di Sergio Mauri
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/03/09/quelle-armi-di-gheddafi-alla-padania/96214/
Quando uno dice le coincidenze… Ieri sera, felice e infreddolita, dopo aver attraversato le piazze della città piene di donne arrabbiate ma piene di voglia di libertà, sono tornata a casa, mi sono messa al lavoro che da qualche tempo mi impegna: capire cosa è accaduto nel nostro paese e se davvero qualcuno alla vigilia delle stragi del 1992-93 volesse balcanizzare l’Italia, cioè spacchettare il nostro paese in tanti piccoli Stati, facendoci tornare al tempo dei Borboni e dei Granducati. E guarda… anche Gheddafi era interessato per qualche sua misteriosa ragione a questo progetto, tanto che “dinari” libici avevano finanziato leghe e movimenti secessionisti. Perfino la procura di Torre Annunziata aveva indagato sulla vicenda, insomma esisteva un misterioso filo che legava Tripoli, Villa Wanda e la Padania.
Non nego di aver cliccato qua e là con un certo scetticismo, benché molti documenti fossero circostanziati. Alla fine, insonnolita, me ne sono andata a letto. Stamattina mi sveglio e cosa scopro? Il Rais in persona, assediato nel bunker di Tripoli, torna su questa dimenticata storia e in un’intervista a giornalisti francesi (badate francesi) rivela di aver fornito armi alla Padania di Bossi, il quale molto risentito invece di negare di essere a capo di un movimento armato fa sapere che la Lombardia tritolo e fucili li produce da sé. L’Udc si scandalizza, il Pd fa un’interrogazione parlamentare.
Se può essere utile al dibattito cerco di sintetizzare, nei limiti del possibile, quanto è emerso dalla mia notte insonne. Cominciamo da una minacciosa frase di Gelli, rilasciata in un’intervista all’Europeo il 10 settembre 1992. Falcone e Borsellino sono già morti: “E’ da un pezzo che ci sarebbero tutte le condizioni per un colpo di Stato onde eliminare la teppaglia che ci sta rapinando… In realtà sa chi rappresenta l’unica speranza in questo paese alla deriva? Bossi”.
Più o meno nello stesso periodo, il prestigioso quotidiano britannico The Economist pubblica uno strano articolo, “Redrawing the map”, corredato da una cartina geografica che prefigura sconvolgimenti in Europa per mutare l’assetto degli Stati. “Chi non si trova bene col proprio vicino di casa può sempre traslocare in un altro quartiere, cosa che le nazioni non sono in grado di fare. Ma supponiamo che invece possano farlo. Riassettare la carta geografica europea renderebbe l’esistenza più logica e amichevole“, scrive l’Economist che quasi per gioco sposta i confini dei vari paesi accorpandoli per affinità etniche, c’è chi viene accorpato, chi scivola verso il basso, chi sale verso l’alto.
L’Italia appare smembrata, il meridione separato dal resto d’Europa, circondato dal mare Mediterraneo, spicca la parola “Bordello”, sinonimo di “casino” che in inglese equivale a racket. Cioè mafia. Sembra che la mappa pubblicata dall’Economist avesse uno sponsor d’eccezione, ovvero il principe Filippo di Edimburgo, cui l’unità europea non piaceva proprio e pertanto avesse commissionato nel 1989 all’industriale olandese Alfred Heineken uno “studio” sulla scomposizione degli Stati nazionali europei. Heineken lo portò a termine suddividendo l’Europa in 75 ministati. L’industriale olandese era legato al nazionalista russo Vladimir Zhirinovskij, e qui veniamo al punto, molto amico del colonnello Gheddafi. Intanto la procura di Torre Annunziata scopre contatti tra il movimento di Bossi con i nazionalisti sloveni, legati a quelli russi e finanziati dai “dinari” libici. E anche che Zhirinovskij aveva avviato un giro d’affari con il leader nazionalista sloveno Nicholas Oman.
E qui il cerchio si chiude, perché secondo la Digos di Arezzo, Oman era un assiduo frequentatore di Villa Wanda, la residenza ufficiale di Licio Gelli.
Poteva Gelli, l’uomo della loggia atlantica, ma anche grande tessitore di traffici con la Libia (fin dallo scandalo dei Petroli) rimanere insensibile a tutte queste spinte secessioniste? No, infatti diede vita alla lega Meridionale che finì per divenire il punto di contatto tra vari partiti del Sud Italia che all’inizio degli anni Novanta muovevano i primi passi in Sicilia e in altre Regioni del Sud. Un’indagine della Procura di Palermo, allora guidata da Giancarlo Caselli, rivelò che dietro questi movimenti politici vi erano in realtà mafia e ‘ndrangheta, P2 e neofascismo: “La Lega delle Leghe del gruppo gelliano non si presentava come movimento antagonista alla Lega di Bossi ma ne condivideva il programma e l’ideologia, presentandosi come l’attore politico in grado di pilotare al Sud il programma di divisione dell’Italia in macroregioni”.
Il progetto finale era un’Italia federata, attratta al Sud dai paesi del Nord Africa. Ovvero la Libia, e questo spiegherebbe l’interesse di Gheddafi. Insomma il Rais sta vendendo cara la pelle, con questa intervista manda a dire: “Se voglio ne ho da raccontare”.
Rivolta in Siria, un’azienda italiana al lavoro per Bashar Assad sorveglia le mail in tutto il Paese
di Dario Aquaro Cronologia articolo04 novembre 2011
Alla repressione delle rivolte in Siria starebbe dando il suo contribuito anche un’azienda italiana con sede nel varesino, la Area spa, attiva dal 1996 e specializzata nel settore della sorveglianza. Secondo quanto riferisce Bloomberg, squadre di tecnici della società sono giunte quest’anno a Damasco, in piena escalation delle violenze (più di tremila vittime finora). E sotto la guida dei servizi di intelligence siriani sono impegnate a installare un sofisticato sistema per intercettare, leggere e catalogare ogni email o altra comunicazione in entrata o in uscita dal Paese. Ben più intrusivo, dunque, del semplice dispositivo per bloccare i siti web.
Il sistema, nome in codice “Asfador”, attualmente in fase di test, consentirà di monitorare in tempo reale ogni comunicazione, disegnando grafici che mostrino la mappa dei network virtuali di ogni cittadino. Asfador sarebbe l’uomo che, secondo le fonti interpellate da Bloomberg, avrebbe contattato Area nel 2008, proponendo l’accordo (del valore di oltre 13 milioni di euro) con la compagnia statale (e principale operatore) Syrian Telecommunication Establishment. Senza l’ausilio della società italiana, la Syrian Telecom avrebbe infatti potuto controllare solo una parte delle comunicazioni del Paese, e non tutto il traffico internet. Area ha chiuso l’affare nel 2009. E lo scorso febbraio una prima nave carica di computer e altre tecnologie ha attraccato nel porto di Latakia.
Andrea Formenti, amministratore delegato di Area, ha spiegato di non poter discutere nello specifico di clienti o contratti, ma assicura che la società è in regola con tutte le leggi e le regole sulle esportazioni. «Il sistema di intercettazioni prevede tempi molto lunghi, mentre le cose possono cambiare molto velocemente» ha detto, citando la sorte di Gheddafi («fino a poco fa grande amico del nostro premier»). Come dire, forse: i contratti con Bashar Assad sono stati firmati tempo fa, prima delle rivolte siriane. Formenti non ha però voluto rispondere ad alcune domande che ilsole24ore.com ha provato a porgli. Dall’azienda è arrivato un preventivo: «Non abbiamo alcuna dichiarazione da rilasciare».
Restano così insoluti alcuni (tanti) interrogativi su un affare che desta l’attenzione di tutti, e non solo delle associazioni per i diritti umani. Per il progetto, Area sta usando attrezzature di compagnie europee ed americane: hardware e software per archiviare le email arrivano da NetApp, con sede in California; le attrezzature per “leggere” i network da Qosmos (sede in Francia), e quelle per connettere le linee telefoniche ai computer del centro di monitoraggio (“Captor”) sono fornite da Utimaco (sede in Germania). Queste aziende non hanno equipaggiato direttamente il regime di Assad, ma la società italiana. Da maggio scorso, l’Unione europea ha imposto una serie di sanzioni contro la Siria, incluso il divieto di vendita di armi. Ma le misure non impediscono alle società di cedere quel tipo di dispostivi che rientrano nel progetto di Area.
Qualcuna di loro, però, già prende le distanze. L’amministratore delegato di Qosmos, Thibaut Bechetoille, ha dichiarato di voler ritirarsi dal progetto: «Non è giusto dare supporto a questo regime». Bechetoille afferma che quattro settimane fa il board ha deciso per l’uscita, ma sta ancora cercando di capire come svincolarsi dall’impegno. Ritirarsi – dicono – è complicato, tecnicamente e contrattualmente. Il general manager di Utimaco, Malte Pollmann, ha piena fiducia in Area e si dice convinto che le tecnologie sono usate ed esportate legalmente. Utimaco raramente sa dove i propri partner installano le attrezzature, afferma Pollmann: «Non ho bisogno di saperlo, perché non è obbligo del partner comunicarcelo».
Gli Stati Uniti, da parte loro, già dal 2004, hanno vietato diversi tipi di esportazione in Siria: il governo potrebbe ora esser chiamato a decidere se l’hardware fornito da NetApp violi o meno le disposizioni. Dalla società americana si difendono. «Non sappiamo se qualcuno dei nostri prodotti sia stato venduto in o alla Siria» dice Jodi Baumann, direttore delle comunicazioni. NetApp, afferma la fonte di Bloomberg, non avrebbe potuto avere rapporti direttamente con Area: la filiale ha ceduto le attrezzature attraverso un intermediario in Italia, che poi le ha rivendute ad Area. Ci sono però alcune email scambiate il 30 marzo, a due settimane dall’inizio dei tumulti, tra la filiale italiana di NetApp e Area, in cui la società americana spiega come configurare i dispositivi appena ceduti. Quel giorno Assad, in un discorso al parlamento siriano, accusa i protestanti di ordire un complotto. «Se ci sarà imposto di scendere in battaglia, la battaglia sarà la benvenuta», le sue parole.
‘Torture nel carcere italiano’
di Gianluca Di Feo
Un rapporto dell’Onu accusa: in Afghanistan, nella prigione costruita e finanziata dal governo di Roma, e dove finiscono i presunti talebani catturati dal nostro contingente, ci sono «prove schiaccianti» di trattamenti inumani
(10 ottobre 2011)
Torture sistematiche sui detenuti del penitenziario afghano di Herat: quello finanziato dagli italiani, quello dove finiscono i presunti talebani o criminali catturati dalle nostre truppe.
L’accusa viene da un monumentale dossier delle Nazioni Unite appena pubblicato, che esamina la situazione dei reclusi in tutto l’Afghanistan. Un documento che dovrebbe far riflettere sui compromessi accettati dal nostro governo nella missione che dovrebbe portare ‘la civiltà’ alle popolazioni afghane.
L’inchiesta dell’Onu si concentra sulle persone custodite dai servizi di sicurezza di Kabul, chiamati National directorate of security o in sigla Nds. I quattro reclusi catturati dalla polizia nazionale, Anp, infatti non hanno nulla da denunciare. Invece dei dodici uomini affidati agli agenti speciali, ben nove parlano di maltrattamenti che arrivano fino alla tortura: tra loro c’è anche un ragazzo di sedici anni.
La delegazione dell’Unama – l’organismo Onu che vigila sulla rinascita dell’Afghanistan – scrive che ci sono «prove schiaccianti che gli agenti del Nds sistematicamente torturano i detenuti per ottenere informazioni e, possibilmente, confessioni».
Cosa c’entra l’Italia? Il carcere in questione è stato ristrutturato e potenziato con i nostri soldi. Donazioni del ministero della Difesa sono state usate per costruire una centrale di videosorveglianza e ripulire i locali: il comandante regionale delle carceri è fotografato accanto al generale italiano mentre inaugura le nuove strutture regalate dal nostro paese nel 2010. Ma soprattutto molti di quei detenuti sono stati catturati dalle nostre truppe e poi consegnati alle autorità afghane.
Le testimonianze raccolte dall’Onu sono agghiaccianti. Sembrano uscite dai verbali di Abu Ghraib, la prigione irachena dove gli americani torturavano i reclusi. A Herat durante la notte un agente del Nds preleva il detenuto dalla cella, gli lega le mani dietro la schiena e benda gli occhi, poi lo porta in un’altra stanza nell’edificio dell’intelligence afghana. Lì comincia l’interrogatorio e, a un certo punto, arriva la minaccia: se non ci dai le informazioni ti picchiamo. Allora lo sbattono con la faccia sul pavimento e cominciano a colpirlo sulla pianta dei piedi, con un cavo elettrico. Poi con i piedi sanguinanti lo costringono a camminare sul pietrisco o sul cemento grezzo.
Nel rapporto sono inclusi i resoconti dei detenuti picchiati. «Io avevo gli occhi bendati e i polsi legati, stavo seduto su un tappeto. Loro urlavano: “Parlaci del capo dell’attacco. Io continuavo a rispondergli che non c’entravo, a ripetere il mio alibi. Sembrava che loro sapessero che io non ero coinvolto nell’attacco ma volevano informazioni da me e non mi credevano. Mi dicevano: “Se non ci dici la verità, ti picchiamo”. Allora mi hanno gettato con la faccia sul pavimento, legando le miei ginocchia e sollevandole in modo che i piedi fossero sospesi in aria. Quindi mi hanno colpito due volte sulla schiena con una specie di tubo, poi sono passati a colpire i miei piedi. Non cosa usassero, ma era molto doloroso: penso fosse un cavo elettrico, perché sulla pelle mi sono rimasti tanti buchi lasciati dai fili che spuntavano dalle estremità. Mi facevano domande, poi picchiavano e ricominciavano a chiedere. Io urlavo per il dolore. Allora mi hanno fatto alzare e camminare fino al cortile e mi hanno lasciato in piedi sul cemento grezzo per cinque minuti».
Secondo l’Onu, i pestaggi erano pianificati: un metodo sperimentato già in Iraq per indebolire la volontà e “ammorbidire” i reclusi per ottenere notizie nei successivi interrogativi. Gli ispettori ritengono che fossero “botte preventive”, non scaturite da una specifica negazione. I detenuti credono che le domande non fossero finalizzate a ottenere risposte, quando a insultarli: “abusi verbali”. In genere, i prigionieri venivano picchiati nei primi interrogatori e alla fine molti “crollavano” in altre deposizioni senza bisogno di maltrattamenti.
Quanti di questi erano stati catturati dagli italiani? La sorte delle persone arrestate dai nostri militari finora non è mai stata chiarita al parlamento. Quante sono state dall’inizio della missione? Che fine hanno fatto? Formalmente, ogni nostro reparto consegna immediatamente i presunti talebani o i sospetti criminali nelle mani dei soldati afghani o della polizia nazionale Anp che accompagna sempre le unità tricolori. Ufficialmente quindi non abbiamo mai fatto prigionieri, nonostante esistano immagini di miliziani ammanettati dalla Folgore nel 2009 o rapporti ufficiali di operazioni concluse con la cattura di numerosi sospetti. I penitenziari di Herat – la capitale del distretto a guida italiana – sono sempre stati affidati a una sorta di supervisione delle nostre truppe. L’Italia in particolare ha curato la creazione di una struttura modello per le donne recluse, in modo da facilitarne l’inserimento nel lavoro. Ben diversa la situazione del carcere maschile, dove una Ong canadese ha contato più di 1800 detenuti tra cui molti bambini. In gran parte, accusati di piccoli reati. Mentre per i sospetti di collusioni con la guerriglia – stando al dossier Onu – ci sono le torture.
Adesso le Nazioni Unite hanno chiesto al governo afghano di rimuovere e punire i responsabili degli abusi. E questo dovrebbe diventare un impegno anche della nostra missione, per spazzare via ogni sospetto di interesse verso le informazioni che l’intelligence afghana si procacciava a suon di bastonate.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-b-regala-a-panama-la-nostra-flotta/2161651
E B. regala a Panama la nostra flotta
di Gianluca Di Feo
La Guardia costiera italiana rinuncia a sei delle sue navi, impegnate finora a fronteggiare l’immigrazione a Lampedusa, e le manda a Panama. È questo l’omaggio concesso da Berlusconi e Lavitola: un dono da 35 milioni pagato dai contribuenti. E usato come optional del contratto di Finmeccanica per il quale il faccendiere è stato lautemente ricompensato.
(21 settembre 2011)
Eccolo il regalo di Valter Lavitola al governo panamense, pagato dai contribuenti italiani: un’intera flotta. Che viene sottratta alla Capitaneria di porto e girata ai marinai della Repubblica centroamericana. Sì, la nostra Guardia costiera rinuncia a sei navi, preziose soprattutto per affrontare l’emergenza immigrazione, che stanno salpando verso l’Atlantico. Un bellissimo omaggio per il quale il presidente panamense Ricardo Martinelli ha pubblicamente ringraziato il suo amico Lavitola, che oggi si gode la latitanza proprio da quelle parti: «E’ stato molto utile per ottenere la donazione da parte dell’Italia».
