Quale è l’atteggiamento generale del cittadino siciliano verso ciò che lo circonda? È un atteggiamento doppio, duplice e ambivalente. Doppio perché giocato sia sul piano dell’arcaismo che della modernità. Duplice perché vissuto sul crinale tra sacro e profano. Ambivalente perché espresso sia nello spazio pubblico che in quello privato.
Ora, in tutte le categorie da me declinate, vi è un fenomeno visibile ed emergente in ogni situazione della vita quotidiana del siciliano urbanizzato, ed in particolare del palermitano, cittadino apparentemente socievole. Questo fenomeno si chiama cratofania. Una capacità e possibilità intrinsiche che si è spostata dalla realtà precapitalistica delle campagne ai centri urbani mai veramente proletari, ma fondati sulla coesistenza – quasi castale – tra borghesia e sottoproletariato. È questo capitalismo mai vincente ed anzi sconfitto da quello settentrionale, che ha permesso la costruzione di un quadro della sottocultura e del magico declinati in chiave capitalistica senza un vero sviluppo capitalistico e veramente oggi, in un quadro di declino, autentica cifra della contemporaneità globalizzata. In prospettiva, i confini socioculturali di questa cratofania in quanto cifra della contemporaneità globalizzata, sono previsti in un ampliamento al di là di ogni più rosea previsione. Palermo sembra configurarsi come l’avamposto dell’Occidente del futuro. Destrutturato, a-capitalista, senza connessioni tra lavoro e ricchezza.
È la composizione di classe dell’isola, passata da una forte componente contadina durante le lotte per la terra e l’acqua, fino al riconoscimento di un degno salario, all’inurbamento conseguente il modificarsi dei rapporti di proprietà e di potere politico che ha riempito Palermo di masse dal presente e futuro stabilmente precari. Masse parcheggiate, emarginate, pertanto sottoproletarizzate. Il senso vero di quella cratofania di cui scrivevo sopra lo si può percepire, con chiarezza, quando si visitano le case della maggior parte dei siciliani. In questo senso vi è peraltro un certo interclassismo, nutrito della visione miracolistica degli ex-contadini inurbati, incastonata perfettamente con la nuova religione dei consumi. E allora declinando le coppie oppositive di cui sopra, si può ben affermare come il barocchismo pomposo e talvolta kitsch presente nei luoghi privati dei palermitani, siano il necessario contrasto alla sprezzante trascuratezza dei luoghi pubblici, soprattutto – ma non solo – periferici. Entrare nell’abitazione di un palermitano, anche di quello meno abbiente, è un’epifania dello splendore da condividere essenzialmente con il circolo ristretto dei familiari, più raramente di amici e conoscenti. Si, perché in realtà, più che di una società disgregata (vedi Diego Novelli, ndr.) in Sicilia (come, in diversa misura nel resto d’Italia) possiamo parlare di una società che non ha alcun senso comunitario e nella quale il plebeismo distruttivo, ancora oggi è un sintomo di malessere, ma anche una forma di espressione di un’intera comunità. (vedi Umberto Santino, ndr.).
Una continua sfida alla città e allo Stato, ma anche all’altro da sé non direttamente identificabile come proprio pari. Questo modus operandi si fonde alla perfezione con l’attuale società dei consumi che richiede, antropologicamente, dei soggetti umani orientati alla dissipazione, all’individualismo, al disprezzo per la cultura intesa sia come istruzione che come insieme di valori condivisi. Questo fenomeno è particolarmente appariscente in tutto l’Occidente. Laddove, tuttavia, le asperità dello stesso vi appaiono smussate, ciò è dovuto alle precedenti omologazioni culturali (e religiose, come ad esempio la Riforma Protestante) vissute da quei paesi al contrario dell’Italia.
