Volevo chiamare questo post “La questione dell’esistenza o meno della destra e della sinistra come categorie politiche, in Italia”. Non l’ho fatto. Tuttavia, era proprio questo il tema iniziale che volevo affrontare.
La cosa più incredibile risiede proprio nel dare ascolto a delle questioni poste così male, perciò ho cambiato il titolo del post. La stragrande maggioranza di coloro che si definiscono tali (di destra o di sinistra, ma anche cattolici o qualsiasi altra cosa) si butta a capofitto, ovviamente, in queste polemiche. E da anni, ormai. Ma se la sinistra è Renzi e la destra è Berlusconi o il NCD, allora si, tra destra e sinistra non c’è alcuna differenza. Si tratta della melassa neoliberista che ha reso tutto indistinto, incolore, inodore. E fottutamente entropico.
Se la destra e la sinistra sono quelle più estreme, cioè Salvini da una parte e Rifondazione (quei 4 gatti che si definiscono ancora tali) l'”Alleanza Popolare” di Falcone e Montanari, MdP, Articolo 1 dall’altra, bisogna analizzare con un pò di attenzione in più la situazione. Poniamo che, entrambe queste opzioni siano vere, anche se non ne abbiamo le prove.
Salvini, che comunque non ha un peso politico rilevantissimo, checché se ne dica, indubbiamente, è di destra, di una destra non solo populista, ma anche nazionalista, che difende le classe imprenditoriali e piccolo-borghesi, dall’attacco feroce che hanno subìto dalla globalizzazione. Un attacco, ricordiamolo, che ha sortito gli effetti che ha sortito proprio perché quelle classi sociali non si sono sapute ricreare, adattare ed aggiornare ai cambiamenti in atto, non hanno saputo rispondere adeguatamente, magari utilizzando gli stessi mezzi dell’avversario per ottenere i propri risultati. Tantomeno, in tal senso, quelle classi sono state coadiuvate ed aiutate da uno Stato che, al contrario, ha semplicemente pensato a sopravvivere a sé stesso, attirando così il consenso di questo blocco sociale, invece che impegnarsi a risolvere i problemi per la collettività. Una posizione comoda, non c’è che dire.
Salvini, tuttavia, non difende solo questi, ma anche alcuni strati sociali che vivono sul debito pubblico e che ora vedono intaccate le proprie rendite di posizione. Gli altri, cioè i residui delle operazioni fallimentari della sinistra post-Muro di Berlino, vivono nei meandri della riproduzione del debito pubblico (tratto che ha in comune con gli altri) e non ha alcun interesse ad intaccare il meccanismo della riproduzione stessa.
Che cos’è questa eco battagliera che risuona ancora nelle nostre orecchie? Si tratta, a mio avviso, di una lotta tutta interna all’élite classica. Anche quando si parla di forme politiche estreme. Abbiamo, mediamente, una lotta tra insegnanti, impiegati di una qualche Regione, delle Province o dei Comuni, piuttosto che dell’Agenzia delle Entrate, funzionari politici o pubblici di vario livello, sindacalisti (dirigenti dipendenti dello Stato), per l’appunto persone stipendiate dalle istituzioni pubbliche ai livelli più vari. Mancano gli operai, i precari, i disoccupati. In questo macro-insieme, quelli di destra affermano non esserci più una differenza sostanziale tra destra e sinistra; quelli di sinistra che le differenze ci sono e contano ancora. Queste posizioni, ovviamente, derivano dalle rispettive storie identitarie, più che rispondere a delle realtà di fatto. Ciò che è rispettivamente e storicamente identitario è che, per la destra, ogni tipo di destra, l’ottundere le differenze è sempre stata un’arma per bloccare le lotte; per quelli di sinistra, è stata un’arma per farle partire. Tuttavia, oggi le lotte non ci sono più, nel senso novecentesco del termine. Quindi? Si vive di riflessi condizionati.