La lista dei doni di Valterino e Papi comprende due pattugliatori d’altura e quattro motovedette. Difficile calcolare il valore del cadeaux: una stima potrebbe essere di 30/35 milioni. I due pattugliatori oggi vengono venduti nuovi a un prezzo compreso tra i 17 e i 20 milioni di euro ma anche sul mercato dell’usato hanno quotazioni di rilievo, non inferiori ai dieci milioni. I mezzi classe Diciotti sono vere navi, lunghe 52 metri, con motori Isotta Fraschini corrono fino a 32 nodi l’ora e dispongono di un sistema di avvistamento radar. L’armamento è limitato a una mitragliera ma può essere aumentato: quelli comprati dall’Iraq montano cannoni Oto Melara. Sono tra i migliori prodotti di Fincantieri: la Capitaneria li ha schierati nel 2002 e li impiega senza sosta soprattutto nel Canale di Sicilia per intercettare e soccorrere i barconi dei disperati in fuga dal Maghreb. In tutto ne aveva sei, inclusa un’unità più vecchia: adesso ne resteranno solo quattro.
Le motovedette invece vengono dai cantieri Intermarine di Sarzana. Lunghe 25 metri, sono state progettate per navigare in ogni condizione meteo e hanno dimostrato le loro capacità nautiche negli interventi a Lampedusa, dove riescono ad affiancare i gommoni dei migranti senza capovolgerli e farli naufragare. La Capitaneria ne ha comprate 28, ma quattro ora isseranno bandiera panamense.
La flotta in omaggio è una sorta di optional gratuito inserito nel contratto firmato da Finmeccanica a Panama, che prevede forniture per 160 milioni. Un accordo voluto dal premier Silvio Berlusconi e dal presidente Martinelli. Il colosso pubblico ha piazzato una rete di sorveglianza elettronica delle coste panamensi, che verrà realizzata dalla Selex, e una squadriglia di elicotteri Agusta, più la mappatura satellitare del paese a cura di Telespazio. E su questo contratto – stando alle intercettazioni della procura di Napoli – Valterino Lavitola è stato riccamente ricompensato per la sua opera di mediatore. Quanto? Non è stato reso noto, ma nel settore le provvigioni oscillano tra l’1 e il 5 per cento: ossi tra 1,6 milioni e 8 milioni di euro. In pratica, ci guadagnano Finmeccanica e Valterino mentre i cittadini italiani subiscono un doppio danno. Si accollano la spesa per la flotta cadeaux e rinunciano a una parte significativa della nostra Guardia Costiera, proprio nel momento in cui la situazione nell’Africa settentrionale sembra indicare la partenza di una nuova ondata di immigrati diretti verso la Sicilia.
Ci siamo lamentati in tutte le sedi europee, invocando il sostegno delle altre marine, e poi noi regaliamo i mezzi migliori per affrontare i barconi dei migranti? Un paradosso, pagato a caro prezzo.
L’accordo panamense venne firmato dai due capi di governo e da Pierfrancesco Guarguaglini nel giugno 2010. In cambio dello shopping di prodotti Finmeccanica l’Italia si è impegnata a sostenere le istituzioni nella lotta al narcotraffico nel Golfo del Messico fornendo una guardia costiera “chiavi in mano”. Ma il trattato è diventato operativo solo a inizio agosto di quest’anno, grazie a un cavillo inserito nel decreto per il finanziamento delle missioni militari all’estero. Tra i fondi per i soldati in Afghanistan e per la missione aerea sulla Libia, si è infilata anche la flotta di Valterino: solo poche righe per annunciare la cessione delle sei navi. Nessuno ha comunicato se e quando verranno sostituite. Anche perché solo due settimane dopo la ratifica del mini-patto atlantico persino Silvio Berlusconi ha dovuto prendere atto della crisi e varare una manovra che falcia la spesa pubblica.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/panama-chi-e-lamico-di-silvio/2163323
Panama, chi è l’amico di Silvio
di Stefania Maurizi
Un imprenditore-caudillo che spia i suoi cittadini per fabbricare dossier di fango. E che si è messo felicemente al servizio del duo Lavitola-Berlusconi. I cablo di WikiLeaks rivelano la verità su Ricardo Martinelli
(11 ottobre 2011)
Da sinistra: Valter Lavitola,
Ricardo Martinelli e Silvio BerlusconiRicardo Martinelli? “La sua inclinazione alla prepotenza e al ricatto possono averlo portato a diventare una star dei supermercati, ma difficilmente è qualcosa di simile a un uomo di Stato”. Il capo del governo di Panama ha un’ossessione in comune con il suo collega e amico italiano, Silvio Berlusconi: le intercettazioni. Martinelli però ne vorrebbe sempre di più, concentrate sui suoi avversari politici: gli esponenti di sinistra su cui ogni mattina pretende un rapporto dall’intelligence. E contro i quali fa arrivare dossier ai giornali. Una fabbrica del fango in versione centroamericana, che aiuta a capire perché in quel paese Valter Lavitola, latitante accusato di estorsione, sia sempre stato di casa. Lì dove Silvio, Valterino e Ricardo hanno siglato la maxicommessa Finmeccanica, con una flotta in dono. E dove altre aziende italiane stanno gestendo opere colossali. Il tutto sotto l’occhio interessato dell’ambasciata americana, che considera strategica la nazione chiave per il passaggio tra i due Oceani.
Sono proprio una serie di cablo segreti della diplomazia statunitense – ottenuti da WikiLeaks e in possesso de “l’Espresso” – a disegnare un ritratto sorprendente dell’uomo forte della politica panamense: un leader vendicativo, paranoico, che “manca di dedizione alle regole della legge”. Un presidente pronto a piegare la giustizia ai suoi fini e a usare la stampa per distruggere gli avversari. E che arriva a minacciare persino le autorità di Washington pur di ottenere un sistema di intercettazioni contro gli oppositori. Ma l’America di Obama non è disposta a piegare la sua rete di ascolto, nata per combattere il narcotraffico, ai capricci dell’aspirante caudillo. Gli Usa sono convinti che Martinelli si sia rivolto ad altri per ottenere la sua ragnatela di spionaggio elettronico in stile Stasi, “contattando altri governi e il settore privato”. Chissà se gli strani cellulari panamensi che Lavitola aveva consegnato anche al Cavaliere hanno qualche legame con questo Grande Fratello delle Antille.
Tutto comincia nel 2009, quando il re dei supermercati Martinelli arriva al potere. Origini italiane; studi negli Usa incluso un periodo in un college militare, con il suo schieramento di centrodestra sconfigge le sinistre. A Washington però la vittoria non trasmette serenità. Barbara Stephenson, l’ambasciatrice inviata da Obama a Panama (e da poco promossa a numero due della sede di Londra), trasmette dispacci allarmati. Appena arrivato alla presidenza, Martinelli manda alla Stephenson una richiesta imbarazzante, nei contenuti e nella forma.
Le spedisce un sms: “Ho bisogno del suo aiuto per intercettare i telefoni”. Nella Repubblica del Canale gli Usa hanno creato un programma di ascolti contro il narcotraffico. Si chiama “Matador” ed è gestito dall’agenzia antidroga Dea in collaborazione con la polizia e i servizi panamensi: tutto sotto controllo dell’autorità giudiziaria locale, che deve autorizzare le registrazioni. Ma Martinelli vuole altro. Punta ad ampliare lo spionaggio telefonico senza “fare alcuna distinzione tra legittimi obiettivi di sicurezza e nemici politici”, scrive la Stephenson. E mescola tutto: vendette politiche, affari di Stato e faccende privatissime, come usare le microspie per “scoprire con chi va a letto la moglie”.
Non si limita a chiedere: ricatta, minaccia di ridurre la cooperazione nella lotta al narcotraffico, se gli Usa non gli danno quello vuole. Spiega di essersi già incontrato “con i vertici dei quattro operatori di telefonia mobile di Panama e di aver discusso come ottenere i dati delle chiamate”. Il capo della sua intelligence, Olmedo Alfaro, fa sapere che “Martinelli l’aveva incaricato di raccogliere informazioni sugli avversari politici” e che il suo predecessore, Jaime Trujillo, “era stato rimosso, perché non era riuscito a dare al presidente le notizie che voleva” e non c’era riuscito, perché a detta dello stesso Martinelli, “era troppo onesto”. Invece Alfaro non mostra scrupoli pur di impossessarsi della rete elettronica di Matador: sfida i diplomatici statunitensi e persino la Dea. Urla agli emissari dell’agenzia antidroga: “Non me ne frega della Dea, perché la Cia mi darà tutto quello di cui ho bisogno”.
Il caso Telecom
Oak Fund e quel dossier di Minale
Dollar Beare, il misterioso investigatore assoldato da Cipriani, scrisse ai pm: «Mai vi
olato la legge”.
MILANO — «Sono disposto ad aiutarvi a scoprire i metodi (tutti legittimi) e i nominativi delle persone indipendenti (non nostri impiegati) le cui informazioni sono apparentemente sospette», scrive ai pm del caso Telecom l’enigmatico John Maurice Dollar Beare, l’uomo che avrebbe fornito le apparenti informazioni bancarie estere, compreso l’improbabile «documento macchiato» con il nome non di Fassino ma di D’Alema, poi assemblate nel dossier Oak Fund (quello sull’asserita destinazione a politici ds di tangenti legate alla scalata di Colaninno a Telecom) dall’investigatore privato Emanuele Cipriani su mandato del capo della Security di Telecom, Giuliano Tavaroli.
«MI AVVALGO» – Ma la promessa dell’analista di cui neppure è certa l’identità, mezzo inglese e mezzo svizzero (anche per residenza), attivo fiscalmente con una società negli Stati Uniti (la J.Robinson Poa nell’Oregon) ma operativo da Montecarlo, è restata appunto poco più che una promessa di carta: come risulta dagli atti ora in deposito, infatti, Dollar Beare il 25 settembre 2007 ha disertato l’interrogatorio al quale la Procura di Milano lo aveva convocato, è rimasto a casa sua in Svizzera, e al proprio posto ha spedito ai pm una lettera nella quale «prega di prendere nota che sono del tutto estraneo a qualsivoglia condotta delittuosa», assicurato che per le informazioni bancarie che dava abitualmente a Cipriani «sono stati usati diversi metodi» ma «tutti legittimi», e giustificato la sua decisione di avvalersi della facoltà di non rispondere con «le mie attuali precarie condizioni di salute» che «al momento non mi consentono di sottopormi a un interrogatorio».
LA CASSAFORTE DI MINALE – Spulciando gli atti dell’inchiesta milanese, spunta una particolarità: il complesso di dichiarazioni rese dagli indagati Tavaroli-Cipriani-Mancini sulle operazioni New Entry-Fondo-Oak Fund, il 4 giugno 2007 ha dato luogo all’apertura di un fascicolo a modello 45 (il registro “atti non costituenti notizia di reato”) rubricato con il numero 2664/06, che adesso è riunito al fascicolo principale ma che all’epoca fu «depositato presso la cassaforte sita nella stanza del sig. Procuratore» della Repubblica, Manlio Minale. Oggi tutte queste cautele non hanno più motivo dopo l’avviso di conclusione delle indagini per 34 persone (non ancora per Dollar Beare, che per le informazioni fornite a Cipriani in tante occasioni è indagato in uno stralcio per rivelazione/utilizzazione di segreti d’ufficio e per violazione della privacy). Ma all’epoca il fascicolo conteneva appunto gli stralci (quelli omissati sino a lunedì scorso) delle affermazioni fatte da Tavaroli (il 6 ottobre 2006, 2 e 13 aprile 2007, 31 maggio 2007), dall’ex capo del controspionaggio Sismi Marco Mancini il 14 dicembre 2006, e da Cipriani il 28 marzo 2007.
JOHN POA, FORSE – «L’autore del dossier», cioè Cipriani, riassumevano i pm Napoleone-Piacente-Civardi nella nota che accompagnava la messa in cassaforte del fascicolo, «ha espressamente indicato che gli accertamenti all’estero sono stati compiuti da tal John Robinson Poa, indicato genericamente in altri precedenti verbali di Cipriani come persona in grado di compiere sofisticati accertamenti patrimoniali all’estero anche in paradisi fiscali». La rogatoria chiesta il 4 ottobre 2006 dalla Procura di Milano al Regno Unito ha dato in prima battuta l’8 dicembre 2006 «le generalità di John Alan Robinson». Ma «a seguito di ulteriori accertamenti in Svizzera e Italia, finalizzati all’interrogatorio del cittadino straniero, le generalità acquisite potrebbero non corrispondere a quelle reali. Si è in attesa — aggiungevano i tre pm sempre nel giugno 2007 — dell’esito della rogatoria in Svizzera per completare le verifiche sulle modalità di formazione del dossier nella parte relativa ai supposti accertamenti patrimoniali all’estero».
CARTELLE MARRONI – Da allora, Dollar Beare o Poa o come davvero si chiami il fornitore di notizie bancarie estere all’agenzia investigativa Polis d’Istinto di Cipriani, si è ben guardato dal farsi vedere in Procura. Dove dunque sinora restano solo i 107 reperti sequestratigli il 6 e 10 luglio 2007 in un’altra casa che aveva a Campione d’Italia. Cartelline marroni dai nomi suggestivi perché ad esempio intestate a «Provera T.», a «Berlusconi S.», «Di Pietro Italian Financial Scandals», «Prodi Romano»: ma dentro ci sono solo «stralci di articoli di giornali». Nè al momento si può sapere cosa contengano 7 audiocassette o cosa aprano 2 chiavi. lferrarella@corriere.it
Luigi Ferrarella 26 luglio 2008
http://www.infopal.it/leggi.php?id=19563
Migliaia di prigionieri palestinesi in sciopero della fame, ma il Parlamento europeo dedica una mostra a Shalit
Scritto il 2011-10-11 in News
An-Nasira (Nazareth) – InfoPal. Nel momento in cui i prigionieri palestinesi in sciopero della fame sin dal 26 settembre scorso sono entrati nella fase più delicata dell’iniziativa che coinvolge tutte le carceri dell’occupazione israeliana, la sede del Parlamento europeo ospita una mostra sull’unico soldato israeliano nelle mani dei palestinesi: Jilad Shalit.
E’ stata inaugurata ieri a Bruxelles una mostra fotografica su Shalit, caporale israeliano catturato a Gaza dalla resistenza palestinese nel 2006 mentre era impegnato a sparare contro abitazioni civili palestinesi dall’alto di un carro armato.
La raccolta fotografica lo ritrae sin dall’età di 11 anni e il titolo della mostra è: “Quando lo squalo incontra per la prima volta i pesci”.
Nel discorso di apertura della mostra, il presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek, ha detto: “Shalit è un cittadino dell’Unione Europea e sono personalmente interessato alla sua sorte”, invitando Hamas al suo rilascio immediato.
Erano presenti all’inaugurazione della mostra anche quattro membri della Knesset (parlamento israeliano), come il portavoce Reuven Rivlin il quale, nel ringraziare l’Ue, ha affermato: “La questione che investe la persona di Shalit è legata ai principi dell’essere umano e delle sue libertà”.
Per il partito di Kadima invece è intervenuto il deputato Nahman Shai proponendo l’avvio di incontri tra il presidente della Knesset, quelli dei vari Paesi europei e la direzione della Nato per trovare una soluzione al caso di Shalit.
Da due giorni, intanto, due prigionieri palestinesi sono stati trasferiti in ospedale per il peggioramento delle condizioni di salute. Anch’essi sono in sciopero della fame da oltre due settimane.
Crescono anche le preoccupazioni per lo stato di salute di Ahmed Sa’adaat, Segretario generale del Fronte di liberazione della Palestina (Fplp), detenuto in isolamento da più di tre anni.
Ordinanze dei pm milanesi. In carcere anche uomini di polizia, finanza e carabinieri
In manette tra gli altri Giuliano Tavaroli e Emanuele Cipriani. Sequestrati 14 milioni.
Intercettazioni illegali, ventuno arresti nell’indagine su security Telecom Pirelli.
Per l’accusa l’ex responsabile della sicurezza di Telecom e di Tronchetti Provera
“Agiva fuori sistema e non riferiva costantemente a nessuno se non al presidente”.
ROMA – Ventuno arresti e scenari sempre più cupi. Si fanno sempre più preoccupanti i contorni dell’inchiesta milanese sull’affaire che coinvolge il settore security di Telecom, con un fiume di intercettazioni illegali. Una vicenda dai mille risvolti: dallo spionaggio nei confronti di Alessandra Mussolini prima delle elezioni regionali del Lazio a quello collegato al rapimento di Abu Omar. Che vede nel ruolo di spiati giudici, giornalisti, politici e uomini di altri servizi. E che è stata segnata tra l’altro dal suicidio di Adamo Bove, manager Telecom con compiti di alto livello nel settore della sicurezza.
