezzi di produzione che della forza-lavoro; il primato della scienza e della tecnologia sulle altre fonti di produttività sociale, ovvero la centralità delle informazioni scientifiche e tecnologiche sui mezzi di produzione; il primato della progettualità/praxis sulle abitudini e istinti di specie; il primato della praxis produttiva umana nel determinare i processi di trasformazione della geosfera/biosfera e clima terrestre, almeno a partire dal luglio del 1945.
Vi sono poi le coppie dialettiche che derivano dai rapporti universali che scaturiscono dal processo di produzione: mezzi di produzione/lavoro; produzione sociale/consumo sociale; fondo di consumo/fondo di produzione accumulato; produzione di mezzi di produzione/produzione di mezzi di consumo; fondo di produzione fisso (strumenti di produzione ripetutamente utilizzabili) /fondo di produzione circolante (materie prime e mezzi di produzione utilizzabili una sola volta); risorse produttive naturali (energetiche, materie prime, terra/acqua, ecc.) /bisogni sociali; riproduzione semplice/allargata del processo produttivo; condizioni sociali della produzione/forze sociali della produzione; popolazione/risorse produttive naturali disponibili volta per volta; aumento della popolazione/aumento delle risorse produttive e naturali disponibili volta per volta; incremento della produzione/incremento derivato dei bisogni materiali e culturali; energie psico-fisiche erogate nel processo produttivo/output ottenuto volta per volta; energie psico-fisiche erogate nel processo produttivo-risparmio/processo di riduzione di tale erogazione rispetto al passato.
Infine, ci sono le leggi economiche che si applicano nel periodo del surplus insufficiente al salto nel comunismo: l’effetto di sdoppiamento relativo alla possibilità/realtà dell’affermazione sia di rapporti di produzione collettivistici che classisti; la legge della creazione di un “equivalente generale” tra i diversi beni; la legge della creazione di un fondo di riserva/tesaurizzazione nell’epoca del surplus partendo dalla presenza di un “equivalente generale”; la legge del valore che Engels fece risalire a circa 6 millenni prima della formazione del modo di produzione capitalistico; la legge della domanda/offerta tipica degli scambi mercantili, all’interno di ciascuna formazione economico-sociale segnata da processi di compravendita di merci, ripetute e costanti.
L’economia è una pratica sociale che ha per oggetto i processi di produzione, scambio e distribuzione/consumo di beni e servizi, quindi, si tratta di rapporti tra uomini mediati da cose. La scienza economica, invece, ha come compito l’analisi del processo dello sviluppo storico, legato alla praxis umana, del processo di produzione. Come possiamo definire la legge economica? Come un nesso necessario, generale e stabile tra fenomeni produttivi diversi che si riproduce nel tempo, un legame dialettico di omogeneità e regolarità di manifestazione tra due fenomeni/processi diversi, all’interno del campo produttivo, che si collegano attraverso un rapporto dialettico di causa effetto tra una forza motrice e i suoi effetti costanti. Le leggi economiche, a differenza delle leggi della Natura, si realizzano e manifestano solo per mezzo dell’attività e della praxis sociale dell’uomo.
Ciò che è importante da notare è che le leggi economiche universali non possono essere annullate dal genere umano, ma conosciute ed impiegate, entro certi limiti variabili, dalla praxis umana a proprio vantaggio per soddisfare i bisogni collettivi materiali e culturali. La legge universale dell’erogazione costante di valori d’uso da parte della Natura, consente all’uomo di utilizzare questi ultimi in quantità crescente nell’eterno ricambio organico tra Uomo e Natura, senza il quale la vita sul pianeta finirebbe. Le leggi economiche universali incontrano anche delle controtendenze particolari. Ad esempio la legge dell’indispensabilità del lavoro umano per il processo di riproduzione umana non si applica, all’interno delle società classiste, rispetto a quella minoranza privilegiata venuta in possesso delle condizioni della produzione, dei mezzi sociali della produzione e del surplus sociale e resasi in grado di sfruttare i produttori diretti – non proprietari – e perciò di vivere e consumare anche senza partecipare in alcun modo, anche indiretto, al processo produttivo. Il marxismo ha confuso le manifestazioni proteiformi di ciascuna legge economica universale, nelle diverse formazioni economico-sociali, senza badare ai nessi costanti ed universali tra fenomeni economici diversi. È una confusione rimediabile, in virtù della giovinezza del marxismo stesso. Le LEU si devono manifestare, per essere tali, in tutte le formazioni finora esistite ed in prospettiva, nel futuro: sia in quelle in cui il prodotto viene consumato per la sopravvivenza, sia in quelle in cui vi è un plusprodotto; sia in quelle dove non vi siano merci e loro scambio che in quelle dove ciò sia presente.
