Il leghismo, attraverso le sue prese di posizione, giustificava le proprie pretese di secessionismo e federalismo fiscale. Analizzando meglio ciò che veniva e viene fatto e detto, è possibile capire quale gioco si stava e si stia giocando alle spalle di una sprovveduta (ma complice nell’esserlo) cittadinanza che, oltre a guardare un po’ di TV politicamente controllata dalla destra economica e interessarsi a far di conto per tirare il mese, null’altro esprime di serio.
Per prima cosa, è da notare che “il Nord” (o la Padania, secondo la vulgata maggioritaria fra i leghisti) non è un tutto uguale a se stesso e differenze molto sensibili ci possono essere tra regione e regione e città e città. Questo è tipico del nostro paese, dove le differenze contano ancora molto, a causa di una storica debolezza e di un ritardo della borghesia nazionale nell’unificare l’Italia.
Il primo esempio è quello di regioni quali la Valle d’Aosta, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige che dallo Stato hanno avuto, oltre ad uno statuto speciale, emolumenti veramente cospicui ed autonomia di gestione delle proprie risorse realmente amplissime in rapporto alle altre regioni del Nord. Non solo: l’intervento delle Partecipazioni Statali nella creazione e nel mantenimento di un tessuto industriale – ad esempio in Friuli-V.G. – in special modo dopo il secondo dopoguerra è stato fondamentale.
In secondo luogo, è bene ricordare che il fenomeno leghista ha un connotato chiaramente di classe: è la classe dei commercianti, dei piccoli e medi imprenditori concentrati soprattutto nel Nord del Paese, che non ha le grandi concessioni finanziarie e fiscali dello Stato (pur essendo privilegiata su di un piano prettamente pratico, sociale appunto) ad organizzarsi per sé nella prospettiva di svincolarsi dagli obblighi e adempimenti che allo Stato “centrale” (tanto per usare la terminologia leghista) si devono.
In una parola è la classe piccolo-borghese che si muove per tutelare i propri interessi di parte, riuscendo a portare con sé anche fette non trascurabili di classe lavoratrice che in questa difesa di una classe sociale a lei mediamente contrapposta e ostile dovrebbe convincersi che è una scelta buona e intelligente: è la solita vecchia storia del Quarto Stato (i lavoratori) che deve stare al seguito del Terzo Stato (la borghesia). Secondo questa storia, i lavoratori, non devono avere alcun ruolo autonomo.
I ceti piccolo-borghesi del Nord chiedono da molto tempo ormai di non pagare le tasse a Roma, ma che la partita di giro rimanga nei loro territori. Che il Sud rimanga pure da solo e abbandonato, privo di “aiuti” statali, perché il Nord non è più intenzionato a mandare i suoi soldi al Sud. Il Nord (secondo le “teste fini” nordiste) ha sempre mantenuto il Sud, il quale ha sperperato i soldi, li ha dati alla Mafia, li ha distribuiti alla corruttela politica e industriale, ecc..
Ma le cose stanno proprio così? E’ proprio vero che il Sud ha sempre sfruttato il Nord, facendo la parte del parassita ? E’ proprio vero che il Nord paga le tasse per tutti e non riceve in cambio niente?
Già dal punto di vista leghista ci sarebbe di che ridire. Intanto, alcune regioni del Nord ne perderebbero, quindi non si accoderebbero comunque all’ipotesi del “fai da te” fiscale ed amministrativo.
Poi, un ragionamento politico fondamentale: una delle basi della cittadinanza borghese moderna – vogliamo ricordare a questi signori – è che non vi può essere diritto di cittadinanza senza adempimento del dovere fiscale: come in tutti i paesi capitalistici contemporanei! Sciopero fiscale? Bene, in questo modo gli “scioperanti” non usufruiranno più dei servizi che il bistrattato Stato “romano” gli mette a disposizione! Inoltre, verrà loro tolto il diritto di voto. In sostanza: non volete questo Stato e allora uscitene….