Le manette sono scattate alle prime ore del mattino nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Milano: ci sono diversi ex manager, vari pubblici ufficiali, funzionari dell’agenzia delle entrate e 11 fra agenti e militari in servizio in Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Carabinieri. Decine e decine le perquisizioni in circa venti città, da Milano a Firenze, da Bologna a Prato a Torino, Novara e Como. I pm milanesi hanno firmato ordinanze anche per associazione a delinquere, corruzione, violazione sulla privacy, falso, riciclaggio e appropriazione indebita.
Il braccio destro di Tronchetti-Provera. Secondo il gip Paola Belsito, l’accusato numero uno, Giuliano Tavaroli, ex responsabile della sicurezza di Telecom e di quella personale di Marco Tronchetti Provera, “agiva con grande frequenza mediante operazioni fuori sistema e non riferiva costantemente a nessuno se non al presidente”. Le intercettazioni illegali effettuate, secondo l’accusa, grazie a uomini della Telecom, sarebbero state spesso commissionate e pagate proprio da uomini del gruppo. E’ quanto è scritto nelle ordinanza di custodia emesse oggi nell’ambito dell’inchiesta sulle intercettazioni dei Pm Nicola Piacente, Stefano Civardi e Fabio Napoleone. “L’enorme mole di informazioni e dati riservati – si legge – illegalmente ottenuti e memorizzati nell’archivio rinvenuto nella disponibilità di Cipriani è per la stragrande maggioranza commissionata da uomini del Gruppo Telecom e Pirelli e pagata con denaro proveniente da tali società”.
Accuse pesanti. Per Tavaroli, finito in manette oggi insieme all’ex investigatore privato fiorentino Emanuele Cipriani, amico del cuore di Tavaroli cui Telecom ha “esternalizzato” delicatissimi incarichi di sicurezza e nel cui computer sono stati trovati centinaia di file di intercettazioni e tabulati illegali. Tavaroli e Cipriani sono molto amici di un’altra figura di spicco finita nell’inchiesta, l’ex numero due del Sismi Marco Mancini, arrestato ai primi di luglio. In manette anche Guido Iezzi, manager della Pirelli incaricato della sicurezza all’interno dell’azienda. L’accusa è di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla rivelazione di segreti di ufficio. Al commercialista di Cipriani, Marcello Gualtieri, è stato contestato il reato di riciclaggio: avrebbe provveduto a nascondere in
vari paesi europei, tra cui Svizzera, Belgio, Lussemburgo e Monte Carlo circa 14 milioni di euro di provenienza illecita. Secondo gli investigatori il commercialista avrebbe anche avuto il compito di creare società fittizie all’estero.
Sequestri. Durante un blitz disposto da Milano, 11 milioni di euro sono stati sequestrati in Lussemburgo e due in Svizzera. I soldi erano depositati in conti cifrati e sono stati sequestrati grazie a una rogatoria internazionale. Sequestrata, inoltre, anche la villa a Firenze del valore di due milioni di euro di proprietà di Cipriani. In totale a Tavaroli e Cipriani è stata contestata l’appropriazione indebita di 20,7 milioni di euro.
Società di investigazioni. Al centro della vicenda c’è una società d’investigazioni di Firenze, la Polis d’istinto, i cui investigatori privati avrebbero carpito informazioni illegali oltre a quelle lecite, e un giro di fatturazioni gonfiate e fondi esteri. Nell’ordinanza emessa dal gip di Milano, Paola Belsito, si spiega il meccanismo: gli investigatori “ricevuto l’incarico da parte dei dirigenti delle security” fornivano loro “un resoconto delle attività condotte completo di informazioni illegali”.
Violazione della privacy. Tra le informazioni illecite vi sarebbero precedenti penali, informazioni tributarie, fiscali, anagrafiche, accertamenti bancari, fornite da chi si trovava in posizioni tali da trattarle, cioè agenti e militari compiacenti che in questo modo rivelavano segreti d’ufficio o violavano la privacy delle persone “monitorate”.
Soldi in cambio di dati sensibili. Quanto ai capi d’accusa, per gli uomini delle forze dell’ordine arrestate c’è quello di “violazione del segreto d’ufficio”. Gli arrestati, rendono noto i carabinieri, “avrebbero ricevuto dei pagamenti in cambio di rivelazioni di dati sensibili”. Tra i reati contestati a Tavaroli e Cipriani c’è anche quello di appropriazione indebita: l’ipotesi scaturisce dagli accertamenti su un giro di fatturazioni di società estere, indirizzate al gruppo Telecom-Pirelli, che gli inquirenti sospettano possano essere state gonfiate per rendere disponibili somme di danaro.
I nomi. Le 18 persone colpite da ordine di custodia cautelare in carcere sono: Stefano Bilancetta, Fabio Bresciani, Moreno Bolognesi, Emanuele Cipriani, Alessia Cocomello, Gregorio Dovile, Antonio Galante, Marcello Gualtieri, Pierguido Iezzi, Giorgio Serreli, Antonio Michele Spagnuolo, Giuliano Tavaroli, Paolo Tilli, Spartaco Vezzi, Francesco Marella, Andrea Gianluca Magrassi, Cristiano Martin, Santi Nicita. Arresti domiciliari per Rolando Bidini, Giovanni Nuzzi, Nicolò Maria Fabrizio Rizzo.
(20 settembre 2006)
http://it.peacereporter.net/articolo/30802/Usa-Cina-Europa%2C+il+triangolo+s%26igrave%3B
Tra rivalutazione dello yuan e acquisto del debito europeo: politica interna a cavallo della moneta
Intrecci politico-economici tra Usa, Cina ed Europa, con al centro la questione monetaria.
Il Senato di Washington discuterà infatti a breve termine un disegno di legge che dovrebbe bollare la Cina come “manipolatore valutario” e dare quindi luogo a una serie di ritorsioni commerciali contro i prodotti del Dragone.
È un’azione soprattutto politica: nell’anno che si concluderà con le elezioni presidenziali, un gruppo bipartisan di parlamentari vuol fare pressione in primis sull’amministrazione Obama perché faccia un atto eclatante per la presunta difesa dell’occupazione.
Tuttavia, il segretario al Tesoro Timothy Geithner si è sempre rifiutato di arrivare a tanto, pur chiedendo periodicamente a Pechino di rivalutare maggiormente lo yuan.
In realtà la valuta cinese si è rivalutata del 3 per cento circa quest’anno e del 6,6 per cento dal 2010. Una coalizione di 51 gruppi industriali Usa con interessi in Cina ha d’altra parte appena scritto una lettera, proprio al Congresso, chiedendo di non adottare misure drastiche che penalizzerebbero le loro attività economiche. Nella missiva si sostiene che il problema da affrontare, caso mai, è quello dell’inadeguata tutela della proprietà intellettuale da parte di Pechino.
I cinesi, che cercano stabilità e armonia non solo nei proclami (sono condizioni imprescindibili per la crescita del Paese), hanno da sempre accettato di rivalutare la propria moneta tutte le volte che Washington ha alzato un po’ troppo la voce. Tuttavia questa volta reagiscono con una certa asprezza, almeno a parole: sull’agenzia ufficiale Xinhua si legge che “è chiaro come il sole che dipingere la Cina come un ‘manipolatore valutario’ è solo una scusa a buon mercato per qualcuno che a Washington intende lanciare una guerra protezionista”.
Inutile dire che l’eventuale approvazioni del bill anticinese potrebbe produrre una guerra commerciale dagli esiti imprevisti e a questo punto tanti segnali inducono a pensare che la Cina potrebbe rivolgersi all’Europa, offrendole una mano per uscire dalle sue crisi a macchia di leopardo, dopo averla fin qui negata (almeno a parole).
Anche in Cina è la politica a dettare le scelte economiche. Proprio nel 2012 ci sarà quel diciottesimo congresso del Partito comunista che cambierà la leadership del Paese, consegnando il potere nelle mani della nuova generazione di dirigenti politici. In vista di quell’appuntamento, è necessario, per il Partito, fare bene: continuare cioè a garantire quel progressivo allargamento del benessere che è la base del consenso dopo il tramonto del grande apparato ideologico del maoismo. La Cina non può esporsi troppo sul debito europeo, se non considera l’Europa un debitore affidabile.
D’altra parte, quella del Vecchio Continente è anche l’economia verso cui veleggia il 28 per cento delle esportazioni cinesi e Pechino non può rischiare che questo flusso di merci si interrompa per via del fallimento di Eurolandia. Secondo alcune stime, la Cina detiene già circa il 7 per cento del debito di Eurolandia e i suoi contratti in Europa da qui a sei mesi si attestano su un valore di 47 miliardi. Si prospetta quindi una riedizione dell'”economia dei galeotti incatenati“, non più a cavallo del Pacifico, ma lungo la Via della Seta: la Cina potrebbe comprare il nostro debito per assicurarsi che continuiamo a comprare le sue merci. Nelle casse del Dragone ci sono riserve in valuta straniera tra i 2.800 e i 3.200 miliardi di dollari, la sua crescita si attesta tra il 9 e il 10 per cento. Può tranquillamente garantire i miliardi di euro necessari a ossigenare Portogallo, Spagna, Italia (se non Grecia) in un colpo solo.
Ma quali sono le condizioni per questo aiuto del tutto interessato? Al di là delle garanzie sull’affidabilità di Eurolandia (tema per altro non scontato), secondo molti osservatori, la Cina potrebbe chiedere alla Ue un chiaro appoggio per la sua richiesta al Wto di essere riconosciuta come “economia di mercato”, status che non possiede ancora e che dovrebbe essere discusso entro il 2016. Un riconoscimento che renderebbe poi molto difficili guerre commerciali e minacce assortite da parte dell’Occidente. Del resto, il cinese della strada continua a non capire perché chi ha provocato la crisi finanziaria globale e annaspa nei marosi del debito tenga fuori dall’uscio l’economia più dinamica del pianeta.
Così, nella triangolazione economica Usa-Cina-Europa, si giocano anche questioni strettamente politiche.
Gabriele Battaglia
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Accordi con la Cina e polemiche: Caracas non investirà più negli Usa
Il Venezuela non investirà più negli Usa. Le notizie che giungono dallo Stato del Anzoategui, Venezuela orientale, infatti, dove in questi giorni si tiene un importante Congresso sulla situazione degli idrocarburi, sono importanti per il mondo legato a gas e petrolio.
Il presidente della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Pdvsa, Rafael Ramirez, che ricopre anche il ruolo di ministro di Energia y Petroleo, ha fatto sapere che il suo Paese non investirà più negli Stati Uniti. Stessa cosa è stata confermata dal direttore generale del Centro de Rafinacion Paraguanà, Jesus Longo, che ha aggiungo che “la decisione è puramente politica, è stata presa dal presidente Chavez e il nostro Paese non investirà più negli Usa”.
Già da qualche anno il Paese ha abbandonato alcune strutture per lo scarico del petrolio negli Usa e dal 2006 anche la raffineria Lyondell-Citgo, presente nel Texas.
In ogni caso, il congresso, a cui partecipano personalità del mondo degli idrocarburi provenienti da ogni angolo del Pianeta, ha analizzato nei minimi particolari i temi legati all’esplorazione e produzione del greggio, soprattutto nell’area della Faja dell’Orinoco, dove si pensa ci siano le più grandi riserve di petrolio del mondo, stimate in oltre 296 miliardi di barili. Ma il paese è anche uno dei maggiori produttori di gas e le sue riserve potrebbero sfiorare i 195 miliardi di metri cubi.
Inoltre, sono molti gli Stati che fanno la corsa verso il ministero del petrolio di Caracas, che però in alcune situazioni ci vede poco chiaro e storce il naso. Come ad esempio potrebbe essere successo nei giorni scorsi con la Cina, in special modo con la Cnpc (China National Petroleum Corporation), con la quale il Venezuela avrebbe dovuto firmare accordi per la produzione mista di greggio.
Da Caracas giungono voci preoccupanti secondo cui la Cina comprerebbe petrolio ad un prezzo relativamente basso per poi rivenderlo a prezzo maggiorato ad altri stati. Con un notevole guadagno economico.
Secondo gli amministratori di Pdvsa parte del greggio comprato da Pechino sarebbe finito nelle raffinerie di Stati Uniti, di alcuni paesi africani e di qualche Stato asiatico.
Ma il congresso non ha solo messo in luce possibili scenari di scontro fra le amministrazioni cinese e venezuelana, ha aperto anche grandi possibilità di sviluppo e crescita economica. Come ad esempio potrebbe accadere grazie all’accordo siglato fra Caracas e Parigi, in particolare con la francese Technip, per la produzione di gas. Grazie all’accordo inizieranno entro breve i lavori all’interno di Campo Dragon, dove tutti i giorni verranno estratti 300milioni di piedi cubici di gas naturale. Questa lieson apporterà sicuramente maggiori tecnologie e possibilità di sviluppo.
Un ultimo accenno della dirigenza Pdvsa è andato all’ormai annosa diatriba che vuole che lo Stato paghi una penale per la nazionalizzazione del settore petrolifero, che ha consentito a Caracas di prendere il totale controllo delle risorse del Paese, dopo decenni di sfruttamento da parte delle multinazionali, soprattutto statunitensi.
Su questo argomento non esiste margine di trattativa e le risorse, come sottolineato dai rappresentanti Pdvsa, resteranno sotto la sovranità nazionale che non potrà essere intaccata da aziende come Exxon-Mobil che pretenderebbero un risarcimento dopo la nazionalizzazione del settore fortemente voluta dal presidente Hugo Chavez.
Alessandro Grandi
http://it.peacereporter.net/articolo/18036/Cosa+si+nasconde+dietro+la+guerra+in+Afghanistan%3F
Le miniere d’uranio? Il gasdotto trans-afgano? Il posizionamento geostrategico? O forse il controllo del narcotraffico?
Perché, esattamente otto anni fa, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno invaso e occupato l’Afghanistan? Quali interessi si celano dietro le spiegazioni ufficiali di questa guerra? Le ipotesi avanzate in questi anni sono molteplici, ma nessuna abbastanza convincente. Tranne una, che però è alquanto difficile da dimostrare.
Risorse energetiche. Secondo un rapporto pubblicato nel dicembre del 2000 sul sito Internet dell’Eia, l’agenzia di statistica del dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti (e poi rimosso), l’Afghanistan viene presentato come un paese con scarse risorse energetiche (mai sfruttate) che, secondo i dati risalenti ancora al tempo dell’occupazione sovietica, consistono in riserve petrolifere per 95 milioni di barili (concentrati nella zona di Herat), giacimenti di gas naturale per 5 trilioni di piedi cubi (nell’area di Shebergan) più 400 milioni di tonnellate di carbone (tra Herat e il Badakshan).
Risorse troppo esigue per giustificare un’invasione militare costata finora, ai soli Stati Uniti, quasi 230 miliardi di dollari.
Molti in Afghanistan parlano di giacimenti di uranio nel deserto della provincia meridionale di Helmand, il cui controllo e sfruttamento sarebbe al centro di un’aspra contesa tra forze britanniche e statunitensi. Ma per ora questa storia non avuto alcuna conferma.
La pipeline Trans-Afgana. Questa è considerata da molti la vera motivazione che ha spinto gli Stati Uniti ad invadere l’Afghanistan nel 2001.
Il progetto di costruire una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l’Afghanistan occidentale (Herat e Kandahar) viene avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal (per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad) in cooperazione con il regime talebano (nel 1996 la Unocal apre una sede a Kandahar e l’anno dopo esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa).
L’idea viene accantonata alla fine degli anni ’90 in attesa che “la situazione politica e militare dell’Afghanistan migliori” (fonte Eia, dicembre 2000). Vista l’impraticabilità del corridoio sud-asiatico, l’Occidente decide di puntare su quello sud-caucasico, aprendo nel 2006 un gasdotto che porta il gas turkmeno in Turchia via Mar Caspio, Azerbaigian e Georgia (e che dal 2015 verrà collegato al gasdotto Nabucco).
Il progetto della pipeline trans-afgana, però, non viene abbandonato. I tre paesi coinvolti riprendono a discuterne dal 2002 in poi, e nell’aprile 2008 firmano un accordo, anche con l’India, che prevede l’apertura del gasdotto entro il 2018 (previsione eccessivamente ottimistica secondo gli analisti di settore). A finanziare il progetto (7,6 miliardi di dollari) è la Banca per lo Sviluppo Asiatico (di cui gli Stati Uniti sono i maggiori azionisti assieme al Giappone). Le compagnie petrolifere interessate sono quelle statunitensi, britanniche e canadesi.
Per quanto importante, appare azzardato individuare in questo progetto – di difficilissima realizzazione e surclassato da altre rotte gasifere – la ragione della prosecuzione dell’occupazione occidentale dell’Afghanistan.
Posizione strategica. L’Afghanistan ha la sfortuna di trovarsi nel cuore del continente asiatico, in una posizione strategica che consente a chi lo controlla di monitorare da vicino tutte le potenze nucleari della regione, Cina, Russia, India e Pakistan, e di completare l’accerchiamento dell’Iran, che in caso di guerra con gli Usa si troverebbe a fronteggiare un attacco su due fronti: quello iracheno e quello afgano.
