Siamo al Trattato IV, alla canzone III (pag. 124)
Iniziamo con la canzone.
La canzone è un componimento strofico di alto rango e tema lirico, principalmente e poi dottrinale e politico, ma sempre dantescamente “tragico” (lirico anche nel senso di legato alla musica) che i Siciliani e poi i Toscani mandarono a perfezione sul modello della cansò provenzale. Dante la praticò con particolare impegno e lo teorizzò nel II Libro del De Vulgari eloquentia come la forma poetica più alta, signoreggiante sulla ballata che è gravata di ritornello e dipende dai piedi battenti dei danzatori e sul sonetto; Petrarca ne consegnò l’aureo modello ai secoli successivi (petrarchesca). Semplificando molto e nella terminologia moderna (non esattamente quella del De Vulgari eloquentia) lo schema, per esempio, della dantesca Donne ch’avete intellecto d’amore (Vita nova).
Perché devo andare a vedere la metrica di una canzone? Per vedere se c’è il rispetto di una forma metrica. Se non c’è diremo che la forma metrica è imperfetta. Nel Novecento la metrica è libera, ma è un’altra questione.
Le canzoni si compongono di Fronte, Sirma, ripetute in tutte le stanze, con un congedo finale.
Canzone III: linguaggio allegorico.
Versi 18-20: la filosofia è come una donna che ama sé stessa, chiusa in sé stessa, non vede che sé stessa.
Verso 24: “reggimenti belli”: la filosofia comandò che la gentilezza (nobiltà) fosse secondo il suo parere antico privilegio di nascita di chi è ricco (reggimenti belli) di chi possiede.
Versi dal 30 al 40: si dice che per molto tempo è durata l’opinione sbagliata che l’essere di famiglia ricca, “gentile” fosse di per sé un merito ereditario.
A chi ha visto il vero e poi lungo il cammino lo sbaglia e nonostante ciò (il cammino) sbaglia, è come morto pur se appare vivo. Essere morto, andare sottoterra, quindi non vedere più la luce.
Nota: il prosimetro per Dante non rispondeva più alle finalità di conoscenza che si era posto, canzone inclusa.