Il comunismo è un insieme di rapporti sociali che si sono già visti nella storia. Il comunismo non è sconosciuto. Ha delle radici nel passato e si proietta nel futuro. L’esistenza di questi rapporti sociali e la loro riproposizione, in forme sempre diverse, sono parte degli argomenti a favore del comunismo. Elenchiamoli. Il comunismo primitivo nel Paleolitico c’è già stato e per più di due milioni di anni; le società rosse e collettivistiche nel Neolitico/Calcolitico ci sono state per più di 5mila anni (Gerico, Catal Huyuk, Ubaid, Yangshao in Cina) tanto da essere prese a modello dal filosofo taoista Lao-Tzu; il socialismo moderno c’è stato in URSS dal 1917 al 1990 e c’è a Cuba, Cina, Vietnam, Nordcorea, Laos, seppure con problemi e contraddizioni; il progresso tecnologico-scientifico è inarrestabile. Quindi nei prossimi secoli ci sarà anche il comunismo sviluppato se prima non interviene una guerra a distruggere il mondo.
Una cosa su cui non sono del tutto d’accordo, anzi nutro dei dubbi, quando gli autori, intorno alla questione prodotto/plusprodotto affermano:
“Nel socialismo-comunismo sviluppato, esso viene redistribuito dalla società collettivistica (a loro volta il plusprodotto/surplus costituiscono la materializzazione del pluslavoro)”.
Io, invece, credo non ci sia bisogno di plusprodotto, ma eventualmente di scorte per garantire la sopravvivenza della società in caso di calamità. Ad ogni modo il prodotto eccedente va originato da uno sforzo collettivo sulla base dell’eguaglianza e di una società non più divisa in classi.
Le crisi cicliche da sovrapproduzione, sono il sottoprodotto e la risultante di una molteplicità di fattori produttivi: asimmetria crescente tra l’aumento della produzione dei mezzi di consumo e incremento del potere d’acquisto delle masse popolari, ma anche la caduta tendenziale del saggio di profitto; il carattere anarchico del modo di produzione capitalistico; squilibrio nello sviluppo tra diversi settori produttivi; ruolo catalizzatore della speculazione.
La legge del costo-lavoro, la LEU più importante, deve essere indirizzata alla critica della teoria marginalista con le sue presunte leggi eterne utilizzate dalla borghesia contro il marxismo.
Nella critica del Programma di Gotha, Marx sottolinea che il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La Natura è la fonte dei valori d’uso tanto quanto il lavoro, ed esso stesso è la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana.
Nel capitalismo maturo e decadente, la Natura è trasformata in oggetto di una strategia di accumulazione capitalistica, attraverso le cosiddette “merci ecologiche”, diventate negli ultimi 30 anni parte organica di un nuovo e lucroso settore per la borghesia. I crediti per l’inquinamento nascono negli anni ’60, ma solo negli anni ’80 emerge un modello per i mercati delle merci ecologiche sotto forma di scambi “debito-per-natura”. Questi mercati hanno avuto la partecipazione di varie organizzazioni non-governative, banche, governi e agenzie internazionali come il FMI e la BM, oltre che dei governi debitori. Una parte del debito nazionale veniva condonata se i paesi debitori – quasi tutti del sud del mondo – accettavano di preservare varie aree di terreno “naturale“. Negli USA il Clean Air Act del 1990, una revisione della legge del 1972, è stato uno spartiacque nella regolamentazione della capitalizzazione della natura. Oggi le merci ecologiche più note sono probabilmente quelle prodotte dai programmi di riduzione delle emissioni di carbonio. Il loro obiettivo dichiarato è rallentare o ridurre il riscaldamento globale e funzionano in “modo analogo ai crediti delle zone umide: per assorbire il biossido di carbonio dell’atmosfera i proprietari di terre forestali (generalmente nei paesi tropicali più poveri) vengono pagati per non disboscarle, mentre i grandi inquinatori dei paesi industrializzati possono acquistare questi crediti per continuare a inquinare. Nella primavera del 2006 i crediti del biossido di carbonio in Europa sono stati venduti sul mercato a 30 € la tonnellata. Il prezzo di questa nuova merce, tuttavia, è alquanto instabile. I mercati basati sui crediti hanno fatto la loro comparsa anche per molte altre merci legate all’ecologia: crediti per la biodiversità, per la pesca, per l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, per gli uccelli rari, e così via. Una società della Georgia, l’International Paper, sta riproducendo in terre di sua proprietà un picchio a rischio di estinzione i cui crediti hanno un valore di mercato di 100.000 $. In questo modo l’International Paper può riguadagnare in futuro 250.000 $ per ciascun credito“.