Ma l’esistenza di esigenze così sfrontatamente piccolo-borghesi al Nord, o meglio di una classe piccolo-borghese che al Nord esce allo scoperto con argomentazioni prepotenti ed egoiste, ci porta a dover parlare – per forza – della “questione meridionale”.
Per analizzare in modo corretto e serio il problema posto dall’insorgenza di sedicenti movimenti di “indipendenza” o di “autonomismo fiscale”, bisogna affrontare in modo efficace la “questione meridionale”.
Ora, l’errore fondamentale di concezione e di cultura sulla società del Sud si fonda sulla viziata argomentazione di un sottosviluppo del capitalismo in generale e dell’industrialismo in particolare in quella macro-regione. L’errore sta nel pensare che l’essenza del capitalismo sia l’industrialismo, dal che ne discenderebbe che dove le industrie sono poche o mancanti non ci possa essere capitalismo (e agricoltura capitalistica) che è invece, prescindendo dal grado di industrializzazione, il sistema della produzione per il plusvalore utilizzando a tal fine tanto l’industria che l’agricoltura.
Il Sud prima dell’unità d’Italia. A metà del Settecento vediamo soppiantato il feudalesimo da una situazione obiettivamente capitalistica. Questa economia, pur essendo ancora arretrata e prevalentemente agricola, vede l’instaurazione di rapporti avanzati, anche se riferiti all’epoca in questione.
La terra da mezzo per produrre valori d’uso diviene mezzo per far danaro: si instaurano rapporti di natura monetaria che si concretizzano con gli investimenti nella terra che, dopo adeguata lavorazione mediante prestatori d’opera non possessori della medesima e retribuiti con un semplice salario, dà la possibilità di lauti profitti derivanti dalla rivendita a prezzi progressivamente crescenti dei suoi prodotti. In pari tempo si delinea il processo di concentrazione delle ricchezze.
L’equazione del capitalismo (D-M-D’) e cioè l’investimento per il profitto si realizzava divenendo il fulcro dei nuovi rapporti di produzione. Alle tre categorie economiche del capitalismo agrario (rendita-profitto-salario) corrispondono le tre classi dell’agricoltura meridionale dell’epoca: quella del nobile (proprietario), del neo-borghese (affittuario-imprenditore), del bracciante o proletario agricolo (salariato).
Il fenomeno dell’urbanesimo poi contribuisce ad incrementare il processo di mercantilizzazione dell’economia (data la crescita della quota di produzione che va al mercato cittadino) e di aumento, in termini assoluti, della produttività del lavoro agricolo. Questi rapporti di produzione, già chiaramente capitalistici, si diffondono ulteriormente con l’occupazione napoleonica nel meridione continentale e inglese in Sicilia. I programmi della Francia sono i seguenti: integrare il Sud in uno spazio economico da essa, produttrice di manufatti, dominato; relegare il Sud in stato di colonia, come produttore di generi agricoli in grado di soddisfare le esigenze della città (nella madre-patria). Divisione del lavoro dunque tra paesi produttori di manufatti e paesi produttori di derrate agricole, con preminenza dei primi e sfruttamento coloniale dei secondi. A questo fine i francesi varano una serie di riforme giuridico-amministrative funzionali al mercato e al profitto che danno il colpo di grazia al già morente sistema feudale. Similarmente anche l’occupazione inglese in Sicilia determina lo sviluppo del capitalismo in agricoltura.
L’Inghilterra infatti invade di manufatti a basso prezzo l’isola che è costretta ad investire quasi soprattutto nell’agricoltura. Anche in questo caso, parallelamente, verrà sanzionato a livello formale e giuridico il processo economico in atto: nel 1810 verranno eliminate le esenzioni fiscali a vantaggio della feudalità e nel 1812 viene sciolta la stessa feudalità e concessa la Costituzione. Riassumendo, il Meridione era già passato a rapporti capitalistici di produzione superando anche in agricoltura il principio della riproduzione semplice e dell’autoconsumo, operando secondo i principi di una continua espansione economica. Il ritorno dei Borboni attira come le api al miele il capitale straniero.
