Vincent Van Gogh sembra fatto apposta per un film biografico holliwoodiano in agrodolce. I colori abbaglianti e le pennellate briose dei suoi girasoli, campi di grano e alberi di cipresso, sono tra i lavori più familiari ed amati nella storia dell’arte, in grado di ammaliare per i continui primati raggiunti nelle aste. L’inevitabile film biografico fu chiamato “Brama di vita”. Ma, come le ultime e cospicue note biografiche stanno a dimostrare, la brama di Van Gogh per il conflitto fu la più forte in assoluto.
Il libro descrive un solitario, irascibile alcolista, un sifilitico a cui piaceva mordere le mani che gli davano da mangiare. Questo, naturalmente, non sminuisce in nessun modo il valore della sua pittura, ma il ritratto di Steven Naifeh e Gregory Smith, due prolifici autori che sembrano amar scrivere sugli artisti ubriaconi (Jackson Pollock fu uno dei primi loro soggetti) , demolisce qualsiasi romanticismo ancora collegato alla vita dell’artista.
Il libro é composto, come in un dipinto puntillista, da migliaia di dettagli concreti. Nulla viene sacrificato per accorciarne la lunghezza; la sola concessione è costituita dalla rimozione delle note a piè di pagina dal testo. (Ce ne sono a sufficienza per riempire 5000 pagine e si possono trovare tutte sul sito del libro). Ma la storia ha un abbrivio che giustifica il tempo che ci vuole per raccontarla e gli autori concludono formulando una plausibile ipotesi sulla morte accidentale di Van Gogh piuttosto che sul suo suicidio. Nessuna arma fu ritrovata; il proiettile fatale entrò nel corpo dall’angolazione sbagliata e sembrava esser stato sparato da troppo lontano per risultare auto-inflitto. Un forte indizio circostanziale suggerisce che Van Gogh fosse rimasto vittima di bullismo studentesco.
Il primo impiego di Van Gogh con un mercante d’arte lo portò a The Hague, poi a Parigi e a Londra, ma la sua passione adolescenziale era quella di farsi ascoltare come predicatore. Il suo primo sermone fu recitato, in un inglese pesantemente accentato, sul fiume Tamigi a Petersham, ma le congregazioni si guardarono bene dal rispondergli. Solo quando ebbe accettato di non diventare ministro di culto, come lo fu invece suo padre, si indirizzò all’arte. Dal momento che non guadagnava denaro Van Gogh semplicemente suppose di aver titolo ad una parte del salario del fratello Theo, chiedendogli 150 franchi al mese mentre il salario medio di un insegnante francese dell’epoca era di 75 franchi mensili.
Van Gogh si concentrò prima su scuri disegni a carboncino aventi per soggetto i contadini olandesi. “Quando dipingo vedo chiaro”, disse. Theo vedeva chiaramente che non vendevano e suggerì al loro posto dei paesaggi colorati. Van Gogh alla fine si convertì all’idea del colore a causa di Rembrandt e iniziò a dipingere luminosi girasoli color arancio e marrone a Parigi nel 1886, sperando essi avessero impressionato qualche modella italiana particolarmente voluttuosa. Tuttavia, la sua conversione al colore non fu completa fino a quando non si trasferì al sud, ad Arles, nel 1888.
Quando egli persuase Paul Gaugin a seguirlo ad Arles, Van Gogh credeva che si sarebbero ispirati l’un l’altro. Fu una tragica delusione. Gaugin, tra i due la personalità più forte, voleva dipingere nello studio, Van Gogh, invece, all’aperto. Van Gogh era veloce, Gaugin fiacco. Gaugin lavorava sull’immaginazione e la memoria, Van Gogh si arrendeva alla forza della natura. Gli Arlesiani adoravano Gaugin ed ignoravano Van Gogh. I due pittori litigarono aspramente. Quando Gaugin annunciò di partire alla volta di Parigi il 23 dicembre 1889, Van Gogh reagì mozzandosi l’orecchio sinistro, tagliandosi anche la mascella. Confinato in manicomio in quanto psicotico, non smise mai di dipingere, ma morì per una ferita di arma da fuoco appena 18 mesi più tardi, non molto dopo aver venduto il suo primo dipinto. Aveva 37 anni. Passarono decine di anni prima che venisse ampiamente apprezzato come un genio. Più tempo ancora ci é voluto per comprendere pienamente che la sua vita fu un disastro.
[The Economist, 5 Novembre 2011]
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