di Sergio Mauri
Indice.
L’infinito come desiderio, il desiderio come infinito.
Qual è l’aspetto filosofico dell’opera leopardiana? Esiste un parallelo interpretativo tra Leopardi e Schopenhauer, entrambi intellettuali pessimisti, e quali sono gli agganci compatibili dei rispettivi pensieri? Leopardi era un pessimista? Quanto del suo pessimismo era dovuto alla sua condizione psico-fisica? Il suo pessimismo era una compiuta dichiarazione d’intenti anche e soprattutto politica?
Perché allora abbandonò la visione tradizionalista dei genitori per abbracciare gli ideali di progresso? Egli non fu semplicemente un pessimista, ma esercitando il pessimismo della ragione, intendeva lottare contro l’esistente – pur conoscendone la forza soverchiante – e con esso cimentarsi vivendo la vertigine romantica della lotta per la sconfitta.
Biografia.
Nasce nel 1798 a Recanati da una famiglia appartenente alla nobiltà dello Stato Pontificio. Muore nel 1837 a Napoli.
Leopardi soffriva di tubercolosi ossea e psicosi maniaco depressiva. I genitori erano cugini e forse ciò influì sul manifestarsi della sua malattia.
Fu Pietro Giordani a favorire l’allontanamento di Giacomo dalle idee reazionarie del padre e a rendere possibile l’avvicinamento alle idee illuministiche e alla tradizione classicista.
Il contesto è quello della Restaurazione: fede in Gesù Cristo e obbedienza al sovrano legittimo.
Dopo il primo tentativo di fuga da Recanati si allontana dalla religione e si avvicina alla filosofia materialistica.
Dopo il trasferimento a Roma in cui viene deluso dall’ambiente letterario, il suo pessimismo diventa cosmico.
Il pensiero.
Leopardi è un intellettuale dal pensiero forte. Deriva dalla linea di Dante immerso nella vita sociale e politica del suo tempo, Campanella, Bruno, Telesio, dell’umanesimo tragico (Alberti, Valla[1]), Machiavelli. Egli dipinge il mondo per come è.
Leopardi: “Gesù quando dice il mondo intende che cosa? Tutto ciò che lotta contro il bene. Il secolo”.
Dire il vero, dal latino verus, cioè reale.
La linea di pensiero Machiavelli-Leopardi è antiidealistica, antiastratta e critica. Senza la critica ci si adatta all’esistente. Il pensiero c’è per criticare, non per adattarsi.
Leopardi non è un semplice pessimista. Egli ritiene che tutti noi abbiamo la capacità di pensare qualcosa che non sia solo la rappresentazione dolorosa del vero. Possiamo pensare all’infinito. Il mondo è il mondo del finito, del confinato, inteso nella relazione con l’altro. Ma nel pensiero Leopardi immagina l’infinito, dimostrando così la nobiltà d’animo che abbiamo tutti noi. Siamo tutti prigionieri di passioni, di affetti che ci rendono nemici gli uni agli altri. Ma la nostra anima non si ferma al finito, può andare oltre, perché l’immaginazione non è fantasia. Il nostro mondo riduce tutto al finito misurabile, calcolabile. Leopardi non si arrende a tutto ciò, ma non in termini sentimentali e dice che la nobiltà d’animo si mostra immergendosi nell’infinito.
Il contrasto tra finito ed infinito potrebbe declinarsi solo in termini teoretici, ma Leopardi ne fa poesia. Il nostro mondo è nichilista e Leopardi lo denuncia.
La poesia è pensiero, è affettività del pensiero. Per Leopardi la natura gioca a dadi, non è razionalistica.
La natura a noi inafferrabile dovrebbe spingerci (La Ginestra) a venerarci. Il sapere dovrebbe spingerci ad essere amici, comunità, ognuno importante per l’altro.
Mentre Spinoza ci dice che la conoscenza è felicità, Leopardi al contrario ci dice che la conoscenza è infelicità e dovrebbe semmai portarci all’amicizia.
La natura è matrigna fino ad un certo punto, ci spinge ad essere amici proprio perché non è madre benevola. È possibile?
Le coppie sono: possibile <—> impossibile , finito <—> infinito.
Leopardi, al contrario di Hobbes, pensa che sì, noi viviamo il finito, il possibile, ma non dimentica che possiamo tendere all’infinito, all’impossibile. Leopardi non si adatta.
Dallo Zibaldone di pensieri: “La vita resta assai povera e limitata; quando si è capaci di vedere solo ciò che è. Sono le illusioni ad arricchire gli oggetti reali.”
Dallo Zibaldone: “Gl’italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni.” Mentre poche righe prima aveva affermato che anche la vita domestica, anche i nostri sentimenti personali prendono forma dallo stato generale delle cose (il famoso motto: “Il privato è politico” del ’68).