Nel capitolo 50 del 3° libro del Capitale Marx scrive che “tuttavia, se riconduciamo il salario alla sua base generale, precisamente a quella parte di prodotto del lavoro dell’operaio che passa nel suo consumo individuale; se liberiamo questa parte dai limiti capitalistici e la estendiamo al volume del consumo consentito da un lato dalla forza produttiva esistente della società (cioè dalla forza produttiva sociale del suo lavoro considerato come lavoro effettivamente sociale) e richiesto dall’altro lato dal pieno sviluppo della personalità; se riduciamo, inoltre, il pluslavoro e il plusprodotto alla misura che è richiesta nelle date condizioni di produzione della società, da un lato per la costituzione di un fondo di assicurazione di riserva, dall’altro per l’allargamento continuo della riproduzione nella misura determinata dai bisogni sociali; se comprendiamo, infine, nel n. 1 il lavoro necessario e nel n. 2 il pluslavoro, la quantità di lavoro che i membri della società in grado di lavorare devono sempre effettuare, per coloro che non possono ancora o non possono più lavorare, in altre parole, se spogliamo sia il salario che il plusvalore, sia il lavoro necessario che il pluslavoro, del loro specifico carattere capitalistico, non abbiamo più queste forme, ma semplicemente i loro fondamenti, che sono comuni a tutti i modi di produzione sociali”.
Una parentesi esplicativa va aperta sull’incompatibilità fra Marxismo e Marginalismo. Il Marginalismo indica sia un particolare metodo di analisi sia la particolare scuola di pensiero economico divenuta dominante nell’ultimo trentennio del secolo XIX. Il metodo, tuttavia, è stato usato sia prima che dopo che oltre il gruppo definito di autori marginalisti. Il metodo consiste nell’individuare le scelte ottime dei soggetti economici mediante il confronto tra il beneficio e il costo marginale ottenuti modificando una data scelta: solo se queste due grandezze sono uguali (per esempio se il beneficio ottenuto dall’ultima dose infinitesima o dose marginale di un certo bene uguaglia il sacrificio aggiuntivo necessario per ottenerlo) la suddetta scelta è da ritenersi ottima.
Il metodo è stato esteso in primo luogo dagli autori neoclassici all’analisi della società nel suo complesso, ossia al risultato sociale dell’interazione delle scelte individuali. La dedolezza fondamentale e intrinseca del metodo sta nel fatto che l’uguaglianza tra certe grandezze – in termini matematici, l’annullarsi di certe derivate – è una condizione necessaria e sufficiente per una scelta ottima – in termini matematici per un massimo delle funzioni obiettivo del soggetto economico o della società – solo in casi molto particolari.
La scuola marginalista ha preso l’avvio dall’idea che il valore di un bene coincida con la sua utilità (marginale) piuttosto che con il lavoro richiesto per la sua produzione, come ritenevano gli economisti classici; a livello scientifico dall’idea che il dato a cui risalire per spiegare i rapporti di scambio tra i beni sia la struttura delle preferenze del consumatore piuttosto che la quantità di lavoro incorporato, come avveniva nella teoria ricardiana. La trasformazione dei valori in prezzi, nella teoria marxista, non è nient’altro che la teoria dei prezzi in Marx, che a sua volta non è altro che la differenza tra valore prodotto e valore appropriato. Parentesi chiusa.
La futura società comunista, dice Engels nel suo Antiduhring, deve sapere e calcolare quanto lavoro richiede ogni oggetto d’uso per la sua produzione, ma senza l’intervento del famoso valore. A questo prodotto sociale complessivo verrà detratto: il fondo di accumulazione, il fondo di ammortamento, il fondo di assicurazione, il fondo per le spese sostenute dalla società per le condizioni sociali della produzione, a partire dalla sanità/istruzione, il fondo per il sostentamento dei disabili, dei pensionati e dei bambini.
A tutti questi fondi andranno aggiunti quelli indispensabili per assicurare come minimo la produzione dei mezzi di sussistenza necessari per consentire una vita materiale/culturale confortevole e di buona qualità della forza lavoro. Anche nel comunismo rimarrà un surplus da redistribuire, indirizzare verso implementazioni del sistema stesso, al suo miglioramento, dalla diminuzione del tempo di lavoro, all’aumento della produttività attraverso le macchine, eccetera. Esisteranno poi una pluralità di comunismi, una varietà di autorganizzazioni, conseguenza del “regno della libertà”. Non ci sarà, perciò, un tipo univoco di comunismo, ma una pluralità di comunismi.