La caduta dei prezzi agricoli contemporanea agli alti dazi permettono alti profitti per alti investimenti, essendo aumentato il potere d’acquisto del proletariato che poteva così vivere con un salario assai misero. I bassi salari, implicando bassi costi di produzione, permettono la politica del potenziamento del settore industriale, con una crescita dell’accumulazione. Le barriere doganali rendono possibili prezzi eccezionalmente alti dei manufatti in contrapposizione ai bassi prezzi dell’agricoltura: si instaura così la dialettica dello scambio ineguale tra città e campagna, in cui la campagna è sfruttata a vantaggio della prima, perché lo sviluppo industriale ha la preminenza su quello agricolo. Crescono e si moltiplicano le compagnie commerciali d’investimento che in soli due anni (1831-33) passeranno da 1 a 6 milioni di ducati di capitale. Si ramifica il sistema bancario che distrugge il fenomeno della tesaurizzazione. La circolazione di monete d’oro e d’argento era di lire 88 contro le 40-45 del resto dell’Italia e d’Europa.
Nord e Sud al momento dell’unità: dati comparativi.
Agricoltura. I dati seguenti sono approssimati e generici, ma ci servono per dare un’idea della situazione dell’agricoltura meridionale nei confronti di quella settentrionale. Le provincie dell’ex regno borbonico producono quasi la metà dei cereali e dei legumi, la metà delle patate, il 60% dell’olio, il 20% del vino e dei bozzoli di seta, la totalità degli agrumi e del cotone.
Anche per la produzione del tabacco e della frutta il Sud è in testa. Viene distanziato dal Nord per i bovini (ne ha quasi il 90%) ma ritorna in testa per gli ovini e i caprini (più del 50%), per gli equini (60%) e per i suini (55%). Il Nord ha la totalità della produzione di riso. Come si può notare, a parte qualche settore in disavanzo rispetto al Nord, il Sud è tutt’altro che staccato.
Anche per ciò che concerne la produttività della terra i dati ci dicono ad esempio che il Meridione col 43,5% della superficie nazionale coltivata a cereali (la metà circa del terreno produttivo del Sud) , ha il 47,7% della produzione; col 32,4% dei castagneti ha il 36,5% della produzione. La popolazione attiva, e ciò è molto importante, era al Sud il 63% del totale (media italiana 57,4%), ma solo il 56,6% di essa lavorava in agricoltura contro il 59,7% della media nazionale. Da ciò risulta evidente il carattere mercantile, concorrenziale e dinamico dell’agricoltura nel Sud e che il divario tra Nord e Sud non poteva essere realmente preso in considerazione. Industria: anche qui i dati sono frammentari ed incompleti, ma è comunque possibile ricavarne un quadro complessivo attendibile.
Il solo dato globale è quello del censimento del 1861: il Sud aveva in quell’anno il 51% di tutti gli operai impiegati nell’industria italiana. Il che contrasta con la visione di un Sud preindustriale o addirittura feudale. Nel campo della seta il Nord aveva un netto vantaggio, ma più per la estensione della produzione che per il livello tecnologico: le imprese del Nord erano disperse, arretrate e poco meccanizzate, mentre esisteva al Sud l’opificio di S. Leucio conosciuto in tutta Europa e la cui produzione veniva largamente esportata. Nel campo cotoniero il dato è indicativo: al Nord la Lombardia produce 16 milioni di metri di tessuto complessivamente; al Sud la Campania coi soli stabilimenti meccanici, minoritari rispetto alla diffusissima lavorazione a domicilio, ne produce 13 milioni (il più grosso opificio lombardo, la Filatura Ponti, nel 1848 aveva 414 operai contro i 1300 della Egg di Piedimonte).
Nel settore laniero il Nord aveva un leggero margine di vantaggio in quanto industria un po’ più estesa quantitativamente ma meno concentrata qualitativamente. Il settore cantieristico vede invece il Sud in vantaggio: nei due soli grandi cantieri del golfo di Napoli lavorano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta Italia. A Castellamare ci si organizza per la lavorazione di scafi in ferro mentre Napoli diventa il maggior centro italiano per la produzione di macchine e motori marini. L’arsenale-cantiere di Napoli impiega 1600 operai (a Castellamare 1800) ed è l’unico ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75 metri (la flotta napoletana e siciliana ricopriva i 4/5 del naviglio in tonnellaggio dell’intera flotta italiana e possedeva 20 piroscafi a vapore).