Secondo molti analisti militari la volontà statunitense di controllare l’Afghanistan va però letta soprattutto in chiave di contrapposizione alla Cina, considerata dal Pentagono come la maggiore minaccia potenziale all’egemonia militare ed economica globale degli Stati Uniti non solo in Asia, ma anche in Medio Oriente, Africa e America Latina. Una minaccia divenuta più reale dopo la creazione, nel giugno 2001, dell’alleanza politico-militare guidata da Pechino: l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco), che riunisce la Cina, la Russia, le repubbliche centroasiatiche e presto, forse, anche l’Iran. E che in futuro, vista la sua progressiva integrazione con l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), l’alleanza politico-militare a guida russa, potrebbe estendere la sua influenza fino all’Europa orientale (Bielorussia) e al Caucaso (Armenia), diventando a tutti gli effetti un’alleanza contrapposta alla Nato a guida Usa. Un Afghanistan sotto controllo statunitense rappresenta una spina nel fianco per la Cina, in particolare per la sua prossimità allo Xinjang, regione ricchissima di petrolio destabilizzata dal nazionalismo uiguro (tradizionalmente sostenuto dalla Cia).
La rilevanza geostrategica dell’Afghanistan è innegabile e ha certamente giocato un ruolo importante nella decisione statunitense di occupare l’Afghanistan e di impiantarvi basi militari permanenti.
Il business della droga. Ma forse dietro la guerra in Afghanistan si nascondono interessi ancor più grandi e inconfessabili: quelli legati al controllo del traffico mondiale dell’eroina, ovvero di uno dei business più redditizi del pianeta, con un giro d’affari annuo stimato attorno ai 150 miliardi di dollari l’anno.
Non è un mistero che il boom della produzione di oppio/eroina negli anni ’70 nel cosiddetto Triangolo d’Oro (Laos, Birmania e Cambogia) sia stato opera dalla Cia, che con i ricavi del narcotraffico finanziava le operazioni anti-comuniste nel Sudest asiatico. Lo stesso sistema – e questo è altrettanto risaputo – fu adottato dalla Cia negli anni ’80 in America Latina, per finanziare (con i proventi della coca) la guerriglia antisandinista dei ‘Contras’ in Nicaragua, e in Afghanistan per finanziare (con i proventi dell’eroina) la resistenza anti-sovietica dei mujaheddin. In Afghanistan il business continuò anche negli anni ’90 e si incrementò con l’avvento al potere dei talebani, notoriamente sostenuti dalla Cia. Fino a quando nel 2000 il mullah Omar, allo scopo di guadagnare sostegno internazionale al suo regime, decise di vietare la produzione di oppio, che infatti nel 2001 crollò a livelli prossimi allo zero. Produzione che nell’Afghanistan ‘liberato’ e controllato dalle forze armate e dall’intelligence Usa è ripresa a pieno ritmo fin dal 2002 (quando ancora i talebani non erano tornati) polverizzando ogni record storico e trasformando in pochi anni il paese sud-asiatico nel principale produttore mondiale di eroina (93 per cento della produzione mondiale). Una situazione che le forze Usa presenti in Afghanistan si sono sempre rifiutate di contrastare dicendo che questo “non era compito loro” e lasciando che se ne occupasse il governo-fantoccio di Kabul.
Secondo un numero sempre maggiore ed eterogeneo di esperti e di persone ‘ben informate’, la Cia avrebbe in sostanza appaltato produzione e lavorazione di droga al ‘narco-Stato’ guidato da Karzai, proteggendo le rotte di smercio via terra (Pakistan, Iran e Tajikistan) e gestendo direttamente il trasporto aereo all’estero.
Una nuova Air America? Secondo un’inchiesta televisiva condotta dal canale russo Vesti l’eroina afgana viene portata fuori dall’Afghanistan a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia. Spesso, ha scritto sul Guardian la giornalista afgana Nushin Arbabzadah, nascosta nelle bare dei militari Usa, riempite di droga al posto dei cadaveri.
“Penso che sia possibile che questo avvenga, anche se non lo posso provare”, ha diplomaticamente commentato l’ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov.
Il giornalista russo Arkadi Dubnov di Vremya Novostei, riportando informazioni fornitegli da una fonte all’interno dei servizi afgani, ha scritto che “l’85 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan è trasportata all’estero dall’aviazione Usa”.
Quest’estate il generale russo Mahmut Gareev, un ex comandante delle truppe sovietiche in Afghanistan, ha dichiarato a Russia Today: “Gli americani non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro almeno 50 miliardi di dollari all’anno. Non è un mistero che gli americani trasportano la droga all’estero con i loro aerei militari.”.
Il giornalista statunitense Dave Gibson di Newsmax ha citato una fonte anonima dell’intelligence Usa secondo la quale “la Cia è sempre stata implicata nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando avanti quello che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la guerra in Vietnam”.
L’economista russo Mikhail Khazin in un’intervista ha dichiarato che “Gli americani lavorano duro per mantenere in piedi il narcobusiness in Afghanistan attraverso la protezione che la Cia garantisce ai trafficanti di droga locali”.
“Gli Stati Uniti non contrastano il narcotraffico afgano per non minare la stabilità di un governo sostenuto dai principali trafficanti di droga del Paese, a cominciare dal fratello di Karzai”, scrive il noto giornalista statunitense Eric Margolis sull’Huffington Post. “Le esperienze passate in Indocina e Centroamerica suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico di droga afgana in maniera più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi quei casi gli aerei Cia trasportavano all’estero la droga per conto dei loro alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia della guerra sarà stata scritta, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi”.
Narcodollari per salvare le banche in crisi? Antonio Maria Costa, direttore generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e la Criminalità (Unodc), in un’intervista al settimanale austriaco Profil ha dichiarato: “Il traffico di droga è l’unica industria in espansione. I proventi vengono reinvestiti solo parzialmente in attività illecite. Il resto del denaro viene immesso nell’economia legale con il riciclaggio. Non sappiamo quanto, ma il volume è impressionante. Ciò significa introdurre capitale da investimento. Ci sono indicazioni che questi fondi sono anche finiti nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione dalla seconda metà dello scorso anno (a causa della crisi finanziaria globale, ndr). Il denaro proveniente dal traffico di droga attualmente è l’unico capitale liquido da investimento disponibile. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E’ ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”.
Enrico Piovesana
http://www.disinformazione.it/credieuronord.htm
Un po’ di verità sulla Banca Popolare Credieuronord (parte prima)
(meglio conosciuta come la Banca della Lega)
A cura di Rosanna Sapori – 25 novembre 2004
Il 28 ottobre 1998 si costituisce a Samarate in provincia di Varese, il comitato Promotore per la costituzione della Banca Credieuronord. Il Comitato svolge attività di promozione e di raccolta delle sottoscrizioni del capitale necessario per la costituzione della Banca. Le quote sono raccolte battendo a tappeto le sezioni della Lega Nord di Piemonte, Lombardia e Veneto. Sono coinvolti i segretari di sezione e di circoscrizione che – raccogliendo l’appello del Segretario Federale Umberto Bossi – organizzano apposite riunioni tra militanti e simpatizzanti del partito. Il quotidiano LA PADANIA e l’emittente RADIO PADANIA LIBERA, invitano lettori ed ascoltatori a sottoscrivere le quote. Anche durante i raduni nel mitico prato di Pontida sono raccolte adesioni tra i militanti della Lega Nord.
Il 21 febbraio 2000, con atto notarile, si costituisce la Banca Popolare CredieuroNord, società cooperativa per azioni a responsabilità limitata. Con l’adesione di circa 2600 soci è sottoscritto un capitale nominale di 17 miliardi e 76 milioni di lire. Il 17 novembre dello stesso anno la Banca d’Italia concede l’autorizzazione ad esercitare l’attività bancaria. Il 19 marzo del 2001 apre il primo sportello a Milano, con 2615 soci e poco più di 19 miliardi di capitale.
“Siamo contenti di aver fatto questa banca i cui soci sono per la maggior parte militanti leghisti” puntualizza GianMaria Galimberti, Vicepresidente di Credieuronord. “Ma è bene confermare che la politica non c’entra anche se Credieuronord serve agli ideali che la Lega ha sempre portato avanti, la difesa del risparmio della famiglia e della piccola e media impresa. In pratica abbiamo dato concretezza agli ideali del Carroccio…si è cercato di mischiare la politica con la banca ma Credieuronord si muoverà su un piano assolutamente deontologico e certamente non verranno fatti dei prestiti graziosi perché non è nello spirito della banca né nello statuto della banca”. Queste le parole di Galimberti in un’intervista al quotidiano LA PADANIA nel gennaio del 2001.
Nel gennaio del 2003 apre uno sportello di tesoreria ad Erbusco in provincia di Brescia e successivamente, a seguito dell’autorizzazione di Banca d’Italia, in data 24 marzo 2003 uno sportello bancario a Treviso. Il 13 febbraio 2004 Credieuronord apre uno sportello di consulenza finanziaria ad Albino in provincia di Bergamo.
Che cosa accade alla Banca in questi pochi anni d’attività è storia conosciuta e raccontata dai maggiori quotidiani e settimanali italiani ed esteri che sarà riscritta con ordine e dovizia di particolari in altra sede. Credo valga invece la pena di trascrivere per intero il documento che è stato redatto dall’ispettorato di vigilanza Creditizia e Finanziaria di BANCA D’ITALIA durante un’ispezione ordinaria.
BANCA POPOLARE CREDIEURONORD S.c.r.l. – MILANO – Via Cartesio 2
Inizio Ispezione 10/03/2003 Fine ispezione 23/05/2003
CONSTATAZIONI – PROFILI GESTIONALI E ORGANIZZATIVI
1. Non si sono adottati provvedimenti idonei a rendere affidabile l’impianto organizzativo e a pervenire in tempi rapidi a una profittevole gestione; né sono state individuate le motivazioni sottese al degrado degli impieghi. Si richiamano segnatamente:
a) i ritardi nell’applicazione del Regolamento, tuttora disatteso in alcuni aspetti rilevanti quali i controlli interni;
b) OMISSIS
c) le incoerenze nella politica creditizia nonché la labilità dei crediti seguiti per la selezione della clientela e l’enucleazione delle partite a decorso insoddisfacente:
2. La previsione contenuta nel regolamento interno, che subordina il concreto esercizio dei poteri del Direttore generale a previe “consultazioni” con il Vice Presidente Esecutivo, di fatto trasferisce in capo all’esponente amministrativo la conduzione aziendale pur lasciando al dirigente la formale responsabilità degli atti.
3. Gli scarni resoconti delle riunioni consiliari – che rendono disagevole la ricostruzione degli accadimenti – si mostrano poco accurati e, talvolta, redatti a distanza di mesi: ad esempio, l’adunanza del 24.2.2003 è stata verbalizzata nel mese di maggio e quella del 24.3.2003 non contempla gli affidamenti approvati in tale data, riproponendo quelli concessi nella precedente seduta. Si è altresì permesso al segretario di presenziare al vaglio delle pratiche di fido allo stesso riconducibili.
4. Non si sono definiti limiti alle facoltà esercitate dell’Esecutivo in tema di condizioni da praticare alla clientela; la materia non è oggetto di monitoraggio e reporting all’organo sovraordinato. OMISSIS
5. Il Collegio Sindacale ha circoscritto la propria attività – peraltro non raccordata con quella dell’ispettorato – alle verifiche di cassa e all’accertamento della regolarità nelle incombenze fiscali e previdenziali, omettendo di rilevare lo scadimento del comparto creditizio e le disfunzioni insite nel sistema dei riscontri.
6. Lo schema organizzativo risente della ridotta cultura dei controlli nonché del turnover del personale, non accompagnato dai necessari interventi formativi. In dettaglio:
a) pur in presenza di uno strumentario adeguato a rilevare le relazioni connotate da anomalie andamentali, la mancata istituzione di una struttura di controllo rischi impedisce azioni di regolarizzazione dei rapporti.
b) Le registrazioni contabili e il flusso informativo destinato alla Vigilanza, non sottoposti a scrutinio quali-quantitativo, presentano diffuse imprecisioni, specie nei conti transitori
c) La scarsa cura prestata alle evidenze sui “grandi rischi” ha impedito di acclarare, al 31.12.02, l’erronea segnalazione di supero sul plafond prudenziale
d) Gli avvicendamenti intervenuti nel Consiglio e nella Direzione sono stati inseriti nelle previste segnalazioni di Vigilanza solo in corso di ispezione
e) L’omessa pubblicazione sulla G.U. delle variazioni generalizzate alla struttura dei tassi ha comportato difetti di informativa, specie per i titolari di libretti di deposito
f) Non sono previste salvaguardie sull’utilizzo di partite illiquide in c/corrente.
EROGAZIONE DEL CREDITO E STATO DEGLI IMPIEGHI
7. Il processo creditizio è connotato da carenze che si sono riflesse sulla qualità dell’erogato. Il degrado, accentuato dal livello di concentrazione del rischio, è stato determinato da:
a) affidamenti per operazioni finanziarie senza preventiva individuazione di fonti e tempi di rimborso (cfr, ad es., Bingo.Net Srl)
b) facilitazioni accordate pur in costanza di elementi negativi prospettati in sede istruttoria (cfr, ad es., D’Evant Cesare Giosuè) ovvero di appostazioni a sofferenza presso il sistema (cfr, ad es., Robusti Giovanni e Milano Pietro)
c) ripetuti sconfinamenti autorizzati dal Capo dell’esecutivo anche in esubero ai poteri delegati, acriticamente ratificati dall’organo collegiale
d) assenza di vincoli alla annotazione delle c.d. “prenotazioni avere”, considerate nella prassi aziendale come incrementative delle disponibilità di conto. Non seguite da effettivi versamenti, hanno consentito di non rilevare eccedenze per oltre euro 1,5 mln sulla linea di credito al nome di Lari Maura/Baresi Franco.
Da ultimo, la mancata richiesta ai legali esterni di esaurienti resoconti sulle procedure in corso ha indotto ad apprezzamenti non in linea con le effettive possibilità di recupero delle creditorie (cfr. ad es. Boni e Mascarini Snc).
8. La distanza sul portafoglio prestiti al 31.12.02 ha fatto emergere sofferenze per euro 4,8 mln, incagli per euro 3,7 mln e previsioni di perdita per euro 2 mln. Negli allegati nn.3/a e 3/b vengono riportate le differenze in aumento rispetto alle segnalazioni aziendali (nell’ordine euro 3,1 mln, 1,5 mln e 1,7 mln).
IL PRESENTE DOCUMENTO, COMPOSTO DI N. 4 PAGINE E N. 1 ALLEGATO, E’ COPIA CONFORME ESTRATTA DAL RAPPORTO ISPETTIVO SUGLI ACCERTAMENTI DI VIGILANZA CONDOTTI DAL 10.03.2003 AL 23.05.2003 PRESSO BANCA POPOLARE CREDIEURONORD S.c.r.l. IL QUALE CONSTA DI N. 7 PAGINE E 3 ALLEGATI.
Il resto alla prossima puntata.
25 novembre 2004
Un po’ di verità sulla Credieuronord (II parte)
(meglio conosciuta come la Banca della Lega)
A cura di Rosanna Sapori – 5 dicembre 2004
Dopo l’ispezione ordinaria che la Banca Popolare Credieuronord subisce dal 10 marzo al 23 maggio 2003, la Vigilanza propone l’irrogazione di sanzioni amministrative e pecuniarie in relazione alle gravi infrazioni rilevate durante i controlli. Ripropongo qui il testo integrale a firma dell’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti .
– BANCA POPOLARE CREDIEURONORD –
IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
VISTO il decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia –TUB);
VISTA la lettera n. 177749 del 1° marzo 2004 con la quale la Banca d’italia, dopo aver espletato i prescritti adempimenti in conformità al disposto dell’art.145 TUB e delle relative Istruzioni di Vigilanza, ha proposto l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in relazione alle seguenti infrazioni rilevate presso la BANCA POPOLARE CREDIEURONORD, con sede in Milano, nel corso degli accertamenti ispettivi di vigilanza condotti, ai sensi dell’art. 54 TUB, dal 10.3.2003 al 23.5.2003:
1) carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte del Consiglio di Amministrazione (art.53, comma 1, lett.d), TUB; tit. IV, cap. 11, Istr. di Vig.);
2) carenze nei controlli interni da parte del Collegio Sindacale (art.53, comma 1, lett.d) TUB; tit.IV, cap. 11, Istr.di Vig);
3) carenze nell’organizzazione e nei controlli da parte del Direttore Generale (art.53, comma 1, lett.d) TUB tit.IV, cap.11, Istr. Vig);
4) carenze nella gestione del credito da parte del Consiglio di Amministrazione e del Direttore (art.53, comma 1, lett.d) TUB; tit: IV, cap. 11, Istr.Vig.);
5)posizione ad andamento anomalo e previsione di perdite non segnalate all’O.d.V. da parte del Consiglio di Amministrazione, del Collegio sindacale e del Direttore generale (art. 51 TUB; tit.IV, cap.1, Istr. di Vig.);
– omissis –
D E C R E T A
A carico delle persone di seguito indicate, nella qualità per ciascuna di esse precisata e per efetto delle norme richiamate, sono inflitte, ai sensi dell’art.144 TUB, le seguenti sanzioni amministrative pecuniarie:
Componenti il Consiglio di amministrazione
ARCUCCI Francesco; GALIMBERTI Giovanni Maria; BALOCCHI Maurizio; BARBIANI Massimo.