Non dobbiamo qui dimenticare il nesso tra LEU e socialismo, ma tale nesso va definito innanzitutto attraverso la definizione del socialismo come fase socioproduttiva. Il socialismo è basato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e dobbiamo vederlo come una sorta di Purgatorio dei produttori diretti dopo la plurimillenaria esperienza delle società classiste, compreso il capitalismo monopolistico di Stato contemporaneo, distante dal comunismo realizzato che, comunque, conoscerà problemi e contraddizioni, come la morte individuale, il dolore e la sofferenza, le tensioni tra i produttori diretti per decidere come, cosa e quando produrre. Il socialismo va inteso sia come prima fase della strada verso il comunismo che come punto di possibile ritorno al capitalismo di Stato, come avvenne ad esempio all’area geopolitica di quello che fu il disciolto Patto di Varsavia. Si tratta, perciò, di un’autostrada che può marciare in due direzioni opposte, in avanti (verso il comunismo) o all’indietro verso la precedente fase del capitalismo di Stato, perché l’effetto di sdoppiamento continua ad operare anche nel socialismo ed agirà fino al pieno consolidamento del comunismo sviluppato. Il socialismo risulta, quindi, come fase immatura del modo di produzione comunista, ma va inteso come una tappa assolutamente diversa dal modo di produzione capitalista, segnato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, e del prodotto sociale, del pluslavoro-plusvalore e delle condizioni della produzione (terra, acqua, ecc.) da parte della borghesia: un sistema socioproduttivo in cui anche nelle zone “più ricche“, di questi tempi, dilagano miseria e fame per le masse popolari. Per Marx, la stella polare da cui iniziare l’analisi del socialismo è “il prodotto sociale complessivo” disponibile. Perciò, anche nel socialismo, l’unico elemento comune a tutti gli oggetti d’uso è il lavoro. Anche nel socialismo hanno importanza fattori quali “la gestione redditizia, il costo sociale di produzione, i prezzi”. È importante “il costo di produzione” all’interno di ogni economia socialista, ed “è necessario elaborare un sistema di analisi dei costi che premi sistematicamente e punisca con uguale sistematicità i successi e gli insuccessi nella lotta per ridurli. È anche necessario elaborare norme sul consumo delle materie prime, sulle spese indirette, sui prodotti in lavorazione, sugli inventari delle materie prime e dei prodotti finiti. Bisogna rendere sistematico il controllo degli inventari e fare un lavoro economico preciso su tutti questi indici, in un costante processo di rinnovamento”.
Nel nostro sistema di contabilità socialista, abbiamo diviso i costi in: costi delle materie prime e dei materiali diretti, costi dei materiali indiretti, costo della forza lavoro, costo del deprezzamento (ammortamento) e della previdenza sociale, che è il contributo delle imprese statali misurato in funzione del fondo salari. Nell’ambito delle materie prime e dei materiali di diretto consumo si può agire facendo dei risparmi diretti, introducendo dei cambiamenti tecnologici ed evitando gli sprechi. Nei materiali indiretti si può risparmiare diminuendo il consumo di elettricità, di combustibile, eccetera. Quindi, il processo di calcolo del costo-lavoro, delle “detrazioni” in oggetto ed il processo di riproduzione delle forze produttive, anche durante la prima ed immatura fase di sviluppo della “società comunista“, marciano di pari passo costituendo una coppia dialettica indissolubile. Almeno fin dal 1943 in URSS era stato riconosciuto il fatto che collegava i costi dei diversi oggetti d’uso nella società socialista (ed i loro prezzi) ai costi socialmente necessari della loro produzione (= costo-lavoro) anche se definendo in modo erroneo come “merci” tali oggetti e rilevando correttamente che la società socialista poteva stabilire per via politica certe “deviazioni” dal costo-lavoro per alcuni beni di cui si appropriavano i produttori diretti, in base alla quantità/qualità del lavoro da essi erogato. È, quindi, inevitabile che il costo-lavoro dei diversi oggetti, compresi i mezzi di produzione e la loro stabilità giochino un ruolo assai importante rispetto a tale “segmento di pratica produttiva” della società socialista, nella quale serve e servirà conoscere con esattezza sia il tempo di lavoro disponibile per l’attività produttiva che per le proporzioni in cui essa si distribuisce all’interno del processo di riproduzione dei diversi valori d’uso, creati nella società collettivistica, serve e servirà conoscere in modo preventivo i “mezzi e le forze presunte” in campo produttivo, a disposizione della “nuova società” per riprodurre sia i mezzi di consumo che i mezzi di produzione.