Le cartiere erano fiorentissime e registravano una espansione e una capacità produttiva a livello europeo. Per ciò che riguarda la siderurgia il Sud impiegava 20 mila operai: 4000 in meno rispetto al Nord. Ma il confronto è senz’altro favorevole al Sud per il maggior grado di concentrazione ed il miglior livello tecnico delle sue aziende (solo l’Ansaldo di Genova era a livello di grande industria ma aveva 480 operai contro i 1000 di Pietrarsa a cui si accostavano la Zino ed Henry con 600 operai e la Guppy con altrettanti operai e ad altissimo, riferito all’epoca, contenuto tecnologico). Inoltre due delle tre fabbriche italiane per fabbricare locomotive erano al Sud. Per le industrie estrattive lo zolfo siciliano copriva il 90% della produzione mondiale (prima metà dell’800) e assorbiva 1/3 degli operai del settore.
Il Sud dopo l’unità.
Il delinearsi della questione meridionale è il risultato di una selvaggia politica di accentramento portata avanti dallo stato unitario ai danni dell’economia del Sud. La borghesia del Nord, politicamente unita, è identificabile con le forze che mossero alla realizzazione dell’unità d’Italia tanto da costituire un blocco politico-economico in grado di muovere gli interventi del nuovo potere nella direzione voluta e, quindi, a proprio esclusivo vantaggio. Un altro fatto che contribuisce a rendere meno importante il Sud è la sua posizione geografica. Mentre il Nord è in prossimità delle aree dell’Europa maggiormente sviluppate, e le può raggiungere con una certa facilità nei suoi interscambi commerciali, il Sud per la sua posizione è certamente svantaggiato. Vediamo i principali interventi dello stato unitario nel realizzare lo sfruttamento del Meridione in funzione di una accelerata accumulazione al Nord.
1)La politica fiscale. Lo Stato persegue la politica fiscale con l’obiettivo di drenare capitali da Sud a Nord. La pressione fiscale, già notevole sotto i Borboni, sotto i Piemontesi si accentua in modo sperequato rispetto al Nord. Mentre prima dell’unità si pagavano 50 milioni di imposta fondiaria, se ne pagheranno 70 nel 1866 contro i 52 del Centro e del Nord uniti. La differenza è più evidente se si considerano i tassi di incidenza per ettaro: nelle provincie di Napoli e Caserta si pagavano lire 9,6 per ettaro contro una media nazionale di 3,33 e una media in Toscana, regione fertilissima, di 2,33 per ettaro.
2)La spesa pubblica. Essa viene concentrata al Nord così come avviene per quasi tutte le opere pubbliche: per le spese di opere idrauliche in campagna la media pro-capite fu di lire 0,39 per abitante nel Mezzogiorno continentale, di lire 0,37 in Sicilia contro una media nazionale di lire 19,71. Anche le scuole si distribuiscono in modo estremamente sperequato; vengono incrementati i disagi nei trasporti, settore in cui il Sud partiva già svantaggiato, diventando così costosissimo far circolare le merci con conseguenti ristagni dei mercati locali. Riassumendo, lo Stato dava al Sud la terza o la quarta parte di quel che dava al Nord e ciò avveniva concentrando capitali nell’alta Italia dove si concentravano anche gli uffici statali. Questa diseguaglianza si rifletteva anche sulla situazione politica: il solo Piemonte ebbe fino al 1898 ben 41 ministri nei vari gabinetti contro 47 dell’intero Meridione.
Il sistema bancario.
Era la forza del Banco di Napoli a preoccupare i banchieri del Nord e la stessa Nazionale che decisero di strozzarlo e di ridurlo ad un semplice monte dei pegni. Non riuscendo a portare a termine questi piani con le maniere del “savoir-faire” borghese (la concorrenza) si passa alle maniere forti: si vieta o si ritarda l’apertura al Nord delle filiali del banco il cui ampliarsi e l’estendersi delle proprie zone d’intervento diventa vitale, nel contempo che si dà inizio alla politica di drenaggio delle sue riserve auree che appare come tentativo di privare il Sud del suo oro e delle sue capacità di credito.