Ex componente il Consiglio di amministrazione
CARNEVALI Virginio (in carica fino al 6.3.2003)
Per irregolarità sub 1): euro 2.582,00 ciascuno
Per irregolarità sub 4): euro 2.582,00 ciascuno
Per irregolarità sub 5): euro 2.582,00 ciascuno
Complessivamente: euro 7.746,00 ciascuno
Componenti il collegio sindacale
GAVAZZI Gerolamo; PASQUI Paolo; CONFALONIERI Diego.
Per irregolarità sub 2): euro 2.582,00 ciascuno
Per irregolarità sub 5): euro 2.582,00 ciascuno
Complessivamente euro 5.164,00
Ex Direttore Generale
CONTI Giancarlo (in carica fino al 16.3.2003)
Per irregolarità sub 3): euro 1.549,00
Per irregolarità sub 4): euro 1.549,00
Per irregolarità sub 5): euro 2.582,00
Complessivamente euro 5.680,00
– omissis –
Roma, addì 22 marzo 2004
IL MINISTRO: G. TREMONTI
il resto alla prossima puntata…
http://oddo.blog.ilsole24ore.com/finanza_e_potere/2010/07/lega-nord-gli-allevatori-ricorrevano-alla-banca-credieuronord-per-non-pagare-le-multe-sulle-quote-la.html
La banca leghista Credieuronord copriva le truffe sulle quote latte, ecco perché Bossi difende gli allevatori che non pagano le multe
Umberto Bossi continua a proteggere i circa mille tra “malgari” e allevatori che, pur avendo “splafonato” i quantitativi di produzione di latte previsti in sede europea, si rifiutano di pagare le multe. Il perché è presto detto: l’indimenticata Credieuronord, la banchetta fondata dai Lumbard, che la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani acquisì in extremis perché non fallisse, faceva da schermo alla truffa sulle quote latte. Il salvataggio di Credieuronord dalla bancarotta, attuato dal pupillo del governatore di Banca d’Italia Antonio Fazio, non servì solo a coprire le spericolate operazioni immobiliari in Croazia dei vertici della Lega, ma anche e soprattutto a non lasciare traccia delle “intermediazioni fittizie con le coooperative di allevatori create per nascondere la truffa delle quote latte non pagate”, scrive su Repubblica del 27 luglio 2010 Paolo Griseri. Non c’è proprio niente di ideale nella difesa leghista di questi mille furbetti delle quote latte che suona come una beffa per i 39mila allevatori che si sono viceversa indebitati per pagare le multe nel rispetto della legalità. Essa è “piuttosto la restituzione di antichi favori e il risarcimento per mancate promesse – aggiunge Griseri – quando nelle campagne padane il popolo delle stalle affidava i suoi risparmi alla Credieuronord fidandosi della sponsorizzazione del Senatur”. Siamo dunque di fronte a un ricatto tacito che la Lega subisce da anni perché parte in causa nella truffa e che inquadra sotto una nuova luce la fallita scalata della Popolare di Lodi all’Antoveneta, dalla cui fusione sarebbe dovuto nascere un grande istituto del Nord gradito al Carroccio. In quel calderone bancario che Fiorani andava rimestando con il benestare di Fazio sarebbero dovuti annegare affari imbarazzanti per chi, ancora a quell’epoca, gridava “Roma ladrona”. E guarda caso sedeva nel consiglio d’amministrazione di Antoneventa il fratello di quell’Antonio Azzolini relatore del recente emendamento con cui è stato rinviato ancora una volta il pagamento delle multe agli allevatori vicini a Bossi.
I particolari tecnici del raggiro delle quote latte sono descritti nella sentenza con cui il Tribunale di Saluzzo ha condannato una sessantina di allevatori cuneesi soci delle sei cooperative “Savoia” fondate dal leader piemontese dei Cobas del latte, Giovanni Robusti, eletto poi parlamentare europeo della Lega Nord.
“Dal momento in cui gli allevatori fatturavano il latte che eccedeva le quote loro assegnate, venivano effettuate tre registrazioni. La prima estingueva il debito nei confronti del fornitore del latte facendo sorgere contemporaneamente un debito nei confronti degli organismi competenti per il superprelievo. La seconda registrazione registrava lo spostamento del denaro dal conto della banca utilizzata dalle cooperative per incassare i pagamenti a un conto acceso presso la Credieuronord. La terza registrazione, che seguiva di pochi giorni le altre due, veniva effettuata in corrispondenza dell’uscita del denaro dal conto della banca Credieuronord”. Il denaro tornava così agli allevatori, chiosa Griseri, che non pagavano la multa. La somma truffata dalle cooperative fondate da Robusti oscillava, a seconda del calcolo, tra i 130 e i 200 milioni di euro. Una bazzecola, aggiunge Griseri, rispetto alla truffa da un miliardo di euro contestata dal pm milanese Frank Di Maio al parlamentare leghista Fabio Rainieri, presidente della Commissione agricoltura della Camera.
Corsi e ricorsi: tra coloro che si diedero da fare perché Fiorani rilevasse la dissestata Credieuronord spiccava l’attuale presidente della commissione Bilancio della Camera nonché segretario della Lega lombarda, Giancarlo Giorgetti, il cui nome è ritornato in auge proprio in questi giorni. Il capogruppo dei deputati Lumbard, Marco Reguzzoni, accusa Giorgetti di avere protetto Angelo Ciocca, il consigliere regionale del Carroccio, recordmann delle preferenze, che sarebbe stato in contatto, secondo la Procura di Milano, con il boss della ‘Ndrangheta Pino Neri. E la chiamano “Padania”…
http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/economia/2010/16-aprile-2010/credieuronord-sogno-fallimento-storia-breve-finanza-carroccio-1602848354081.shtml
il crac Il pm di Milano chiede l’archiviazione, i vecchi soci si oppongono
Credieuronord, dal sogno al fallimento
Storia breve della finanza del Carroccio
La banca nacque nel 2000 per servire i lavoratori del Nord. Crollò dopo 4 anni, rilevata da Fiorani: aveva bruciato circa 15 milioni di euro
MILANO—I padri di Credieuronord, la banca della Lega nata nel febbraio del 2000 e chiusa dopo quattro anni, hanno tirato un sospiro di sollievo. Perché solo ora la procura di Milano ha deciso di archiviare in blocco l’inchiesta per appropriazione indebita e truffa contro gli amministratori dell’istituto, fra i quali il deputato vicentino Stefano Stefani che in quella banca ebbe un ruolo non secondario. «Ci siamo opposti alla richiesta del pm, ora vediamo cosa farà il giudice », avverte però l’avvocato Antonio Mezzomo che difende un gruppo di vecchi soci sedicenti «gabbati». Maquesto di Milano è solo l’atto finale della disavventura del Carroccio nel mondo creditizio.
Nelle idee dei fondatori, primo fra tutti Umberto Bossi, Credieuronord doveva servire soprattutto il popolo padano: famiglie, artigiani, agricoltori, piccoli imprenditori. «Anch’io sono socio fondatore. E tu?», occhieggiava il Senatur nei cartelloni pubblicitari di allora con i quali tappezzò le città del Nord. Perché, secondo la politica leghista di allora, le banche esistenti facevano parte del sistema nazionale e come tali erano da combattere in chiave autonomista come tutto ciò che profumava di tricolore. Credieuronord doveva dunque essere la banca padana. E in molti ci avevano creduto: leghisti tesserati e simpatizzanti, circa 3.400 in tutto il Nord, dei quali quasi 400 veneti che comprarono migliaia di quote. Bastavano 25 euro per diventare soci. Ma c’erano finanziatori che sborsarono decine di migliaia di euro.Comeil sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo che ne mise 30 mila: «Che dire? Ci ho creduto». L’idea era quella di far nascere vari sportelli nelle province del Nord. Ma la nuova creatura non durò abbastanza: nel 2001 il primo rosso, nel 2002 la ricapitalizzazione, nel 2003 una nuova iniezione di capitale, nel 2004 la chiusura delle prime e uniche tre filiali che riuscirono a vedere la luce: Milano, Brescia e Treviso. Il motivo? Troppi clienti privilegiati e indadempienti. Finì così nell’orbita dell’allora Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, alla quale venne ceduto il solo ramo bancario (il residuo è Euronord) in attesa della fusione con Reti Interbancarie, la holding della banca lombarda. Fiorani, l’uomo della rinascita, venne però travolto dallo scandalo Antoveneta e con lui anche il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che avrebbe dovuto dare l’imprimatur all’operazione. Il piano saltò e per Euronord il destino fu segnato: crac. Secondo i magistrati che si sono occupati della vicenda, sarebbero stati bruciati circa 15 milioni di euro, fra quote iniziali e aumenti di capitale con i quali si è tentato di rilanciare l’attività. I soci rimasero col cerino in mano e molti, fra cui il gruppo guidato da Mezzomo, urlarono allo scandalo. Alcuni mostrarono i denti, come Franca Equizi, espulsa dalla Lega vicentina, socia della banca e mancato direttore della prevista sede di Vicenza: «E’ un sogno andato in fumo – disse a caldo – Sono molto amareggiata e delusa per la fine ingloriosa di un progetto nel quale avevo creduto e del quale facevo parte attivamente.
Se l’istituto fosse stato gestito con correttezza avrebbe avuto un grande successo». Lei ci ha rimesso dieci milioni delle vecchie lire. Altri fecero buon viso a cattivo gioco, come Gobbo: «Che dire? Purtroppo è andata male. Sono cose che non dovrebbero mai capitare ». In sostanza, chi aveva una poltrona da difendere usò toni morbidi. Chi non ce l’aveva più, come Franca Equizi, puntò il dito accusatore sulla malagestione: «Come si fa a dare tutti quei soldi alla moglie di Franco Baresi?». Equizi parla della linea di credito accordata a Maura Lari, consorte dell’ex libero del Milan. «Eccedenze per oltre 1,5 milioni di euro», sottolinearono gli ispettori della Banca d’Italia. Nel mirino dei soci finirono i membri del vecchio consiglio di amministrazione, fra cui Maurizio Balocchi che è stato tesoriere della Lega. Fra gli altri l’ex presidente Francesco Arcucci, Giovanni Maria Galimberti, Massimo Barbiani e Virginio Carnevali. Per tutti loro nessuna conseguenza penale. Solo una sanzione amministrativa di 7.746 euro ciascuno. Curiosità: la sanzione fu comminata dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
A.P.
16 aprile 2010
http://www.ilsole24ore.com/fc?cmd=art&artId=703670&chId=30 26 agosto 2005 |
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In principio fu Gian Maria Galimberti. A lui Umberto Bossi e gli alti papaveri della Lega Nord diedero l’incarico di fondare la banca della Lega. E Galimberti, che forse aveva combinato qualche pasticcetto in passato nel mondo bancario con la Barclays, si mise all’opera. I dirigenti della Lega Nord, analfabeti finanziariamente, queste cose non le sapevano e così l’operoso Galimberti cominciò a raccogliere il capitale sociale della costituenda banca CrediNord, poi diventata CrediEuronord per evitare denunce alla magistratura da parte di una banca francese Crédit du Nord fondata nel 1840 per eccessiva assonanza dei due nomi. Ma Galimberti sembrava morso dal ragno della smania. A Pontida, a Venezia, nelle Assemblee dei soci lui solo prendeva la parola dicendo: « cresceremo tanto da far male alle altre banche » , come il topolino che ha deciso di strangolare l’elefante. Ma era quando tornava in banca che dava il meglio di sè. Non voleva Presidente ( che allora era chi scrive, poi autosospesosi) o Consiglieri fra i piedi. Lui era la banca, il padre padrone. Disponeva dei soci, delle strutture, di una segreteria megagalattica e del personale, specie femminile. Un padre padrone, quasi un proprietario della banca. E, quando riceveva delle telefonate dall’alto, il suo comportamento era quello per cui la struttura dell’ufficio fidi veniva da lui scavalcata. « Non accetto dei pareri negativi » diceva, quasi anticipando quanto si è letto nel tormentone estivo delle intercettazioni ben note. Il parere che contava era solo quello del padre padrone, il quale, poi, in Consiglio di Amministrazione si presentava con garanzie, fideiussioni, assegni di clienti ( a cui voleva dare dei prestiti) poi rivelatisi carta straccia. Finita ingloriosamente la vicenda di CrediEuronord, anche perché 4 o 5 clienti affidati si sono guardati bene dal restituire i milioni di euro concessi in prestito su iniziativa imperiosa del padre padrone ( e non si sa bene se siano stati denunciati, poiché molto ammanicati con la Casa delle Libertà, vedi l’ex calciatore Franco Baresi), la Lega Nord ha avuto una nuova bella pensata. Al posto del piccolo Galimberti perché non puntare sul grande banchiere Gianpiero Fiorani? In questo modo la Banca del Nord era già fatta. Si trattava soltanto di chiudere la sgradevole vicenda CrediEuronord facendola rilevare dalla Banca Popolare di Lodi ( ora Banca Popolare Italiana) e di dare una mano al grande banchiere di Lodi per acquisire la Banca AntonVeneta, diluendo le sorprendenti sofferenze della Lodi in un bacino più grande: la nuova Banca del Nord, nata dalla fusione di una banca lombarda con una ben più grande banca veneta. Gli amici degli amici sono miei amici, dicono i francesi, ma anche gli italiani e, quindi, gli amici di Fiorani e tutti coloro che lo favoriscono in questo ambizioso disegno sono amici della Lega. Non importa che siano palazzinari romani, speculatori di basso rango, etc. L’importante non sono gli uomini. L’importante è il disegno strategico, l’obiettivo della grande politica bancaria della Lega Nord: da una piccola banca creata dal sudore dei leghisti, a una grande banca creata dalla lungimiranza del megabanchiere della ricca e grassa terra agricola lodigiana. |
http://www.facebook.com/note.php?note_id=499149374755&id=291472488097
IL SALVATAGGIO DELLA BANCA LEGHISTA CREDIEURONORD E IL PATTO CON BERLUSCONI – FATE GIRARE
pubblicata da Movimento Antiberlusconiano Italiano il giorno lunedì 17 gennaio 2011 alle ore 9.55
IL SOCCORSO VERDE DELLA LEGA ALLE LEGGI AD PERSONAM PRO BERLUSCONI, AGLI AMICI DEI MAFIOSI E AI CORROTTI.
IL SALVATAGGIO DELLA BANCA LEGHISTA CREDIEURONORD E IL PATTO CON BERLUSCONI.
Prima del 2000 la Padania, il quotidiano della Lega, chiamava Berlusconi “il mafioso di Arcore” e pubblicava domande sull’odore dei soldi e sulle imbarazzanti relazioni siciliane del fondatore di Forza Italia. Poi le cose sono cambiate e Bossi e Berlusconi han siglato un patto di ferro che li porterà alla vittoria elettorale del 2001. Come mai?
Quando nel 2007 arrestarono un collaboratore di Tavaroli, il giornalista di Famiglia cristiana Guglielmo Sasinini disse che tra i documenti che gli sequestrarono c’erano anche appunti sul presunto patto Berlusconi-Bossi: “In quel periodo pignorata per debiti la casa di Bossi”. E poi: “70 miliardi dati da Berlusconi a Bossi in cambio della totale fedeltà”. “Debiti già ripianati con 70 mld”. I soldi per la Lega qualcuno li ha tirati fuori, e ne è rimasta traccia.
È stato Gianpiero Fiorani, il banchiere della Popolare di Lodi che nel 2005 guidò gli assalti dei furbetti del quartierino. È lui che salva la Lega arrivata a un passo dalla bancarotta. Un gruppo di leghisti di spicco si era inventata la Credieuronord, un piccolo istituto di credito messo su nel 2000. Primo nome: Credinord. Comincia una campagna di proselitismo, che chiede ai militanti leghisti di mettere mano al portafoglio per contribuire al successo della nuova “banca padana”. Vengono aperti un paio di sportelli a Milano e uno a Treviso, ma dura poco: fidi importanti vengono concessi senza troppe garanzie a pochi clienti eccellenti, e in breve Credieuronord collassa. Ma arriva il salvatore: Gianpiero Fiorani, che nel 2004, con la regia del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, compra Credieuronord e annega i debiti della banchetta leghista nell’accogliente pancia della Popolare di Lodi. Da allora Berlusconi non è più Berluskaiser o Berluscaz….
IL SOCCORSO VERDE DELLA LEGA ALLE LEGGI AD PERSONAM PRO BERLUSCONI, AGLI AMICI DEI MAFIOSI E AI CORROTTI.
