In sociologia, l’integrazione è la disponibilità degli individui che compongono una società a coordinare regolarmente ed efficacemente le proprie azioni, mantenendo i conflitti ad “un livello accettabile, tollerabile”, cercando di risolverli in maniera pacifica. Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di come l’establishment (con la sua scienza sociale ufficiale) vede la questione.
Secondo questa visione, all’integrazione sociale possono associarsi gradi variabili di integrazione culturale, espressione con cui ci si riferisce alla coerenza logica e funzionale della cultura di una società, ovvero del sistema di credenze e di valori in essa vigente. Se una società vuole esistere, deve essere capace di realizzare una certa forma di integrazione sociale.
A questo punto se l’affermazione soprastante che si riferisce alla “coerenza logica e funzionale della cultura di una società” è vera o comunque affidabile, stiamo messi male, visto che i “nostri valori” e le “nostre credenze”, quelle per lo meno della maggioranza della società, sono ormai improntate alla paura, alla diffidenza, alla competizione e talvolta pure all’odio. Tutte cose capaci di minare, dalle fondamenta, una società. Su questo piano, tuttavia, l’establishment pensa che non si possa fare nulla, poiché sa di aver esaurito le cartucce. A meno che….non si voglia proprio costruire un tipo di società atomizzata e non collaborante, una società psicotica.
A questo punto non può non tornare alla mente la questione dell’integrazione temporalmente precedente a quella degli “immigrati”: quella del proletariato. Essendo, quest’ultimo, un elemento di alterità rispetto al modello dominante, anzi il suo prodotto di scarto, doveva venire in qualche modo integrato per essere sterilizzato, e non essere più l’altra faccia della moneta. Era l’unico modo conosciuto per far sopravvivere questa società con i suoi schemi riproduttivi. Ed in effetti l’establishment c’è riuscito, con la collaborazione attiva della maggioranza dei rappresentanti del proletariato, cioè delle classi subalterne. Infatti, chi pensava (pochi) ci fosse un’ altra forma di vita rispetto a questa è stato sconfitto. Forse irrimediabilmente. L’integrazione degli immigrati, quindi, è la nuova frontiera dell’integrazione di classe, visto che si parla sempre di integrazione sociale ovvero di corpi sociali viventi, per la sopravvivenza di questa società, piaccia o no.
La moderna sociologia dell’integrazione sociale inizia con Durkheim e Simmel che negano la naturalezza dell’ordine sociale rifacendosi alle filosofie di Hobbes e Locke. Parliamo – quindi – dell’osservazione delle trasformazioni sociali indotte dall’industrializzazione in Europa.
Un’ipotesi generale presente in molti autori (Durkheim, Parsons) fonda l’integrazione sociale sulla diffusione di disposizioni comuni derivanti da modelli di valore interiorizzati con l’educazione. Secondo Pareto, tuttavia, le disposizioni comuni derivano da una tendenza innata al conformismo.
In una società capitalistica moderna, ci dicono gli studiosi (Tonnies e Durkheim), l’integrazione deve essere fondata sul consenso razionale e libero dei membri, legati da rapporti contrattuali, dalla reciproca interdipendenza stabilita dalla divisione del lavoro. Ultimamente, studiosi come Homans, Blau, Lévy-Strauss vedono l’integrazione come scambio di beni economici e culturali d’ogni tipo tra individui, teorie implementate da Pizzorno che si riferisce direttamente a sindacati, governi ed imprese.
Una cosa complessa, dunque, con la quale non si fa abitualmente i conti, essendo i subalterni del posto o immigrati, tenuti ben distanti dal significato preciso e profondo della posta in gioco.
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