Nulla vieta alla società socialista di applicare “prezzi politici” su alcuni beni, ma non certo su tutti o su una loro parte maggioritaria, se non pagando la “penitenza” di prosciugare simultaneamente il fondo destinato all’accumulazione-ammortamento, oppure di aumentare il costo di altri beni per compensare i prezzi politici. Vi è, poi, la teoria del costo-lavoro che, implicitamente, sta alla base di importanti conquiste teoriche degli economisti sovietici intorno alla pianificazione ed al calcolo del processo produttivo, quali ad esempio:
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il bilancio materiale, da intendersi come un insieme dialettico di input produttivi
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il metodo delle interdipendenze settoriali (metodo input-output) elaborato dagli economisti sovietici P.I.Popov e M. Barengolts, in cui si raggiunge un equilibrio tra i vari settori con proporzioni ricavabili empiricamente da una matrice di coefficienti produttivi intersettoriali, presupposto un fattore primario, il lavoro, che non è a sua volta prodotto
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la programmazione lineare statica di L. Kantorovich (1939), e cioè la costruzione di matrici di equazioni lineari da cui si estraevano le soluzioni ottimali in termini di distribuzione delle risorse
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il modello dinamico di programmazione lineare di Kantorovich (1959)
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la teoria del controllo ottimale elaborata dal matematico sovietico Lev Pontryagin
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il modello di sviluppo di Feldman nel 1928 che, partendo da rigide premesse produttive definiva il tasso di investimento determinato dalla dimensione e sviluppo del settore A, destinato alla produzione di mezzi di produzione.
Gli economisti sovietici utilizzarono con successo la categoria di produttività netta al fine di determinare la redditività degli impianti produttivi, indicando con tale termine la produttività di un impianto importante e di un determinato periodo di tempo, meno il costo iniziale necessario per ottenerla, espresso in rapporto al costo di costruzione dell’impianto, anch’esso calcolato in termini di costi correnti dei salari e dei materiali impiegati nella costruzione.
Passiamo ora al processo di distribuzione e consumo all’interno della società collettivistica, notando subito che siamo in presenza di una società al cui interno lo sviluppo delle forze produttive risulta ancora relativamente limitato e tale da non poter garantire il soddisfacimento dei bisogni umani secondo la regola della gratuità del consumo, in base alla regola comunista sviluppata del “a ciascuno secondo i suoi bisogni“. Pertanto, nel socialismo-purgatorio si assiste al processo di riproduzione continua di una contraddizione fondamentale tra l’alto livello di sviluppo già raggiunto dai bisogni sociali e il basso grado di sviluppo delle forze produttive sociali destinate a soddisfarlo: una tensione e scarto di valore generale che può anche assumere un carattere antagonista, sia a livello teorico che pratico (Kronstadt 1921, ecc.).
Un’ulteriore contraddizione all’interno della dinamica del socialismo-purgatorio consiste nella parziale tensione tra l’aumento del soddisfacimento dei bisogni materiali e culturali dei produttori diretti, da un lato, e l’incremento del loro tempo libero con la riduzione progressiva dell’orario di lavoro: a parità di condizioni quest’ultimo elemento risulta in contraddizione con il primo, visto che si lavora di meno, diminuisce simultaneamente la qualità dei mezzi di consumo a disposizione della società collettivistica e dei suoi produttori.
Dati questi presupposti e condizioni materiali, la migliore forma di distribuzione del prodotto sociale all’interno di una società socialista diventa quella effettuata attraverso il tempo di lavoro erogato in base alla sua durata, intensità e qualifica dai diversi produttori, una volta effettuate le “detrazioni” sopra esaminate: “a ciascuno secondo il suo lavoro“, in estrema sintesi. Quindi; una certa erogazione di tempo di lavoro, una certa quantità di mezzi di consumo acquisiti/consumabili dai singoli produttori diretti all’interno del socialismo purgatorio, sempre dopo avere effettuato le detrazioni sopra indicate dal “prodotto sociale complessivo“: questo è il criterio ottimale per il processo di distribuzione nel socialismo-purgatorio dei mezzi di consumo individuali, a giudizio di Marx. Si tratta di una regola generale basata su uno scambio (tra produttori diretti e società collettivistica) di lavori uguali e costi-lavoro uguali, sull’uguaglianza tra il lavoro in entrata (cioè l’erogazione di una determinata quantità di tempo-lavoro da parte dei produttori diretti) da una parte, ed il lavoro in uscita e l’output dall’altra (cioè il tempo di lavoro necessario per produrre i mezzi di consumo attribuiti ed acquisiti da parte dei produttori diretti); sempre dopo avere effettuato le “detrazioni” di cui sopra. Si tratta in ogni caso di un processo continuo di scambio tra equivalenti, ma non di un processo di scambio di merci che non è la forma esclusiva di produzione sociale. Marx sottolineò nella “Critica al Programma di Gotha” che, se nel socialismo-purgatorio ed “all’interno della società collettivistica vige la regola della distribuzione secondo il lavoro erogato, dall’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali“.