RIASSUNTO:
1) il “legittimo impedimento” è stato approvato col voto della Lega
2) La Lega ha sottoscritto tutte le 37 leggi ad personam per salvare Berlusconi dalle giuste condanne
3) Il voto della Lega è stato determinante il 22 settembre scorso per salvare dai processi il Sottosegretario Nicola Casentino intercettato con boss della Camorra
4) coi voti determinanti della Lega, si è deciso di non dare l’autorizzazione a procedere alla Corte dei Conti nei confronti di De Lorenzo, Di Donato, Crippa che, nell’esercizio delle loro funzioni, avrebbero causato danni all’erario, cioè allo Stato
5) Col voto della Lega non è passata la sfiducia al sottosegretario alla Giustizia Caliendo, incriccato con la P3
6) La lega ha espresso voto contrario all’autorizzazione a procedere per l’ex ministro del Pdl Pietro Lunari che faceva e riceveva favori dalla Cricca
7) La Lega ha sostenuto Berlusconi nelle sue esternazioni volte a limitare l’indipendenza della Magistratura
8) Coi voti della Lega sono passati anche provvedimenti come la restituzione ai prestanome dei boss dei beni confiscati o lo scudo fiscale che ha premiato evasori e mafiosi
1) il “legittimo impedimento” è stato approvato col voto della Lega: un provvedimento che ora la Corte Costituzionale ha sostanzialmente bocciato. Alla domanda se fosse preoccupato per un’eventuale sentenza della Consulta che bocciasse il legittimo impedimento, l’arrogante Bossi ha risposto: ”Spero di no, non penso ci siano matti che possono fare cose del genere”.(ANSA 05-GEN-11). I giudici, signor Bossi, non sono matti, sono invece eversivi coloro che vogliono calpestare i diritti costituzionali. Ma evidentemente anche Bossi ha imparato a offendere i giudici come il suo compare Berlusconi.
2) Sono anni che la Lega urla e strepita contro Roma ladrona, ma ha firmato e sottoscritto tutte le 37 leggi ad personam per salvare Berlusconi dalle giuste condanne. Grazie alla legge ex Cirielli, all’indulto e al lodo Alfano il premier ha evitato per esempio la condanna a 4 anni e 6 mesi della sentenza di Cassazione che ha confermato che Mills è stato corrotto dal Premier Berlusconi. Senza queste 3 leggi Silvio Berlusconi sarebbe stato prelevato dalle forze dell’ordine e accompagnato a San Vittore per scontare la giusta pena.
3) Il voto della Lega è stato determinante il 22 settembre scorso per salvare dai processi il Sottosegretario Nicola Cosentino facendo in modo che le intercettazioni delle telefonate tra lui ed alcuni boss della Camorra non potranno essere utilizzate dalla magistratura, togliendo così un importante strumento di indagine e di prova.
4) Lo stesso giorno, anche in questo caso coi voti determinanti della Lega, si è deciso di non dare l’autorizzazione a procedere alla Corte dei Conti nei confronti di vecchi “arnesi” della Prima Repubblica che, nell’esercizio delle loro funzioni, avrebbero causato danni all’erario, cioè allo Stato: De Lorenzo, Di Donato, Crippa, personaggi finiti nell’inchiesta di Mani Pulite. Quindi non potranno essere processati, e non dovranno neanche restituire i soldi grazie anche al voto della Lega
5) Col voto della Lega non è passata la sfiducia al sottosegretario alla Giustizia Caliendo: in base alle indagini sulla P3 disposte dai magistrati, che per questa vicenda hanno già ottenuto l’arresto di Flavio Carboni, Pasquale Lombardi e Arcangelo Martino, risulta che anche Caliendo prese parte, insieme agli altri indagati fra cui Marcello Dell’Utri e i magistrati Antonio Martone e Arcibaldo Miller, alla famigerata cena del 23 settembre 2009 presso l’abitazione romana del coordinatore PdL Denis Verdini a Palazzo Pecci Blunt in Piazza dell’Ara Coeli in cui la banda decise la strategia da adottare presso la Corte costituzionale per far passare il cosiddetto Lodo Alfano; decise gli interventi da mettere in atto per favorire la nomina di Alfonso Marra alla presidenza della Corte d’Appello di Milano e la pressione che doveva essere fatta in Cassazione per dare un certo indirizzo al ricorso presentato da Nicola Cosentino contro l’ordine di custodia cautelare richiesto dai magistrati di Napoli per sua contiguità con la camorra.
6) La lega ha espresso voto contrario all’autorizzazione a procedere per l’ex ministro del Pdl Pietro Lunardi, quello che sosteneva che “Con la mafia bisogna convivere”, e faceva e riceveva favori dalla Cricca.
7) La Lega ha sostenuto Berlusconi nelle sue esternazioni volte a limitare l’indipendenza della Magistratura, e giudici, procuratori e Corte costituzionale sono quotidianamente offesi, calunniati e minacciati di sottomissione dal governo Bossi&Berlusconi
8) Coi voti della Lega sono passati anche provvedimenti come la restituzione ai prestanome dei boss dei beni confiscati e lo scudo fiscale per il rientro dei capitali dall’estero, una norma che premia gli evasori fiscali, gli esportatori illegali di denaro e i mafiosi.
QUESTE APPROVATE DALLA LEGA SONO TUTTE LEGGI CHE UMILIANO I CITTADINI ONESTI !
FINO A QUANDO LA LEGA RIUSCIRÀ AD ACCALAPPIARE LA BUONA FEDE DI UNA PARTE DELL’ ELETTORATO?
http://www.ecn.org/antifa/article/527/ilneofascistamichaelledeencoinvoltonelnigergate
pubblicato il 4.11.05
Il neo-fascista Michael Ledeen coinvolto nel Nigergate ·
Berlusconi nella tempesta dei falsi dossier e della guerra di spie
Giovedì, 03 novembre
Dopo la pubblicazione di una serie di articoli su La Repubblica secondo cui il SISMI avrebbe avuto un ruolo nella produzione del falso “Dossier nigeriano” che racconta la favola di presunti acquisti di partite di uranio da parte di Saddam Hussein, il governo italiano si è ritrovato sulla stessa barca e nella stessa tempesta che sta devastando la Casa Bianca di Cheney e Bush. Berlusconi si è precipitato a Washington per incontrare Bush, il 31 ottobre, dopo aver dichiarato alla stampa di essere sempre stato “contro la guerra in Iraq”. L’opposizione ha chiesto che il parlamento costituisca una commissione d’indagine per far luce sul ruolo effettivamente avuto dagli enti di governo italiano nell’intera vicenda. Ricordiamo qui che già nel 2003 il senatore Oskar Peterlini e altri presentarono una lunga interpellanza chiedendo al governo italiano di fare luce sulle false informazioni che portarono alla guerra in Iraq.
Il 3 novembre il direttore del SISMI Nicolò Pollari sarà ascoltato dalla Commissione di controllo parlamentare sui servizi segreti (Copaco). Mentre tutti i fari sono puntati su Pollari, in realtà risultati molto più significativi si otterrebbero indagando sugli amici italiani di Michael Ledeen (vedi oltre). Il famoso Dossier sul Nigeriano fu raffazzonato nell’inverno 2000-2001 dall’ex agente del SISMI Rocco Martino. Martino aveva lavorato per il SISMI nel 1977-78, quando i nostri servizi erano ostaggio del gruppo di Ledeen e della loggia P2 del venerabile ex nazista Licio Gelli. All’inizio degli anni Ottanta il SISMI fu purgato dalle influenze della P2 e Ledeen fu dichiarato “persona non grata” in Italia dall’allora direttore ammiraglio Martini. Quando nel 2001 la cabala neocon andò alla Casa Bianca, la banda di Ledeen in Italia tornò di nuovo alla ribalta.
Tra l’autunno 2001 e la primavera 2003 i presunti documenti nigerini contraffatti da Martino furono offerti ai servizi italiani, francesi e inglesi, e infine giunsero all’amministrazione USA, dove diventarono la parte sostanziale della propaganda di menzogne usate per “piazzare” la guerra in Iraq. E’ documentata la presenza di Ledeen in Italia nel dicembre 2001, insieme al funzionario del Pentagono Larry Franklin, (successivamente incriminato per la fuga di segreti di stato USA) in una missione che riguardava la politica del “cambiamento di regime” in Medio Oriente. Ledeen è ben collegato al ministro della Difesa Antonio Martino e al presidente del Senato Marcello Pera. Secondo un rapporto confidenziale nelle mani del procuratore speciale Fitzgerald, in uno dei suoi viaggi a Roma, Ledeen fu accompagnato da Duane Clarridge, intermediario tra la P2 di Licio Gelli e l’ambasciata USA fino a quando la P2 non fu sciolta. In un’altra occasione, Ledeen fu ospitato dal principe Sforza Ruspoli, in una conferenza che di fatto rappresentò la costituzione del “partito neocon italiano”, insieme, tra gli altri, a Ferdinando Adornato.
Michael Ledeen, dalle ceneri del fascismo
Secondo diverse fonti americane e italiane al centro dell’intrigo del secolo, quello della contraffazione dei documenti nigerini con cui si è cercato di giustificare la guerra in Iraq, c’è Michael Ledeen. Famoso per il “fascismo universale”, che non è solo l’argomento di un suo libro ma della sua intera azione politica, Ledeen si distinse fin dall’inizio con una tesi di laurea su Gabriele D’annunzio. “Lo stile politico dannunziano della manipolazione delle masse, la politica dei miti e dei simboli, sono diventati la norma del mondo moderno”, scrisse allora Ledeen. In un libro più recente su Machiavelli, Ledeen sentenzia: “Per avere successo come leader, il metodo più prudente è far sì che la popolazione abbia paura di te. Per instillare questo timore devi dimostrare che coloro che ti attaccano non sopravvivono”.
La carriera neo-fascista di Ledeen iniziò a Roma, nel 1975-1977, quando insegnò all’Università di Roma e fu corrispondente del The New Republic. Ledeen ebbe le mani in pasta nei torbidi della strategia della tensione degli anni Settanta e Ottanta, che culminarono nell’assassinio di Aldo Moro e nella strage della Stazione di Bologna. Ledeen figurava sul libro paga del SISMI, all’epoca in cui il nostro servizio militare era diretto da Giuseppe Santovito, membro della P2.
Fu Ledeen a commissionare al SISMI, tramite Francesco Pazienza, le intercettazioni che portarono allo scandalo “Billigate” contro il fratello del Presidente Jimmy Carter, durante la campagna presidenziale 1980.
Nel gennaio 1981 Ledeen entrò a far parte della prima amministrazione Reagan come consigliere speciale del segretario di Stato Alexander Haig, e, quando questi fu licenziato, passò a fare consulenze per il Consiglio di Sicurezza Nazionale e per il Dipartimento della Difesa. Ebbe le mani in pasta nel più grande scandalo dell’epoca, l’affare Iran-Contra, essendo stato il primo a prendere contatti con Manucher Ghorbanifar, trafficante d’armi e truffatore iraniano al quale si deve il progetto dell’accordo ostaggi in cambio di armi che mise in pericolo l’intera amministrazione Reagan.
C’è da notare che quando nel 2001 Ledeen tornò a Roma, in qualità di “consulente” di Douglas Feith, sottosegretario del Pentagono, si incontrò di nuovo con la sua vecchia conoscenza Ghorbanifar. Trascorse tre giorni a Roma, accompagnato da due funzionari civili del Pentagono, Harold Rhode e Lawrence Franklin. Quest’ultimo seguiva la situazione iraniana, nell’ufficio di Feith, sotto la direzione di William Luti, trasferitosi al Pentagono dopo aver prestato servizio nell’ufficio di Cheney. Luti è stato sentito più volte dire che lui in realtà lavorava per Lewis Libby.
Fonte: Don Chisciotte
Estratti da:
Movisol – movimento internazionale per i diritti civili solidarietà
Fonte: www.movisol.org
31.10.05
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/10_Ottobre/27/oil_for_food.shtml Le conclusioni del rapporto voluto da Kofi Annan, coinvolto anche suo figlio «Oil for food» in Iraq: scandalo planetario Il regime di Saddam pagò 1,8 miliardi di dollari in tangenti a 2 mila società di tutto il mondo che fecero affari grazie all’embargo Onu |
NEW YORK – La madre di tutti gli scandali, la madre di tutte le tangenti. Dal rapporto voluto dal segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan (che nello scandalo vede coinvolto anche suo figlio), si conclude che Saddam Hussein distrasse fondi per 1,8 miliardi di dollari per destinarli a tangenti e sovrapprezzi a favore di 2 mila delle circa 4.500 società di tutto il mondo che trafficarono con l’Iraq durante il programma «oil for food», istituito il 13 dicembre 1996 dalle Nazioni Unite (terminò nel 1003 dopo la caduta del regime di Saddam), per mitigare gli effetti sulla popolazione irachena dovuti all’embargo della vendita del petrolio iracheno dopo l’invasione del Kuwait nell’agosto del 1990. Il comitato di indagine indipendente guidato era presiedeuto dall’ex presidente della Federal Reserve americana Paul Volcker.
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OINVOLTE GRANDI SOCIETÀ – Spiccano anche i marchi di colossi automobilistici come la Volvo e la Daimler Chrysler nella lista delle compagnie coinvolte nel giro di tangenti. Ma ci sono anche la Siemens, la Weir, l’Ufficio australiano del frumento, oltre a società francesi, svizzere, tedesche, russe (le compagnie pretrolifere Lukoil, Zarubezhneft e Alfa-Eco) e cinesi. La più coinvolta sembra la malesiana Mastek. Ma non mancano la svizzera Vitol e la francese Bnp-Paribas. Tra i politici, oltre a Roberto Formigoni, si citano il leader nazionalista russo Vladimir Zhirinovsky, il capo del partito comunista Gennady Zyuganov e l’ex capo dello staff del Cremlino Alexander Voloshin.
RICICLAGGIO – Il rapporto Volcker si pone un’inquitante domanda sul ruolo che importanti istituzioni finanziarie di livello mondiale hanno avuto nel riciclaggio delle tangenti irachene. Nello scandalo sarebbe coinvolto anche padre Jean-Marie Benjamin, dal 1991 al 1994 assistente del segretario di Stato vaticano, cardinale Agostino Casaroli, amico dal 1998 dell’allora vice premier iracheno, Tareq Aziz. Quattro pagine del rapporto sono dedicate al sacerdote e ad Alain Bionda, un avvocato e petroliere svizzero che avrebbe utilizzato la sua amicizia con padre Benjamin per ottenere dal governo di Bagdad oltre due milioni di barili di petrolio.
AZIONE LEGALE SVIZZERA – La Svizzera intende avviare un’azione legale contro quattro persone presumibilmente coinvolte nello scandalo Oil for food. Lo annuncia il ministero dell’Economia svizzero in un comunicato. L’ufficio del procuratore generale ha inoltre bloccato i conti bancari legati al caso, prosegue la nota. Le autorità elvetiche hanno già multato per un valore di 50 mila franchi svizzeri (32 mila euro) una compagnia petrolifera con sede a Ginevra legata allo scandalo.
28 ottobre 2005
http://it.peacereporter.net/articolo/30697/La+Cina+non+compra+il+debito-spezzatino
Pechino riluttante ad acquistare i bond europei. Una questione economico-politica, ma anche culturale
“Non salviamo nessuno, noi. Dobbiamo prima pensare a salvare noi stessi“. Più chiaro di così, si muore. Gao Xiqing, presidente della China Investment Corporation, non sembra per nulla interessato a dare una mano alla vecchia Europa che stenta sotto il fardello del debito. Nei giorni scorsi si era diffusa la notizia che Pechino avrebbe potuto comprare quantità massicce di bond di Eurozona così come da anni fa con quelli statunitensi ma, durante un vertice del Fondo Monetario Internazionale, tutti i funzionari cinesi ivi presenti si sono affrettati a precisare che il problema non è in cima ai loro pensieri.
Gao si è parzialmente corretto poco dopo, quando ha dichiarato che sì, la Cina potrebbe comprare Eurobond – cioè debito garantito da tutti i membri di Eurolandia o dall’Europa come entità unica – ma solo se “il profilo di rischio è conforme ai nostri stanziamenti”. Come a dire: dimostrateci che possiamo credervi e, soprattutto, non provate a rifilarci i buchi neri del debito greco o italiano.
Secondo alcuni analisti, la Cina potrebbe dare benefici all’asfittica Europa anche tenendo il piede ben schiacciato sull’acceleratore della crescita – chiamiamolo “effetto traino” – ma il problema di Pechino – che viaggia intorno al 9 per cento – è un altro: trovare un equilibrio tra la necessità di ampliare la ricchezza e l’eccessivo surriscaldamento dell’economia che, se produce inflazione (come in effetti sta succedendo), ottiene il risultato contrario: abbatte i salari reali e genera povertà di ritorno.
