Il libro ha un’Introduzione, Gli animali non esistono e sette capitoli. I capitoli sono così delineati: 1) L’animale è mancante 2) La macchina antropologica 3) Rabbia e nostalgia 4) Farsi vedere 5) Divenire-umano 6) Divenire-animale 7) Figure dell’animalità.
Cimatti ricorda, già dall’Introduzione, come suo intento sia quello di immaginare una individualità umana non basata sull’”io” e in questo non solo la questione dell’animalità, ma la forma ontologica dell’animalità stessa, torna utile come comparazione con ciò che siamo (e siamo sempre stati), innanzitutto e come tendenziale percorso di “trasformazione”. Certo, Cimatti non pretende sicuramente di cambiare il mondo[1], un mondo dalle contraddizioni esplosive, intende solo porre l’accento sulle problematiche poste dal nostro (sostanziale) egocentrismo, potenzialmente distruttivo a iniziare dall’ambiente che ci circonda, di cui i rapporti sociali sono parte non solo integrante, ma causale.
Cimatti, infatti, punta la sua attenzione proprio su questo nostro “io” mai soddisfatto, alla continua ricerca di un “di più”, a volte nemmeno chiaro a se stesso. Un “io” che fagocita tutto, un “io” che vuole sempre di più, certo sotto la sempiterna rubrica del miglioramento e del progresso che sembra, comunque, una giustificazione ad agire in libertà, anzi, in assenza di vincoli. Un modo di agire senza prendere in reale considerazione ciò che ci circonda nella realtà, se non per trarne utile. Si pone allora la questione, al tempo stesso, del soggetto esterno al proprio corpo, che ordina, controlla il corpo e che ci offre il dubbio, se non la certezza, del non superamento della dualità cartesiana.
L’animale, al contrario, non impatta in questa maniera sul mondo, non lo trasforma come lo facciamo noi, almeno alla nostra scala. L’animale “sta dov’è” non gli manca nulla, non vuole “migliorarsi”, non ne sente il bisogno, è completo così com’è, in pace con se stesso. E soprattutto l’animale non ha il linguaggio umano, anche se possiede un linguaggio in grado di creare un’interazione proficua con l’ambiente in cui vive. Questo impatto “morbido” dell’animale fa la differenza con quello dell’essere umano e dovrebbe essere almeno di riferimento per una modifica del nostro comportamento nel mondo. Non è dato sapere, poiché Cimatti non si azzarda a trarre delle conclusioni politiche o a dare ulteriori indicazioni pratiche, come dovremmo agire per, appunto, depotenziare quel fondo distruttivo e in ultima analisi nichilista che ci contraddistingue. Qualche indicazione filosofica c’è, comunque, nella parte finale del testo, al capitolo VII, dove si parla delle Figure dell’animalità, Il santo, Il corpo, L’artista, alla cui elaborazione particolare rimando specificamente.
Ora alcune specifiche “tecniche”. In Cimatti lo stordimento è restituito come assorbimento. Cimatti su Heidegger è sulla stessa linea di Derrida. Entrambi sembrano orientati a un pensiero animalista. Per Cimatti, inoltre, l’uomo invidia gli animali. Vita umana: nel segno della trascendenza. Vita animale: nel segno dell’immanenza. La dimensione animale va ricercata in un oltre-uomo, una dimensione priva di divenire. Solo dove il linguaggio si arresta può comparire il corpo. Nel linguaggio però il simbolo è presente e assente.
Interessante, infine, la lista di citazioni e autori richiamati nel testo: Derrida, Von Uexküll, Heidegger, Kant, Freud, Lacan, Hegel, Aristotele, Deleuze, Guattari, solo per citarne alcuni.
[1] Anche se risultano presenti idee di emendamento, riconversione, rivisitazione del nostro modello di sviluppo e di vita, anche quotidiana.