Tutto ciò si collega ad un altro concetto che andava per la maggiore nei decenni trascorsi: agire all’interno delle istituzioni per “cambiare le cose”. Una misera, piccola cosa rispetto alla grandezza dei cambiamenti palingenetici, rivoluzionari, che erano stati promessi a generazioni di esclusi ed oppressi. Agire all’interno delle istituzioni, rispettandone le compatibilità sistemiche poiché altro non si può fare, ha creato degli ambiti di accaparramento delle risorse prodotte dalla collettività, un accaparramento di tipo clanico. Perciò nessuna rivoluzione, nessun cambio netto, ma integrazione nel sistema. Il tipo di integrazione, ogni tipo di integrazione, è sempre stato duplice: l’integrazione critica per ciò che riguardava e riguarda gli altri clan, cioè i concorrenti; quella acritica per quanto riguarda il proprio clan di appartenenza. Il sistema ha vinto, dobbiamo adeguarci, nella migliore delle ipotesi; avevamo torto, dobbiamo adeguarci, nella peggiore.
Ma allora, le differenze ci sono o non ci sono? Ci sono, ma sono dislocate da un altra parte, “il mondo è altrove” diceva il poeta Arthur Rimbaud. Sono dislocate laddove si possono rinvenire quelle categorie ideali, diciamo assolute, che contraddistinguono l’umano, nella realtà di cui facciamo parte: oppresso/oppressore; capitale/lavoro. Ed è lì che dobbiamo agire se vogliamo veramente cambiare qualcosa, anche solo l’ 1 % dell’intera baracca.
Viviamo in tempi problematici, forse addirittura bestiali. C’è la guerra, anche se le trincee sono relativamente lontane da noi. Il sistema fa acqua da tutte le parti, i vecchi patti sociali non reggono più e se ne creano di nuovi, adattandoli alle esigenze del sistema stesso. La motivazione di tante difficoltà va ricercata nella insopprimibile tendenza ad una nuova ripartizione delle risorse a scala mondiale, di cui l’Asia è alla guida, che vede l’Occidente – per fattori pregressi e macroeconomici, per scelta ed errori strategici – in una posizione di declino. Si è già affermata una nuova divisione internazionale del lavoro nella quale l’Occidente consumatore riceve soldi dall’Oriente produttore per acquistare i beni prodotti dal secondo. In questo circolo vizioso non è difficile immaginare il nostro destino.
Tuttavia, a contestualizzazione avvenuta, perché questo titolo? Perché siamo tutti complici? Perché è obiettivamente complicato parlare di differenze politiche?
Perché c’è un’idea conduttrice, sinceramente o insinceramente comune a tutti, ovvero l’idea che il male peggiore del mondo sia la povertà. Ne consegue che la cultura delle classi povere debba essere sostituita da quella della classe dominante. La nostra colpa consiste nel fatto di credere che la storia non possa essere altro che storia del capitalismo e della sua classe dominante, la borghesia (come si chiamava fino a non molti anni fa). Su questa base si innesta anche il problema culturale Islam vs. Occidente.
A giugno 1975, nella sua “Abiura dalla trilogia della vita”, Pasolini cita i cambiamenti avvenuti nella società italiana da un punto di vista sociologico e di classe e accenna a quello che, similmente, ma prima, era avvenuto in altri paesi più sviluppati dell’Italia, come ad esempio in Francia. In Francia i
giochi erano fatti già da un pezzo
tanto che il popolo, antropologicamente parlando
non esiste più
Per i borghesi francesi il popolo è costituito dai marocchini, dai portoghesi, tunisini, dagli italiani, magari del sud, dagli algerini o dai greci. Costoro non hanno altra speranza ed altro da fare se non quelli di assumere al più presto il comportamento dei borghesi francesi, cosa peraltro pensata da tutti gli intellettuali francesi, sia di destra che di sinistra. Questa è la spiegazione di tanta confusione tra le file degli intellettuali d’oltralpe che, magari, son passati dal PCF a Le Pen senza discontinuità alcuna.
Si è trattato di un lungo e costante processo di adattamento ad un degrado di civiltà, causato dal mancato rinnovamento socio-politico della nostra società, italiana, europea, parte dell’Occidente.
Non ci sono più differenze. Concretamente e non se lo stà inventando il governo, la Trilateral o la Massoneria. Non c’è alcuna cospirazione in atto. Tuttavia, non si può combattere questo stato di cose con semplici dichiarazioni, bisognerebbe battersi contro le cause socio-economiche che generano questa melassa indistinta e mortifera.
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