Come al solito, l’Occidente auspica anche che la Cina lasci fluttuare lo yuan/renminbi o, come minimo, lo rivaluti notevolmente. In tal modo, le nostre esportazioni potrebbero finalmente avere più accesso all’enorme mercato d’oltre Muraglia. Ma uno stretto controllo “politico” della propria valuta è per Pechino imprescindibile, soprattutto in un contesto internazionale in cui la moneta di scambio e riserva resta il dollaro – dei cui destini decide non la comunità internazionale bensì la Federal Reserve statunitense – e di fronte al pessimo e sempre più recente esempio della speculazione internazionale: nessuno potrà mai impoverire la Cina speculando sulla sua valuta.
Se il tema della crescita più o meno accelerata e quello della rivalutazione dello yuan sono degli evergreen nel rapporto Cina-Occidente, la questione dell’acquisto di debito europeo da parte di Pechino è la vera novità che promette di ritornare anche in futuro.
Perché, ci si chiede, la Cina compra bond statunitensi ed è riluttante a fare lo stesso con i nostri?
Esiste sicuramente un problema tutto economico, riassumibile così: evidentemente Washington offre più garanzie di solvibilità rispetto a Roma o Atene. E non fa una grinza.
C’è poi una questione politica: finché resta in piedi l’economia dei “galeotti incatenati”, cioè il meccanismo per cui la Cina vende merci agli Usa e poi ricompra il loro indebitamento, Pechino ha una garanzia in più che Washington non possa tirare troppo la corda e promuovere anche oltre Muraglia “rivoluzioni del gelsomino” (o golpe) per interposta persona, come in Medio Oriente.
E infine sussiste una ragione tra il politico e il culturale. Quando parla con l’Europa, Pechino non sa con chi sta parlando: con un organismo che rappresenta tutti, con l’asse franco-tedesco o con la Banca Centrale? Quando il Dragone guarda a Bruxelles, è il mondo che ha perseguito e protetto (spesso a fatica) un’unità politico-amministrativa lungo i 5mila anni della sua storia che osserva, con sospetto, il mondo dei comuni, delle signorie, dei principati e degli stati-nazione.
Curioso che, quanto meno indirettamente, sia la Cina a indicare la via d’uscita all’Europa: un unità non solo monetaria ma soprattutto politica. O, se proprio non è cosa, dateci almeno “robusti” Eurobond.
Sbagliano coloro che sono contrari alla listaouting. Perché dovrebbe essere sbagliata? E’ corretta anche dal punto di vista dell’informazione e servirà a spuntare le armi dei reazionari finti uomini d’ordine. Chi pensa che sia ora di finirla con le ipocrisie e le ambiguità ha ragione da vendere: si dovrà, prima o poi, ricominciare a risistemare le cose in ordine e parlare coerentemente di politica, anche di quella che riguarda la comunità lgbt.
Se qualcuno è contrario a questi metodi, dovrebbe porsi delle domande sul perchè l’ufficialità del giornalismo italiano non si è mai esposto oltre il muro dell’ipocrisia.
La riprova della giustezza della listaouting sta già nel fatto che i primi 10 obiettivi della lista stanno, tutti, minimizzando. Perché minimizzare se si tratta di un falso? Basterebbe incazzarsi, per esempio.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/mister-b-ai-piedi-di-big-pharma/2162018
Mister B. ai piedi di Big Pharma
di Stefania Maurizi
Un cablo di WikiLeaks rivela come nel 2004 (secondo esecutivo del Cavaliere) il potere politico italiano fosse prono alle lobby farmaceutiche americane
(26 settembre 2011)
Girolamo Sirchia. Che tipo di pressioni esercitano le aziende farmaceutiche sul governo italiano? Un cablo di WikiLeaks permette di rivelare gli approcci “dietro le quinte” del gigante americano Eli Lilly, che fabbrica medicinali “best seller” come l’insulina (un salvavita), il Cialis, rivale del Viagra, e l’antipsicotico Zyprexa, finito nel 2007 al centro di una causa miliardaria intentata da oltre 28 mila pazienti statunitensi.
E’ il giugno del 2004, al governo c’è Berlusconi e ministro della Sanità è Girolamo Sirchia, poi coinvolto in alcuni procedimenti per corruzione: processi chiusi con l’assoluzione o la prescrizione. Per incontrare lui e gli altri rappresentanti dell’esecutivo, gli Usa inviano a Roma il vicesegretario per il Commercio, Eric Stewart. Scopo della missione sono i prezzi dei farmaci e della tutela della proprietà intellettuale ossia dei copyright, la parola magica che garantisce il mercato e gli interessi di aziende come quelle che producono medicine e software.
Nella sua ricognizione, Stewart si vede con i vertici della Eli Lilly, che in Italia è presente con uno stabilimento a Sesto Fiorentino. I manager della multinazionale raccontano che “come altre imprese farmaceutiche Usa, la Lilly vorrebbe incrementare il suo dialogo con il governo italiano. Sebbene incontri regolarmente il ministero della Sanità, Eli Lilly ritiene necessario anche il contatto con il ministero dell’Economia e delle Finanze”. I fattori di insoddisfazione per l’azienda in Italia sono numerosi: un regime fiscale sfavorevole, il rigido controllo dei prezzi dei farmaci “che limitano la capacità dell’azienda di reinvestire i proventi in ricerca e sviluppo e innovazione”; il fatto che i farmaci generici, che permetterebbero di tagliare i costi, non siano così popolari come in America. Stewart replica che l’Associazione delle aziende farmaceutiche americane “continua a esplorare insieme al governo degli Stati Uniti la possibilità di stabilire un gruppo bilaterale di lavoro che affronti questi problemi. Poi concorda di discutere con il governo italiano le preoccupazione dell’industria”. Infine incoraggia Eli Lilly “a impegnarsi con il Ministero della Sanità, notando che in molti altri paesi europei, tali contatti positivi con il ministero non sono possibili”. Cosa intende dire? Perché nel resto d’Europa i responsabili della Sanità non permetterebbero “contatti positivi” con i fabbricanti di pillole? Il cable non fornisce spiegazioni sulla particolarità italica.
L’inviato americano non incontra solo i vertici della Lilly, ma ha un appuntamento anche con Mauro Masi, l’ex direttore generale della Rai che allora si occupava di proprietà intellettuale. Nello spiegare perché in Italia la tutela di copyright e brevetti langue, Masi racconta che, sostanzialmente il problema è la magistratura: “L’indipendenza sistemica dei giudici è all’origine delle poche sentenze” per la violazione della proprietà intellettuale. Quanto alla preoccupazione degli americani per il limitato accesso delle aziende farmaceutiche alle agenzie governative, a parte il ministero della Sanità, Masi si mette a disposizione, dicendo, che lui “può essere contattato direttamente dalle imprese preoccupate e cercherà di facilitare il loro accesso agli altri ministeri”, perché “è sensibile all’interesse delle aziende americane che investono in Italia”.
Mentre la quasi totalità degli organi d’informazione di casa nostra (con l’eccezione di Repubblica sul funerale “nazi”) dormono, ecco cosa scrive il Daily Mail:
http://www.freezepage.com/1316946110GKMPAPSHBN
Most of us may not realise this but the ideological Left certainly does, for it has long been part of its grand plan to destroy Western civilisation from within. The plan’s prime instigator was the influential German Marxist thinker (‘the father of the New Left’) Herbert Marcuse. A Jewish academic who fled Germany for the US in the Thirties, he became the darling of the Sixties and Seventies ‘radical chic’ set.
He deliberately set out to dismantle every last pillar of society – tradition, hierarchy, order – and key to victory, he argued, would be a Leftist takeover of the language, including ‘the withdrawal of toleration of speech and assembly from groups and movements which promote aggressive policies, armament, chauvinism, discrimination on the grounds of race and religion, or which oppose the extension of public services, social security, medical care etc’.
In other words, those of us who believe in smaller government or other ‘Right-wing’ heresies should be for ever silenced.
Tutto ciò servirà per annientare ogni residuo di libertà, welfare, pacifismo…
http://www.repubblica.it/esteri/2011/09/25/foto/funerale_nazista-22207223/1/?ref=HREC2-1
Non ci risulta, peraltro, che nell’ordine nazista gli ungheresi avessero un ruolo se non quello di ascari. Anche gli ascari hanno un’ “anima”…..
LONDRA – Il governo italiano di centro-destra si sta rivolgendo alla Cina, ricca di liquidità, nella speranza che Pechino l’aiuti a risollevarsi dalla crisi finanziari effettuando “significativi” acquisti di titoli di stato italiani e investimenti in società strategiche.
È quanto rivela Il Financial Times citando funzionari italiani secondo i quali Lou Jiwei, presidente della China Investment Corp, uno dei più ricchi fondi sovrani, è stato a Roma per parlare con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti e i vertici della Cassa Depositi e Prestiti.
La visita della delegazione cinese, scrive il Ft, ha fatto seguito a quella effettuata due settimane fa dal direttore generale del tesoro, Vittorio Grilli a Pechino, dove ha incontrato oltre ai vertici della Cic anche quelli della China State Admninistration of Foreign Exchage che amministra il grosso della montagna di riserve in valuta straniera pari a 3.200 miliardi di dollari.
“Ulteriori negoziazioni – riporta il Financial Times – avranno luogo presto”. La possibilità di un investimento cinese “arriva in un momento critico per l’Italia, con i mercati che chiedono rendimenti sempre più alti per acquistarne il debito, che è previsto salire quest’anno al 120% del pil, risultando in Eurolandia secondo solo alla Grecia” evidenzia il Financial Times.
Tremonti ha scritto molto sui propri timori su una colonizzazione cinese dell’Europa ma “è costretto a cercare nuove alternative”
con la crisi del debito e la messa in guardia della Banca Centrale Europea (Bce) sull’acquisto di bond che non può continuare in modo indefinito.
Gli analisti si mostrano cauti sull’esito delle negoziazioni con la Cina: “Nonostante le numerose espressioni di fiducia di Pechino su Grecia e Portogallo, gli acquisti di bond dei paesi periferici di Eurolandia da parte della Cina sono stati limitati” affermano.
“Non è chiaro quanto debito italiano sia nella mani cinesi ma – secondo il Financial Times – la Cina dovrebbe controllare il 4% dei 1.900 miliardi di dollari di debito italiano”. La Cina è il maggior creditore estero americano, con oltre 1.000 miliardi di dollari di debito statunitense.
La crisi ha spinto il governo italiano a “considerare la possibile vendita di partecipazioni startegiche in Enel e Eni.
Cassa Depositi e Prestiti ha lanciato in luglio un fondo strategico con un investimento iniziale di 4 miliardi di dollari e che prevede di ampliare a 7 miliardi di dollari con la partecipazione di altri investitori, anche esteri”. Cic è stato creato nel 2007 con un capitale di 200 miliardi di dollari e asset per 410 miliardi di dollari. Cic “è guidato da interessi puramente economici e finanziari” ed è impegnato “a elevati standard professionali ed etici nella corporate governace, nella responsabilità e nella trasparenza”. (12 settembre 2011)
Samir Amin sulla Libia.
EDITORIALE di Samir Amin
LE FONTI DELLA GUERRA
La Libia non è né la Tunisia né l’Egitto. Il gruppo dirigente (Gheddafi) e le forze che si battono contro di lui non hanno nessuna analogia con i loro omologhi tunisini o egiziani. Gheddafi non è mai stato altro che un buffone la cui vuotaggine di pensiero trova l’espressione più compiuta nel suo famoso Libro verde. Muovendosi in una società ancora arcaica, Gheddafi ha potuto permettersi di tenere discorsi, ripetuti e privi di agganci con la realtà, «nazionalisti e socialisti», per poi proclamarsi il giorno dopo un «liberale». Lo ha fatto «per compiacere gli occidentali», come se la scelta del liberalismo non avesse effetti sociali. Però li ha fatti e, molto banalmente, ha peggiorato le difficoltà sociali della maggioranza dei libici. La redistribuzione molto accentuata della rendita petrolifera ha lasciato il posto alla sua confisca da parte della piccola clientela del regime, inclusa la famiglia del leader.
Condizioni che hanno portato all’esplosione che abbiamo visto, di cui hanno immediatamente approfittato l’Islam politico e le pulsioni regionaliste.
Come nazione la Libia non è mai davvero esistita. È una regione geografica che separa l’occidente arabo dall’oriente arabo, il Maghreb dal Mashreq. La linea di confine passa esattamente nel mezzo della Libia. La Cirenaica storicamente è stata greca ed ellenistica, poi è divenuta mashreqina. La Tripolitania, al contrario, è stata latina ed è poi divenuta maghrebina. Quindi, i regionalismi nel paese sono sempre stati molto forti.
Nessuno sa bene chi sono davvero i membri del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi. Il presidente del Cnt non è altri che Mustafa Mohammed Abdel-Jalil, il presidente della Corte d’appello libica che confermò la condanna a morte delle cinque infermiere bulgare. Per questo, nel 2007, fu ricompensato e nominato ministro della giustizia, posto che ha conservato fino al febbraio 2011. Il primo ministro bulgaro, Boikov, per questa ragione ha rifiutato di riconoscere il Cnt ma gli Stati uniti e i paesi europei non hanno voluto tenere in alcuna considerazione la cosa.
Forse fra loro ci sono dei democratici, ma di certo ci sono degli islamisti, e alcuni fra i peggiori, e dei regionalisti.
In Libia fin dalle sue origini, «il movimento» ha preso la strada di una rivolta armata contro l’esercito, piuttosto che quella di un’ondata di manifestazioni civili. E questa rivolta armata ha chiesto immediatamente l’intervento in suo aiuto della Nato.
Così si è offerta l’occasione per un intervento militare alle potenze imperialiste.
Il loro obiettivo non era certamente quello di «proteggere i civili» né «la democrazia», ma il controllo del petrolio e delle risorse d’acqua sotterranee, e l’acquisizione di una base militare strategica nel paese. Naturalmente da quando Gheddafi ha abbracciato il «liberalismo», le compagnie petrolifere occidentali avevano già il controllo del petrolio libico. Ma con Gheddafi non si può mai essere sicuri di niente. E se lui domani avesse di nuovo cambiato di campo e si fosse messo a giocare la partita con cinesi e indiani? Più importanti ancora del petrolio sono le enormi risorse d’acqua sotterranee della Libia. Esse avrebbero potuto essere usate a beneficio dei paesi africani del Sahel. Ma questo ormai è un capitolo chiuso. Ora delle multinazionali francesi ben note avranno con ogni probabilità l’accesso a quelle risorse (questa senza dubbio è la ragione dell’immediato intervento della Francia) e le useranno in modo molto più «redditizio», forse per produrre agro-combustibili.
Nel ’69 Gheddafi pretese che gli inglesi e gli americani lasciassero le basi che avevano montato in Libia fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Oggi gli americani hanno bisogno di trasferire in Africa l’Africom (il comando militare Usa per l’Africa, un pezzo importante del dispositivo di controllo militare sul pianeta, finora basato a Stuttgart, in Germania!). L’Unione africana rifiuta di accettarlo e fino a oggi nessun paese africano si è azzardato a farlo. Un lacchè messo in piedi a Tripoli (o a Bengasi) sarebbe evidentemente pronto a soddisfare tutte le richieste di Washington e dei suoi alleati subalterni della Nato. La base è una minaccia permanente d’interventi diretti contro l’Egitto e l’Algeria.
Detto questo, rimane difficile prevedere come «il nuovo regime» libico sarà capace di governare il paese. La disintegrazione della Libia sul modello della Somalia è possibile.
Da l’ “Espresso” del 24/02/2011, di Paola Pilati:
[…] Chi vive degli affitti del proprio patrimonio immobiliare, ed era tormentato dalle tasse, crescenti al crescere delle pigioni-cumulate-degli inquilini, può far festa. Sull’incasso pagherà solo il 21%. Un atto di giustizia, in fondo, verso i Paperoni del mattone, orrendamente discriminati rispetto ai Paperoni dell’investimento finanziario, che già godevano di aliquote del 12,5 % sulle rendite di titoli o al massimo del 27 sul cash tenuto in banca. È l’effetto della cedolare secca sugli affitti, una delle grandi novità del fisco comunale in salsa federalista. Una misura che farà felici anche molti piccoli proprietari e che sicuramente spingerà molti contratti in nero a spostarsi alla luce del sole ( e non solo per il piacere dell’onestà: chi non lo fa rischia multe fortissime grazie ai vantaggi alla delazione da parte dell’inquilino) ma che è prima di tutto un regalo fiscale che di questi tempi di ristrettezze nessuno immaginava fosse possibile elargire. Quanto vale? Tre miliardi di tasse in meno ( il conto è della Camera dei Deputati) perché quei redditi verranno sottratti all’Irpef.