Esaminiamo allora il lungo passo della “Critica al Programma di Gotha” in cui si descrive una particolare manifestazione della legge universale del costo-lavoro (“la stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’ altra“) che domina la distribuzione dei mezzi di consumo nel socialismo.
All’interno della società collettivista, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti, tantomeno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti come una proprietà reale da essi posseduta, poiché ora, in contrapposizione alla società capitalistica, i lavori individuali non diventano più parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione “frutto del lavoro” che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso. Quella con cui abbiamo a che fare qui è una società comunista, non come si è sviluppata, ma come sorge dalla società capitalistica; che porta, quindi, ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro.
Vi domina, perciò, lo stesso principio che regola lo scambio delle merci, in quanto è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perché nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché dall’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma, contro un’eguale quantità di un’ altra.
L’uguale diritto è, perciò, diritto borghese mentre l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.
Nonostante questo processo, questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro.
Tuttavia l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro e fornisce, quindi, nello stesso tempo più lavoro; oppure può lavorare durante un tempo più lungo, e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cessa di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro disuguale. Esso non riconosce alcuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale e, quindi, la capacità di rendimento come privilegi materiali.
Esso è, perciò, per suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un eguale misura. Ma gli individui disuguali, perché diversi, sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, poiché vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio, in questo caso, solo come operai, prescindendo da ogni altra cosa. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere diseguale.
Questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista quale è uscita dai lunghi travagli del parto della società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società.
Lavoro e costo-lavoro, pertanto, contraddistinguono il “particolare ed egualitario scambio di equivalenti” dentro “la società collettivistica“.
La regola generale dello “scambio di equivalenti” (sempre presupponendo ed effettuando prima le “detrazioni“) sussistente tra produttori diretti e società socialista (“scambia una quantità di lavoro in una forma, contro un’uguale quantità in un’altra“) solleva subito alcune questioni importanti. Innanzitutto la teoria del costo-lavoro si dimostra uno schema esplicativo che permette di comprendere tale “scambio” particolare, diverso da quello che avviene nelle società classiste: uno scambio in cui la forza-lavoro non diventa merce ed al cui interno “si scambia una quantità di lavoro in una forma contro un uguale quantità in un altra”, uno scambio particolare che assomiglia allo scambio di merci, ma è quantitativamente diverso.
Il criterio generale (“la misura uguale, il lavoro“) in via d’esposizione non costituisce, inoltre, l’unica regola applicabile ad una società socialista venendo – infatti – affiancato da quello alternativo dell’egualitarismo materiale: in altri termini, ben diverso dall’ “uguale diritto” alla stessa quantità di mezzi di consumo se si è in presenza di un’uguale contributo materiale: in altri termini, la regola “a tutti la stessa quantità di mezzi di consumo“, rappresenta un’opzione diversa da quella proposta invece da Marx per il processo di distribuzione -consumo all’interno del socialismo-purgatorio.
Il criterio dell’egualitarismo materiale non è, tuttavia, aderente al pensiero marxiano. È necessario, in una fase di transizione, come il socialismo. In primo luogo la regola di ridistribuzione del prodotto sociale risulta sicuramente ugualitaria, ma certo non basata su una reale “giustizia”. Se, per esempio, un produttore diretto, lavorando 8 ore a parità di qualifica, ottiene la stessa quantità di mezzi di consumo e la stessa “retribuzione” di un suo collega, che lavora invece con una intensità doppia del primo, il “senso comune” di gran parte della forza-lavoro del passato/presente/futuro riterrà non conforme a giustizia tale distribuzione, l’egualitarismo materiale, inoltre, favorirebbe direttamente il disinteresse per la produzione sociale nel socialismo, scoraggiando la spinta collettiva a lavorare meglio e più intensamente, a raggiungere una qualifica superiore autocreandosi una forza-lavoro complessa in senso marxiano. L’esperienza concreta e secolare del “socialismo deformato” dice chiaramente che dobbiamo puntare sull’uguaglianza delle opportunità e non dei salari. Già Huberman e Sweezy notarono negli anni ’60 del secolo scorso, gli alti livelli di assenteismo sul lavoro a Cuba. L’esperienza storica delle società collettivistiche ha dimostrato come il parassitismo sociale non costituisca solo un fenomeno diffuso in natura, ma diffuso anche nel socialismo-purgatorio, se lasciato libero di diffondersi senza costanti controtendenze.