E allora si ritorna al discorso di cui sopra: valorizzazione irrazionale di oggetti attraverso i quali fondare il proprio valore, superficiale e apparente, declinata infinitamente nel possesso di oggetti di largo consumo e di desiderabilità ampiamente condivisa. Parliamo, perciò, della costruzione e perpetuazione di un tipo antropologico a dimensione unica. Tipo antropologico appiattito sull’accettazione del meccanismo della violenza psicologica cari al sistema del capitalismo-consumismo nei quali edonismo, paura, persuasione, sono ormai un condizionamento in cui cadono soprattutto coloro che sono più deboli culturalmente.
Questa “cratofania strutturale” tuttavia, non si esplicita solo negli arredi pomposi e ridondanti delle abitazioni, ma si articola pure nell’abbigliamento e nel cibo. La volontà di apparire e la ferrea necessità edonistica insinuata dal capitalismo-consumismo, armano il gusto di tutti gli italiani, certamente, ma forse di più ancora il gusto dei palermitani. Il cibo, infine veicolo di convivialità, è strumento di un epifania del gusto e del benessere, da ostentare al pari di altri strumenti. La società palermitana vive di una doppia forma di economia: quella legale e quella illegale. Anche qui, dobbiamo dire che, a livelli diversi, il fenomeno è ormai nazionale. Quella legale significa soprattutto Stato, quindi impieghi pubblici a vari livelli. Quella illegale, ovviamente, concerne l’indotto mafioso. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza di attività commerciali in un contesto nazionale di obiettivo declino. Capiamoci, la riduzione del giro di affari c’è anche a Palermo, ma le proporzioni non collimano con le statistiche ufficiali.
La questione principale per i marxisti è quello di capire in quale direzione deve muoversi una politica che si indirizzi al proletariato in quell’area specifica paradgmatica e solo in parte delimitata. Infatti, vista la crisi dirompente e generale del capitalismo mondiale e visto l’ampliamento prospettico delle aree de-industrializzate nel tempo a venire, non possiamo certamente pensare che non vi saranno effetti tangibili come l’inoccupazione di massa e la conseguente ri-dislocazione di popolazione in cerca di un futuro migliore per sé e le proprie famiglie. L’esperienza dei comunisti palermitani, allora, andrebbe recuperata, aggiornata e riveduta, soprattutto rispetto agli errori commessi e ai limiti mai veramente superati. Certo il capitalismo siciliano e palermitano in particolare, sconfitto da quello del nord nella corsa alla modernizzazione (sviluppo) e praticamente abortito, ha visto la mancanza dell’altro polo sociale, ovvero del proletariato. La presenza di questa classe avrebbe fatto si che le grandi masse sottoproletarie sarebbero potute venir attratte da una classe operaia combattiva ed enunciante il proprio programma di emancipazione. Purtroppo il sottoproletariato è stato egemonizzato economicamente e culturalmente dalla classe borghese che lo ha trasformato in massa di manovra reazionaria ed antioperaia. Decretandone, al tempo stesso, la marginalità perpetua. Qui, allora, vale la pena ribadire che, per uscire dallo stallo provocato, da una parte dalla fine dell’esperienza real-socialista e dall’altra dalla spinta globalizzatrice, i marxisti devono indirizzare i loro sforzi politici proprio verso quella massa di disoccupati, precari ed emarginati e respinti dal processo lavorativo, che sono il fulcro di una vera politica del 21° secolo nell’Occidente in declino. L’obiettivo è quello della razionalizzazione della produzione capitalistica: la razionalizzazione delle necessità produttive e dell’impiego della forza lavoro. La produzione di beni necessari contro quella di beni superflui. Sono questioni che toccano direttamente il profitto nella sua logica privatistica, antisociale ed escludente. Una linea politica, quindi, capace di toccare la logica strutturale del capitalismo. Ma per gli avversari di questa linea politica è evidente l’obiezione che il capitalismo non lo si può cambiare a parole e che esso è incommensurabilmente più forte. I marxisti allora dovrebbero rispondere dicendo che non hanno come obiettivo, quello di riformare il capitalismo, ma quello di portarci verso una società giusta ed eguale, la società socialista. E spiegare al proletariato che uno scontro con le forze che non vogliono il cambiamento potrebbe essere inevitabile, poiché queste ultime, figlie del proprio privilegio, non intendono perderlo assolutamente.
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