Si dirà che i rentier immobiliari conosciuti al fisco non sono poi tanti, poco meno di due milioni su 23 milioni di proprietari di case e che quelli con redditi consistenti sono ancor meno (circa 60 mila gli italiani oltre 55 mila euro di reddito, che vivono di redditi da fabbricati, secondo l’Agenzia del territorio) ma quei 3 miliardi che si risparmieranno grazie alla cedolare secca li dovrà pagare qualcun altro. Indovinate chi. Per chi é corto di fantasia, basti un indizio: oltre allo Stato, che é il destinatario dell’irpef e dovrà far fronte al buco, l’unica vera autonomia impositiva che i sindaci avranno – oltre alla tassa di soggiorno di 5 euro, molto criticata, e a una eventuale tassa di scopo per le opere pubbliche – sarà quella di infliggere ai propri cittadini un’addizionale Irpef (fino allo 0,4%; sono 3500 i municipi in grado di farlo). Morale, chi ha redditi da lavoro salderà il conto per gli altri. A livello territoriale, l’effetto sarà ancora più sorprendente: visto che il risparmio della cedolare contro l’Irpef agevola chi ha le aliquote marginali più alte, verrà avvantaggiato il Nord, dovrà pagare di più il Sud.
La macchina del nuovo federalismo fiscale su scala comunale che deve scattare quest’anno e andare a regime nel 2014, non é in realtà ancora partita. Nell’officina in cui viene messa a punto non tutti i pezzi del complesso montaggio si incastrano come il leghista Roberto Calderoli e i suoi vorrebbero. Anzi, i conti si fanno e si rifanno proprio perché trasferire dall’erario ai comuni i proventi di tributi così diversi (oltre alla cedolare, imposte di registro e ipotecarie, nonché una compartecipazione all’Iva) dimostra che qua e là la coperta é corta, oppure troppo abbondante. […] Su una torta di 11,2 miliardi di euro si dovranno dividere tutti i comuni delle regioni a statuto ordinario, il 77% (9,8 miliardi) é concentrato sul 33% dei comuni, quelli definiti “più dotati”, vale a dire quelli in cui c’é la base imponibile più ricca. Gli altri, in base a un federalismo puro e duro, dovrebbero accontentarsi delle briciole e smagrire. A compensare queste sperequazioni, interverrà un fondo, in cui i comuni verseranno le tasse in eccesso e che farà da centrale redistributiva.
Questo non toglie, però, che le differenze non restino agli atti e non saltino agli occhi. Soprattutto sul fronte delle tasse sulla casa, che é il vero centro di gravità della devolution fiscale. Che sia lì la polpa della ricchezza del paese, non ci sono dubbi. La Banca d’Italia la stima in 4700 miliardi di euro (4 volte il reddito disponibile), il Catasto, che fotografa più da vicino la proprietà immobiliare sulle sue mappe, si spinge oltre: 5624 miliardi é il valore del patrimonio abitativo delle persone fisiche (6243 con box e cantine), stimato ai prezzi di mercato. Diverso é il suo valore catastale, quello su cui il fisco calcola le imposte: per le abitazioni ammonta a 1600 miliardi.
[…] Il governo ha deciso di rendere tax free la prima casa, e questo toglie dal conto una bella fetta di quella ricchezza. Come abbiamo visto, ha anche deciso di alleggerire il carico fiscale sulle case date in affitto come abitazione (sono esclusi dalla cedolare gli affitti uso ufficio ), cioé su un incasso stimato sui 12 miliardi abbondante. Quali case invece verranno tartassate?
I primi a dover temere sono quanti posseggono una casa e non l’affittano, ma la tengono a disposizione. E’ il caso di tutte quelle famiglie proprietarie di una seconda casa al mare o ai monti, un patrimonio di quasi cinque milioni di case (con una rendita catastale complessiva di 1,8 miliardi) su cui oggi pagano l’Ici. Quanto ad aliquote, i comuni si sbizzarriscono : il 30% hanno adottato quella del 7 per mille, molti stanno sotto, in due casi si raggiunge e supera l’8 ( Argentera, in provincia di Cuneo ha il record dell’8,25 per mille, Belluno la segue a ruota con l’8). La media, comunque, é del 6,4. Che succederà quando entrerà in campo la tassa che sostituirà l’Ici, cioè la nuova Imu, imposta municipale unica? Succederà che lo stato scriverà a tutti i sindaci informandoli che l’Imu avrà un’aliquota standard del 7,6 per mille. Liberi, certo, di stare sotto. Ma quanti lo faranno, visto che comuni come Rimini, Riccione, Cortina d’Ampezzo, dovranno addirittura superare quel livello per assicurarsi lo stesso incasso? Si avrà quindi una corsa al rincaro della tassa sulle case a disposizione – con la scusa che é lo Stato che lo chiede – che si tradurrà in una stangata per i possessori della casa per vacanza.
La tentazione di limitare il danno darà il via a un fenomeno già in parte conosciuto, quello delle residenze fittizie, già oggi usate dai più scaltri per pagare acqua e spazzatura al minimo. Per evitare che la villa in Sardegna o la baita in montagna si traducano in un salasso del reddito familiare, meglio trovare una vecchia zia del paese che comunica all’anagrafe di abitare proprio lì, o spaccare l’unità familiare – sempre a fini anagrafici – trasferendo a Portofino o a Capri la moglie o un figlio. In compenso, i proprietari di seconde case a disposizione si potranno consolare con il fatto che non dovranno più pagare l’Irpef “rafforzata” (cioè rivalutata dal fatto che la casa é sfitta) nella propria dichiarazione dei redditi.
Tassare la casa di vacanza avrà anche un altro effetto. Quello di mettere in luce il paradosso di una riforma che si vuole federale e che si dovrebbe basare sul principio “vedo, pago, voto”: il contribuente giudica l’operato degli amministratori locali, sindaco in testa, confronta le tasse che deve sborsare con l’efficacia della gestione e premia o penalizza con il suo voto i politici del territorio. Qui invece salta tutto: i proprietari di seconde case che arricchiscono le finanze, poniamo, del comune di Savona, o di quello di Imperia, o di Aosta, tanto per dire i primi tra i comuni italiani per gettito Irpef fondiario (rispettivamente 317 €, 282 e 276 di tributo pro capite contro i 49 € di Crotone e i 70 di Matera) sono magari lontani mille miglia, abitano in una grande città e non potranno mai vendicarsi sul sindaco che li tartassa. Con il rischio, in futuro, di subire un’altra tosatura. Il progetto del federalismo comunale prevede anche l’istituzione di tasse di scopo, legate cioé a un progetto, in genere, di opere pubbliche. Calcolato come? Sempre sulla casa, e quindi anche la seconda casa. Così il nostro contribuente pagherà per finanziare migliorie che, almeno, si godrà quando é in vacanza.
Se i rentier, come categoria sociale, non potevano che aspettarsi un trattamento di favore da un governo di centrodestra, il fisco federale dà un brusco risveglio al popolo delle partite Iva – i professionisti, gli artigiani, i piccoli imprenditori – che fino a oggi si considerava un beniamino del governo, e che infatti molti comuni blandivano applicando aliquote Ici ridotte. Ebbene, su di loro la nuova tassazione della casa cala come una mannaia: tutti cancellati gli sconti per “gli immobili destinati all’attività di impresa, arti e professioni”, a partire dal 2014 deovranno pagare l’Imu ad aliquota piena (7,6), che può essere dimezzata solo nel caso di immobili affittati. Ma, anche qui, gli osservatori che hanno partecipato al montaggio della macchina federalista avanzano molte riserve sulla probabilità che questa riduzione sia concretamente concessa dai Comuni, affamati di soldi. Stesso trattamento per gli immobili usati dalle imprese (e intestati a società di capitali): si può rincarare l’aliquota Imu, e forse abbattere l’imponibile. Più probabile la prima manovra, meno la seconda. E tutti aspettano al varco la decisione che prenderà Milano, terra di attività imprenditoriali, dove il sindaco Moratti applica oggi un’aliquota leggera, il 5 per mille. A conti fatti, per imprese e lavoratori autonomi l’erario aumenta le tasse. Al contrario dei proprietari di case per abitazione, gli fa infatti pagare, insieme all’Imu, anche le imposte sul reddito (Irpef e Ires): con un incremento che Alberto Zanardi, professore di Scienza delle finanze a Bologna, ha stimato tra il 32 e il 34 %.
Lasciando fuori i proprietari di prima casa, 18 milioni di cittadini sono al sicuro dalla grande rivoluzione del fisco comunale. Zero Ici oggi, zero Imu domani. Ma non é detta l’ultima parola. Perché lontano dal laboratorio in cui Stato e Comuni sono impegnati a costruire il meccano federalista, c’é un altro silenzioso processo che va avanti. Si chiama adeguamento delle rendite catastali. Vale a dire il processo che serve a riportare le rendite (cioé il valore dell’immobile su cui si pagano le tasse) verso livelli sempre più vicini ai prezzi di mercato.
Milano l’ha già fatto su 37 mila immobili (un terzo del totale) , che sono stati rivalutati dal 40 al 55%. Stesso trattamento anche a Ferrara, nel comune di Cervia, e a Bari. E’ appena iniziato anche a Roma, dove promette di dare risultati straordinari, visto che oggi una casa al Torrino – periferia – può risultare accatastata a un valore superiore a quello di un appartamento a Piazza Navona – centro storico – in origine casa popolare, oggi venduta a 20mila euro al metro quadrato. Un processo lungo, ma forse l’unico che potrà iniettare una giusta dose di equità alla tassazione sulla casa. Con inevitabili rincari per molti.
D’altra parte se un pregio ce l’ha, é aver detto chiaro che qualsiasi privilegio oggi c’é, domani chissà. Se ne stanno accorgendo i furbacchioni delle case fantasma, i proprietari di case abusive. Da due milioni di particelle individuate dal catasto con le foto dal cielo (il 30% tra Campania e Sicilia) emergeranno 500mila nuovi contribuenti. A quel punto i Comuni dovranno scegliere se tassarli, o punirli, radendo al suolo la casa con le ruspe. […]
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Da L’Espresso, 24 Febbraio 2011, sul caso Abu Omar. Da Wikileaks:
IL caso Abu Omar? Il governo Berlusconi é al lavoro per trovare una soluzione. La vicenda dell’Imam, rapito a Milano nel 2003 da una squadra della CIA e trasferito in Egitto per farlo interrogare dai servizi segreti di Mubarak, resta una spina nel fianco delle relazioni Italia-USA. Le indagini della procura di Milano hanno svelato il rapimento e portato alla condanna degli agenti statunitensi. E da Washington si sono mossi per cercare di ribaltare la sentenza in appello. Anzitutto hanno chiesto che al colonnello Joseph Romano, ex comandante della base di Aviano dove fu portato l’imam, venga applicato l’accordo Nato che riconosce la giurisdizione americana sui crimini commessi all’estero dai militari. Ignazio La Russa é stato in prima fila per sostenere questa domanda e- rivelano i cable di Wikileaks – “si é mosso attivamente per convincere il guardasigilli Alfano a scrivere una lettera ai giudici in sostegno dell’istanza”.
Una mossa considerata irrituale da molti esperti e che si é rivelata inutile. All’inizio del 2010 La Russa consiglia anche il suo omologo Robert Gates di far “intervenire direttamente l’amministrazione USA nel processo d’appello, anche per non lasciare isolati gli sforzi del governo italiano.”. Ma Gates gli replica che “non era stato fatto perché in passato ci avete detto il contrario”. Allo stesso tempo l’ambasciata teme che il pessimo clima tra Palazzo Chigi e i magistrati milanesi possa influire negativamente sul verdetto. Berlusconi e Gianni Letta però garantiscono che “il governo sta lavorando duro per la soluzione”. Silvio “predice che in appello la corte sarà in nostro favore, perché i magistrati di alto livello sono meno politicizzati”. Ma si tratta di una previsione sbagliata: le condanne sono state confermate. Ora la parola passa alla Cassazione.
Alfano é anche attivissimo, su input del Cavaliere e di Frattini, per rispondere a una delle priorità dell’amministrazione Obama: la chiusura di Guantanamo. L’Italia é il primo paese occidentale ad accettare i reclusi islamici catturati in Afghanistan e Iraq, rompendo il muro europeo sullo status giuridico dei terroristi-prigionieri di guerra. I due ministri vanno anche oltre le promesse iniziali, inventando escamotage per accogliere a Milano tunisini rinchiusi nel penitenziario di Bagram, alle porte di Kabul, senza un chiaro inquadramento legale. I primi due nomi proposti non hanno mai risieduto nel nostro paese ma sono coinvolti in procedimenti avviati a Milano. Gli americani suggeriscono la “formula albanese”, che ha permesso di esportare molte delle tute arancioni da Guantanamo a Tirana: saranno i prigionieri a chiedere di venire in Italia. E così é stato fatto. Ma dall’intenso carteggio sembra di capire che ci siano altre triangolazioni di detenuti maghrebini al vaglio del nostro esecutivo.
Sono anni che si spara nel mucchio della Politica, sui politici e le loro corruttele. E sull’ampio significato, al confine con la Filosofia , che essa assume. Sono anni che si costruisce una solida base sotto-culturale anti-politica. Non si dubita della veridicità di molte di queste storie di squallida corruzione ed abuso di potere. Forse di tutte. Ma chi alimenta, attraverso questo uso spregiudicato dei mezzi d’informazione di massa, il qualunquismo e il moralismo, 2 tipiche zavorre italiane? E com’é che, parallelamente all’impallinamento quotidiano della politica, abbiamo un ceto imprenditoriale produttivo o finanziario virtualmente intoccabile? E del quale non si sa alcunché?
Liberazione, 20 febbraio 2011, Roberto Farneti intervista Francesco Garibaldo sociologo industriale.
[…]Dalla Russia arrivano brutte notizie per la FIAT. La Sollers ha infatti deciso di accordarsi con l’americana Ford e di stracciare la lettera d’intenti per la creazione di una joint venture da 500mila automobili, sottoscritta lo scorso anno da Sergio Marchionne con la benedizione di Vladimir Putin. […]
[…]…non è la prima volta che una cosa del genere accade.[…]…è già successo in Cina, dove Fiat stenta a inserirsi e dove è saltata la joint venture con la Geely. Evidentemente in certi paesi le aziende hanno l’abitudine di aprire negoziati paralleli per poi scegliere la proposta ritenuta migliore.
[…]...non ha avuto successo nemmeno il tentativo di Marchionne di acquisire la Opel…
[…]…lo smacco subito dalla Fiat in Russia sia grave…[…] una delle possibilità per la Fiat di un consolidamento della sua attività è certamente quella di inserirsi nelle aree considerate in espansione dal punto di vista del mercato automobilistico, i famosi paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). A parte il Brasile, dove Fiat è ben posizionata, negli altri posti fa fatica. […]…dalle notizie che giungono dall’India, pare che anche la collaborazione con la Tata non goda di buona salute.[…] Dal punto di vista dei contenuti industriali, i prodotti al momento latitano; dal punto di vista del mercato, non si capisce come si concilia l’obiettivo del raddoppio della produzione in Italia con la significativa perdita di quote di mercato in Europa. Che é un mercato difficile, di sostituzione, dove l’innovazione e la qualità dei modelli sono decisivi.[…]
Gli uomini di Bossi sfruttano il momento d’oro: nel Milleproroghe infilano il rinvio delle multe sulle quote latte. Mentre Mondadori compra 6 impianti da Radio Padania.
L’Unità, 17/02/2011. Di Federica Fantozzi.
[…] …Mondadori fa affari con Radio Padania. L’Antitrust infatti ha dato via libera a due operazioni che coinvolgono Monradio, società del gruppo Mondadori proprietaria di Radio 101 e Radio Padania. In sostanza, Monradio acquista 6 impianti di trasmissione dalla controparte e ne cede uno alla radio leghista. Insomma, le camicie verdi fanno politica e business con lo stesso interlocutore che é a sua volta capo del governo nonché proprietario di un potente gruppo imprenditoriale.
Ma l’emendamento più clamoroso del decreto varato ieri dalla Camera, cioé la sospensione del pagamento delle multe sulle quote latte fino al 30 giugno 2011 per pochi produttori, suscita le ire di mezzo mondo: Confagricoltura, Cia, Fedagri, Coldiretti, Udc, Pd. E pazienza se i 5 milioni necessari verranno prelevati da un fondo misto che copre diversi interventi, tra cui l’assistenza e cura ai malati oncologici.
Del resto, non poteva essere altrimenti. L’ambiguità di Bossi é ormai una costante: un sibillino ondeggiare tra dichiarazioni di sostegno all’alleato sempre più scomodo (e inviso alla base sofferente) e ultimatum sui tempi del federalismo. La verità é che anche in territori padani é cominciata la lotta alla successione che si intreccia con il fine partita del berlusconismo. Ed ecco che l’opzione Maroni collide e confligge con la carta Tremonti alla guida di una compagine di unità nazionale. Nel marasma, a Berlusconi tocca accontentare tutti i desiderata di tutte le anime padane. Impresa non da poco, tantomeno a costo zero.
Il settore agricolo scende sul piede di guerra: è un pugno in faccia per i 40mila produttori che hanno aderito al programma di rateizzazione nel 2003, e sono dunque alla settima tranche. Una”prevaricazione” a favore di una minoranza, i pochi che hanno aderito nel 2010, che ha continuato a non rispettare la legge. Confagricoltura minaccia vendette al momento del prossimo voto…[…]
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