L’uguaglianza salariale nel socialismo provoca una tendenza all’omologazione verso il basso della quantità e qualità del lavoro erogato dal produttore diretto. Tuttavia, questa tendenza è ben presente anche nel capitalismo e non solo nei livelli simili di inquadramento lavorativo. Io credo che questo sia originato da un’insieme di variabili, quali la cultura, la demografia, il livello di partenza della strutturazione economica data, e dal livello di maturazione politica dei lavoratori.
In uno scenario favorevole, la regola del “a ciascuno secondo il suo lavoro” produce effetti positivi per i lavoratori del purgatorio-socialismo.
Rispetto a questi scenari esiste anche una “variante negativa“. Un grave problema si può porre infatti nel caso di una società collettivistica rovinata dalla guerra civile, con un basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali già nel periodo prerivoluzionario, ed in sovrappiù gravata dalla pesante “detrazione” creata dalla necessità di mantenere un numeroso e costoso esercito per difendersi dalla minaccia di aggressione dal campo capitalistico in assenza di una rivoluzione socialista mondiale. È stato il caso dell’URSS.
Il mercato è antecedente il capitalismo, lo precede. È fondamentale, per tutti i sistemi socialisti pianificare/controllare il mercato. Il caso jugoslavo del 1950/88 ha provato che il mercato, senza pianificazione, crea inevitabilmente:
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crisi periodiche di sovrapproduzione e fasi recessive (1974 e 1980/83), come nel capitalismo;
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asimmetrie di sviluppo e potere d’acquisto tra le diverse aree geopolitiche della stessa nazione, oltre a crescenti contraddizioni tra di esse;
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asimmetrie di sviluppo tra i diversi settori produttivi;
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aumento dei prezzi di consumo ed inflazione costante;
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privilegi corporativi nei settori produttivi meglio posizionati.
Nell’economia jugoslava, a partire dalla metà degli anni ’50, “la libera economia di mercato” basata su aziende socialiste “moltiplicò i beni di consumo a disposizione, ma produsse anche l’inflazione“. Alla base della disputa sui vantaggi della programmazione centrale, contro la libera economia di mercato, c’era il conflitto di interessi tra le diverse repubbliche della federazione, tra il Nord prospero e industrializzato, e il Sud contadino e impoverito. Il reddito medio della popolazione in Croazia era quasi doppio rispetto al reddito in Bosnia, Montenegro e Macedonia; in Slovenia era due volte e mezzo più alto. La Serbia occupava una posizione intermedia, cui contribuivano la ricca provincia settentrionale della Vojvodina e il Sud povero di Kosovo e Metohija. Le differenze si accentuarono con l’introduzione dell’economia di mercato: ogni anno Croazia, Slovenia e Vojvodina diventavano più ricche e Bosnia, Erzegovina, Montenegro, Macedonia, Kosovo e Metohija più povere. Tito era risoluto ad elevare il livello di vita nel sud e a crearvi posti di lavoro, ma questo si poteva fare molto meglio mediante la programmazione centralizzata che con la libera economia di mercato.
Un altro esempio delle proteiformi contraddizioni che possono sorgere tra le imprese socialiste autonome e l’interesse generale della società collettivistica, viene fornita dall’esperienza sovietica del 1918, dove cominciò a diffondersi tra i comitati di fabbrica una tendenza sindacalista: essa era un derivato dell’idea che le aziende dovessero essere gestite direttamente dagli operai in esse occupati nel loro esclusivo interesse. Questo fenomeno determinò un abbassamento della produzione e della disciplina in fabbrica; in molti casi fece sorgere tra gli operai un sentimento particolaristico e di possesso nei confronti delle loro fabbriche, che andava a detrimento degli interessi della più vasta comunità e resisteva gelosamente ai tentativi di coordinamento e di direzione dall’alto.
“Subentrò un altro proprietario – scriveva uno dei dirigenti del sindacato degli operai metallurgici – che, alla pari del precedente, era individualista ed antisociale ed il nome del nuovo proprietario era Comitato di controllo nel bacino di Donez. Le officine metallurgiche e le miniere si rifiutavano reciprocamente di fornirsi il ferro e il carbone a credito, e vendevano il ferro ai contadini, senza alcun riguardo per i bisogni dello Stato“.