Il gioco era semplice e si realizzava con l’intervento delle numerose filiali che la Nazionale aveva aperto al Sud le quali vendevano ai risparmiatori i titoli del debito pubblico ottenendo i risultati di ampliare la quantità di debito pubblico gravante sul Sud, di succhiare moneta del banco con ovvi danni alla sua politica di espansione, e di indebolire la struttura del Meridione mediante la strozzatura del suo credito.
Anche l’industria viene attaccata con la strozzatura delle commesse e conseguente chiusura di stabilimenti, lenta decadenza degli arsenali e dei cantieri, abbassamento dei dazi protettivi, sistematica politica di rapina e di sfruttamento. Il provvedimento protezionistico del 1887, preso per non essere schiacciati dalla concorrenza internazionale, colpisce Nord e Sud in maniera diversa proprio perché il Sud era indirizzato verso le colture d’importazione. Si trova perciò costretto a comprare manufatti industriali al Nord a prezzi di monopolio, assoggettandosi alle leggi di uno scambio ineguale.
Avviene pertanto una vera e propria fuga di capitali verso il Nord che confluiscono inevitabilmente verso i settori industriali più avanzati. Riassumendo, al Sud spettavano, nel disegno della borghesia unitaria, questi principali compiti: fornire capitali al Nord; fornire mano d’opera a basso prezzo; fornire prodotti agricoli contro i manufatti del Nord che si scambiano in ragione diseguale.
Il Mezzogiorno durante il fascismo.
Nonostante il fascismo ne negasse l’esistenza, il divario tra Nord e Sud si accrebbe anche durante il suo dominio. Esso si “prenderà cura” delle sorti del Sud intervenendo sulle già misere condizioni delle classi rurali. Fu abolito il regime di proroga dei contratti agrari e i concedenti avevano libero agio di sfrattare fittavoli e coloni insolventi e di fissare i canoni locatizi in base alla contrattazione individuale. Furono così cacciati dalle terre incolte i contadini che l’avevano dissodate e bonificate a prezzo di duri sacrifici (decreto Visocchi) mentre nel 1934 la corporazione dell’agricoltura proponeva l’impiego delle compartecipazioni (restrizione della sfera salariale e ampliamento di quella in compenso in natura).
Si teorizzò per questa via la de-proletarizzazione che nient’altro fu se non altro la espansione di un arcaico contratto in cui rimaneva identica la condizione proletaria del lavoratore. Si conobbe l’usura e furono diminuiti i salari al di sotto dei limiti imposti dagli stessi sindacati neri. Il Sud approfondiva la sua esperienza di zona destinata artificiosamente (ma funzionalmente alla logica del profitto) al sottosviluppo.
Il Sud dopo il crollo del fascismo.
La riforma agraria nel 1950-56 fu la risposta al malcontento nelle campagne (vedi occupazioni delle terre); essa pur attaccando il latifondo, favorendo l’investimento nelle campagne e la trasformazione in senso capitalistico delle aziende tradizionali, obbedì a puri criteri di deperimento. Le piccole aziende all’uopo create divennero riserve di manodopera sottoccupata da cui attingere forza-lavoro per il Nord. Il primo (1961) e il secondo (1966) Piano verde obbedirono alla medesima logica e favorirono un processo di concentrazione esasperato col cosiddetto boom economico che evacua le campagne dalla presenza operante e non della manodopera (vedi emigrazione).
Il problema degli investimenti statali al Sud.
Nella pubblicistica corrente in generale e in quella dei Leghisti in particolare vi è un continuo richiamo al fatto che il Sud “mangia i soldi dello Stato” e che la Cassa del Mezzogiorno è stato soltanto un veicolo di corruzione e di “inutile sperpero di danaro pubblico”.