L’originalità del discorso di Leopardi sta nel mettere insieme l’idea di una ultramodernità italiana, dell’idea dell’Italia come laboratorio dell’individualismo estremo che, a differenza di altri Stati europei impedisce il formarsi di uno Stato. Tutto ciò è ancora abbastanza attuale perché non siamo mai stati e non siamo riusciti ad essere un popolo unito. Quando abbiamo cercato di esserlo è stato peggio per noi (vedi il mito della dittatura che doveva formare un popolo dal niente, mitologicamente). Le tendenze anarco-individualiste sono forti.
Per Leopardi mancava una società coesa, cioè l’amor di patria. Oggi potremmo definirla come mancanza di senso dello Stato.
Sempre dallo Zibaldone: “L’abuso e la disobbedienza alla legge non possono essere impediti da nessuna legge”.
Da La Ginestra: “Qui su l’arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo la qual null’altro allegra arbor né fiore tuoi cespi solitari spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti. A queste piagge venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso e vegga dipinte in queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”.
Il pessimismo storico è espresso nel “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica” (1818). qui la poesia è vista come ritorno alla vitalità della natura antica .
La poetica e lo stile.
L’originalità di Leopardi nasce dalla coloritura romantica che egli conferisce ad una certezza materialistica: il moto inesausto delle cose, che cancella infanzia e giovinezza, affetti, bellezza, gloria, virtù, poesia e ogni più alto valore. L’uomo, alla scoperta di questa amara verità, chiude vilmente gli occhi e si adatta per convenienza alla tranquilla mediocrità del quotidiano. In alternativa può guardare fisso il desolato nulla che gli si presenta dinanzi, vivendo fino in fondo la propria infelicità.
Questo romantico stare nella disperazione non è una condizione statica e monocorde, ma presuppone un complesso processo psicologico tra le ragioni del cuore da una parte e riconoscere la loro caducità ed infondatezza dall’altra. Il tutto in un costante moto pendolare in cui una condizione non elimina l’altra.
Leopardi accoglie del Romanticismo la proposta lirica non imitando, ma cantando i tristi e cari moti del cuore non smarrendo la componente concettuale.
Egli si distacca dalle forme metriche chiuse, usa l’endecasillabo sciolto o usa lo schema della canzone petrarchesca con grande libertà fino a trasformarlo in un recitativo di endecasillabi e settenari alternantisi. Modifica la tradizione classica dall’interno.
Schopenhauer e Leopardi di Francesco De Sanctis.
Francesco De Sanctis, intellettuale, letterato e critico letterario tra i maggiori dell’800 italiano, da giovanissimo ebbe la fortuna di conoscere Leopardi alla scuola di Basilio Puoti[2], a Napoli. De Sanctis concepisce l’idea di collegare Schopenhauer e Leopardi e scrive Schopenhauer e Leopardi ed altri saggi leopardiani nel 1858. Schopenhauer e Leopardi sono in qualche modo contemporanei: il primo nasce a Danzica nel 1788 e muore nel 1860; il secondo nasce nel 1798 a Recanati e muore nel 1837 a Napoli. Da questi dati capiamo che la parabola esistenziale di Leopardi è molto più breve.
Leopardi non ha conosciuto le opere di Schopenhauer mentre quest’ultimo ha letto attentamente Leopardi. L’influenza c’è stata, ma a senso unico, da Leopardi verso Schopenhauer.
Entrambi, con accenti diversi, esprimono un pessimismo romantico. Vivono entrambi nel periodo della Restaurazione in cui sono svanite le speranze emancipative della Rivoluzione Francese e il mondo culturale europeo cade in una fase di ripensamento. Entrambi gli intellettuali sono pessimisti, ma Schopenhauer approda ad una visione solipsistica[3] e irrazionalistica; Leopardi, invece, lascia aperte le prospettive di una solidarietà e di una ripresa di illusioni collettive. Sono entrambi pessimisti, ma con una forte divergenza.
Schopenhauer è il filosofo del pessimismo, Leopardi è il poeta. Schopenhauer è antidealistico e razionalistico e per lui il più grande filosofo è stato Kant. Il capolavoro schopenhaueriano è Il mondo come volontà e rappresentazione, in cui egli sostiene che il mondo come rappresentazione, come fenomeno da noi percepito è il mondo kantiano. Sostanzialmente quando noi entriamo in contatto con la realtà la trasformiamo, quindi il mondo è rappresentazione, apparenza. Per Schopenhauer questa trasformazione avviene, con una semplificazione rispetto a Kant, con le “categorie a priori” di spazio, tempo e causalità.