Un successivo rapporto del Vesenkha riassumeva la posizione assunta da tale organismo durante questo periodo in termini molto franchi. “Il Vesenkha ha chiaramente compreso la necessità di un coordinato piano di nazionalizzazione condotto su linee ben precise. Tuttavia, nel primo periodo esso non ha potuto disporre dell’apparato statistico ed amministrativo, né stabilire contatti efficienti con le singole località e, per conseguenza, mancando il numero sufficiente di organi locali efficienti e di quadri operai, è stato costretto a portare entro i limiti della propria competenza e a cercare di dirigere un numero troppo grande di imprese economicamente deboli: ciò ha reso l’organizzazione della produzione estremamente difficile. Il primo tempestoso periodo di amministrazione industriale ha sconvolto ogni organizzazione sistematica dell’industria e della rilevazione economica“.
Proprio attraverso l’esperienza passata ci porta ad affermare che risulta evidente che proprio la combinazione dialettica tra una pianificazione di tipo vincolante a livello strategico e la simultanea azione del mercato (libera concorrenza tra imprese [parzialmente] autonome, a livello di decisioni microeconomiche, unita all’intervento statale teso a riequilibrare costantemente le asimmetrie via via createsi nei processi di formazione dei prezzi e nella destinazione (sia settoriale che geografica) degli investimenti, si sia dimostrata nei fatti la migliore per ottimizzare il processo di riproduzione allargata del sistema socialista: tesi verificata proprio dalla concreta esperienza cinese del 1978-2013, con le sue luci e ombre, e con le sue “correzioni di tiro” in corso d’opera anche rispetto all’interrelazione dialettica tra piano e mercato, tra prezzi fissati dallo Stato, ecc..
Per definire la “coabitazione” tra i due poli dialettici si può utilizzare, usare lo slogan evidenziato dalla pluridecennale pratica cinese, e cioè “il massimo di pianificazione macroeconomica compatibile con il mercato a livello microeconomico, e viceversa“.
Lo storico analista D. Graeber ha notato giustamente che “siamo abituati a pensare che il capitalismo e il mercato siano la stessa cosa, ma, come ha osservato il grande storico francese Fernand Braudel, sotto molti aspetti i due si possono vedere anche come opposti. Mentre i mercati sono delle istituzioni per scambiare merci usando la moneta come mezzo, storicamente, un modo per coloro che avevano un’eccedenza di grano, di procurarsi delle candele e viceversa (in termini ecnomici, M-D-M’, ovvero merce-denaro-altra merce) -, il capitalismo è prima di tutto l’arte di usare il denaro per produrre altro denaro (D-M-D’), naturalmente il modo più facile per riuscirci e stabilire qualche tipo di monopolio, ufficiale o de facto. Per questa ragione, i capitalisti di ogni tipo, che si tratti di mercanti, principi, finanzieri o industriali, hanno sempre cercato di allearsi con l’autorità politica per limitare la competizione nel mercato, in modo da essere agevolati e poter guadagnare di più“. Il mercato precede ed anticipa nei fatti di almeno 7 millenni la genesi del capitalismo (Engels 1894), a sua volta quest’ultimo ha utilizzato con una certa efficacia e su larga scala il meccanismo della pianificazione vincolante a livello strategico fin dall’esperienza concreta della “economia di guerra” tedesca del 1914-1918, allora diretta da un geniale organizzatore come il magnate W. Rathenau: bisogna innanzitutto de-ideologizzare la questione del rapporto dialettico tra mercato e pianificazione, evitando sia l’errata ed antistorica identificazione tra il primo elemento ed il capitalismo, che l’altrettanto scorretta ed antistorica equazione fra socialismo e pianificazione omnicomprensiva.
In Jugoslavia, ad esempio, sussisteva (troppo) poca pianificazione, ma molti elementi di socialismo. […] Assai diversa risultava invece la questione, almeno altrettanto importante sul piano politico-sociale, della presenza di un consistente settore capitalista all’interno di una formazione economico-sociale prevalentemente collettivistica ed egemonizzata dal settore produttivo di matrice statale e cooperativo, con il delicato processo di coesistenza – lotta tra il primo ed il secondo, che si è materializzata nella dinamica socioproduttiva cinese tra il 1978 ed il 2014.[…]
[…] Anche tutte le altre leggi economiche universali, oltre a quella del costo-lavoro si manifestano e rivelano all’interno del processo di riproduzione economico-sociale della fase (immatura) di sviluppo socialista, che può, a determinate condizioni, aprire le porte progressivamente, senza un salto drastico di qualità, ma con progressivi avanzamenti e “riforme” (quali ad esempio l’introduzione graduale della gratuità nel consumo di beni di prima necessità), al difficile e lungo processo di costruzione del comunismo sviluppato.
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