Si sostiene inoltre razzisticamente che è il Nord ad aver pagato la corruzione e i soldi inutilmente mandati nel Meridione. Basterebbero le analisi più sopra esposte a contraddire i “signori del Nord” (chiamiamoli più correttamente i bottegai del Nord) ma vogliamo ricordare che gli investimenti statali al Sud, pur avendo raggiunto plafond massimi, sono di gran lunga meno consistenti di quelli operanti al Nord. Ciò non a caso: la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instaura tra due realtà estranee o anche solo genericamente collegate, ma presuppone uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è congeniale.
Se guardiamo le statistiche dell’Istat ci rendiamo conto che il 70% dei titoli di Stato in mano alle famiglie affluisce al Nord del paese. Il 70% dei rentiers, cioè dei titolari della rendita vivono al Nord! Se qualcuno vuole secedere lo faccia: così perde anche gli interessi di mamma-stato. Le regioni del Nord sono le più avvantaggiate anche nelle prestazioni sociali (pensioni, sanità, sostegni familiari, ecc.). L’Istat ci dice anche altre cose:
1-Tasso di disoccupazione. Se lo scomponiamo su base territoriale, la zona con meno disoccupazione è il Nord-Est. In mezzo il Nord-Ovest e il Centro. Il vertice nel Sud e nelle Isole.
2-Tasso di attività. E’ la percentuale di persone in età di lavoro che hanno o cercano un’occupazione. I dati più recenti parlano di un 69-70.8% nelle regioni più avanzate del Nord, a fronte di un 39,6-41,4% in quelle più svantaggiate del Sud. Nelle rilevazioni del 1995 i dati invece erano: 43,4% del meridione a fronte del 50,9% del Nord-Est. Quindi la situazione non è assolutamente migliorata, tutt’altro. Se guardiamo, invece ai dati sulla occupazione/disoccupazione femminile, i più recenti ci dicono che passiamo da un 57,9-63,2% al Nord ad un 21,2-24,4% al Sud. Tasso di disoccupazione giovanile. Si passa da un valore minimo al Nord-Est ad un massimo al Sud.
Inoltre, cosa questa molto interessante, a chi sostiene (Partiti, Confindustria, Banca d’Italia, Svimez) la necessità di garantire un surplus di competitività (per esempio ripristinando le gabbie salariali) per colmare il deficit rispetto al resto d’Italia, la realtà dà una risposta molto chiara e secca. La lettura dei dati dell’Istat conferma che, da un punto di vista del costo del lavoro, la convenienza ad investire al Sud già c’è e non c’é bisogno di crearla. I dati sui profitti dell’industria manifatturiera, dimostrano infatti che basse qualifiche, e dunque bassi salari, e incentivi pubblici già compensano ampiamente il divario di produttività tra imprese del Nord e del Sud. Nelle aziende da 20 a 49 dipendenti, ad esempio, la quota di profitto sul valore aggiunto è intorno al 37,9% su tutto il territorio nazionale, contro il 41,3% del Mezzogiorno. Una proporzione, questa, che si ripete qualunque sia la dimensione dell’impresa presa in esame.
Il basso contenuto professionale del lavoro meridionale viene confermato dai dati sul destino dei laureati. In questo caso, l’Istat è andata a vedere che fine hanno fatto, i giovani usciti dall’università tre anni prima. Se nel Nord-Ovest il rapporto tra chi lavora stabilmente e chi ancora cerca un’occupazione è all’incirca di 5 a 1 (nel Nord-Est, a dimostrazione del più basso contenuto tecnologico delle imprese venete, è leggermente più basso), nel meridione il dato quasi si ribalta e i laureati ancora in cerca di lavoro superano nettamente quelli con un posto stabile.
Il divario tra Nord e Sud non miete vittime solo nel mondo del lavoro ma anche tra chi nel meridione ci vive. Come scrivono i ricercatori dell’Istat, sovraffollamento delle abitazioni, problematicità delle telecomunicazioni, irregolarità nell’erogazione dell’acqua, cattive condizioni delle abitazioni, difficoltà nell’accesso ad alcuni servizi di pubblica utilità, rappresentano alcuni degli indicatori di disagio più diffusi nelle regioni meridionali. E sostanziano l’affermazione per cui “nelle regioni meridionali, per i principali servizi, si mantengono livelli di insoddisfazione più elevati rispetto al resto del paese”.