Il mondo come volontà è la parte originale del lavoro di Schopenhauer. In essa Schopenhauer afferma che noi siamo prigionieri del fenomeno (Kant) e non possiamo raggiungere la cosa in sé. Qui Schopenhauer prende le distanze da Kant perché quest’ultimo ha parlato solo del cervello ignorando il corpo che per Kant è un oggetto fra altri oggetti.
Per Schopenhauer invece il corpo è il filo d’Arianna che ci porta alla comprensione del mondo perché attraverso un atto di introversione in sé stessi, mettendosi in ascolto della propria corporeità troviamo solo la cieca volontà di autoperpetuazione, una cieca volontà di vivere. Quindi quest’ultima è la cosa che si annida in tutte le altre cose. Perciò, il mistero della realtà è la volontà di vivere.
Secondo Schopenhauer la vita si manifesta come un pendolo di dolore e noia.
Questo pendolo ha una rispondenza nella poesia di Leopardi A se stesso del 1833, dove a dolore e noia si sostituiscono amaro e noia.
La visione dei due, quindi, nei primi anni Trenta coincide: la natura strumentalizza gli individui e non ha nessuna direzione o finalità.
De Sanctis attira l’attenzione sul dialogo Della natura e di un islandese (Operette morali, 1824). Un islandese si mette in cammino alla ricerca di un essere umano soddisfatto delle condizioni in cui vive al contrario dell’islandese stesso che vive nelle intemperie. Il suo viaggio termina all’equatore dove incontra la natura (una donna appoggiata ad un albero) e le chiede il senso dell’esistenza:
“Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa. “
Righe di sottile ironia che danno il senso della visione leopardiana.
Per Schopenhauer, tuttavia, il pendolo è molto più angusto di quello di Leopardi. Il pendolo di Schopenhauer è strettamente materialistico mentre in Leopardi è qualcosa di molto più profondo, è un dolore infinito di carattere spirituale, è l’avvertimento della propria eterna inadeguatezza. Quindi abbiamo un meccanismo materialistico (i bisogni ricorrenti da soddisfare) in Schopenhauer e una dimensione esistenziale irreparabile in Leopardi. In Schopenhauer c’è il pendolo dal quale moto si può uscire.
La soluzione più facile sarebbe quella del suicidio. Per Leopardi il suicidio è vagheggiato, per Schopenhauer il suicidio è respinto come soluzione all’assedio di dolore e noia ed è affermazione, non negazione, della volontà. Per quest’ultimo la soluzione deve essere l’estinzione della volontà di vivere. Schopenhauer individua un percorso in 4 tappe: l’arte, la giustizia, la compassione (che ritroviamo ne La Ginestra), l’ascesi. Con l’ascesi, rinuncia del corpo e della volontà si arriva al nulla in modo irrazionale perché non si può raccontare l’esperienza del tutto o nulla, non si può dire a parole con l’ausilio del logos. Quindi senza logos non c’è ragione. Schopenhauer è un pessimista irrazionalistico poiché respinge qualsiasi ragione.
Secondo De Sanctis la posizione di Leopardi non è quella del nichilismo irrazionalistico di Schopenhauer: Leopardi crea un effetto contrario a quello che dice e nel dialogo lo fa dire a Schopenhauer stesso.
Conclusioni.
La questione del pessimismo è, nell’attuale periodo storico occidentale, ritornata d’attualità perché la speranza di decisi cambiamenti progressivi o di palingenesi rivoluzionarie sembra caduta irrimediabilmente. Tuttavia, mentre il pessimismo di Schopenhauer si manifesta proprio nelle posizioni più retrive, irrazionali, antiumane ed impotenti, la sfida potrebbe essere quella di far leva sul pessimismo costruttivo di Leopardi (e ciò sarebbe importante soprattutto per noi italiani) per immaginare una via di fuga da questo abbruttimento. Riprendere la parte utopistica (il pessimismo costruttivo ed immaginifico) collegandola strettamente con l’aspetto scientifico e razionale di cui non possiamo certamente fare a meno.
[1]Lorenzo Valla, critico spietato del cattolicesimo, autore de La falsa donazione di Costantino.
[2]Di famiglia nobile, si laureò in giurisprudenza e divenne ispettore generale per la pubblica educazione del Regno delle Due Sicilie. Lasciò quindi questo posto per insegnare italiano in una scuola nella città di Napoli.
[3]Il solipsismo è la dottrina filosofica secondo la quale l’individuo pensante può affermare con certezza solo la propria esistenza poiché tutto ciò che percepisce fa parte di un mondo dei fenomeni a lui esterno. Quindi l’intero universo è la rappresentazione della propria coscienza individuale.