I dati economici.
Vedi Problema economico del Mezzogiorno, Movimenti migratori e Cassa del Mezzogiorno (Garzanti).
L’Istat nel suo rapporto annuale riferito al ’95 parla chiaro: “Il 70% dei titoli di Stato in mano alle famiglie affluisce al Nord del paese”. Il 70% dei rentiers, cioè dei titolari della rendita vivono al Nord! Secedano pure, così perdono anche gli interessi di mamma-stato. Le regioni del Nord sono le più avvantaggiate anche nelle prestazioni sociali (pensioni, sanità, sostegni familiari, ecc.): vedere a questo proposito la Tabella 1 e la Tabella 2. L’Istat ci dice anche altre cose:
1-Tasso di disoccupazione. In Italia è assestato al 12%. Scomposto su base territoriale, il dato oscilla tra il
5,9% del Nord-Est e il 21,1% del Sud. In mezzo il Nord-Ovest col 7,4% e il Centro col 10,3%.
2-Tasso di attività. E’ la percentuale di persone in età di lavoro che hanno o cercano un’occupazione. Il
43,4% del meridione a fronte del 50,9% del Nord-Est indica quanto sia bassa al Sud la speranza di trovare
lavoro: al punto che molti, soprattutto tra i più giovani, rinunciano addirittura a cercarlo.
3-Tasso di disoccupazione giovanile. 15,4% nel Nord-Est, 22,4% nel Nord-Ovest, 34% al Centro e 55,3% al
Sud.
Inoltre, cosa questa molto interessante, a chi sostiene (Partiti, Confindustria, Banca d’Italia, Svimez) la necessità di garantire un surplus di competitività (per esempio ripristinando le gabbie salariali) per colmare il deficit rispetto al resto d’Italia, la realtà dà una risposta molto chiara e secca. La lettura dei dati dell’Istat conferma che, da un punto di vista del costo del lavoro, la convenienza ad investire al Sud già c’è e non c’é bisogno di crearla. I dati, relativi al 1993, sui profitti dell’industria manifatturiera, dimostrano infatti che basse qualifiche, e dunque bassi salari, e incentivi pubblici già compensano ampiamente il divario di produttività tra imprese del Nord e del Sud. Nelle aziende da 20 a 49 dipendenti, ad esempio, la quota di profitto sul valore aggiunto è del 37,9% su tutto il territorio nazionale, contro il 41,3% del Mezzogiorno. Una proporzione, questa, che si ripete qualunque sia la dimensione dell’impresa presa in esame.
Il basso contenuto professionale del lavoro meridionale viene confermato dai dati sul destino dei laureati. In questo caso, l’Istat è andata a vedere che fine hanno fatto, nel ’95, i giovani usciti dall’università tre anni prima. Se nel Nord-Ovest il rapporto tra chi lavora stabilmente e chi ancora cerca un’occupazione è all’incirca di 5 a 1 (nel Nord-Est, a dimostrazione del più basso contenuto tecnologico delle imprese venete, è leggermente più basso), nel meridione il dato quasi si ribalta e i laureati ancora in cerca di lavoro superano nettamente quelli con un posto stabile.
Il divario tra Nord e Sud non miete vittime solo nel mondo del lavoro ma anche tra chi nel meridione ci vive. Come scrivono i ricercatori dell’Istat, sovraffollamento delle abitazioni, problematicità delle telecomunicazioni, irregolarità nell’erogazione dell’acqua, cattive condizioni delle abitazioni, difficoltà nell’accesso ad alcuni servizi di pubblica utilità, rappresentano alcuni degli indicatori di disagio più diffusi nelle regioni meridionali. E sostanziano l’affermazione per cui “nelle regioni meridionali, per i principali servizi, si mantengono livelli di insoddisfazione più elevati rispetto al resto del paese”.
Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero del Bilancio
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