di Silvio Berlusconi
“Egregio Direttore, dunque sono stato assolto per non aver commesso il fatto. Con formula piena (così si dice), il tribunale di ultima istanza ha certificato ieri con la forza della legge quel che avevo giurato perfino sulla testa dei miei figli: Silvio Berlusconi non ha mai corrotto nessuno. (…) Nel novembre del ‘94, gli italiani lo ricordano, il pool giudiziario di Milano mi mandò un avviso di garanzia in piena conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità, che presiedevo a Napoli. (…) Quell’atto ha cambiato la storia d’Italia. Fu all’origine del famoso ribaltone, portò a un inaudito «governo del presidente» che funzionò come maschera della riorganizzazione politica delle sinistre, e alla fine condusse alla sconfitta elettorale, di misura, della coalizione liberale (addirittura vittoriosa per trecentomila voti guardando al voto proporzionale) che avevo messo in piedi all’ epoca della mia discesa in campo. (…) Ma quello era davvero un errore giudiziario e basta? I cittadini giudicheranno in tutta indipendenza. Io non ho bisogno di incassare nessun premio postumo. (…) Una assoluzione in uno Stato di diritto è sempre una buona notizia.(…) Una stampa libera e responsabile in un Paese democratico non si pone, tuttavia, il problema se una notizia sia buona o cattiva. L’importante è che sia vera. E se è vera, come era vera nel lontano 1994, è suo dovere pubblicarla in misura corretta e nel rispetto delle persone coinvolte. È quanto è accaduto”. (“Corriere della Sera”, 21 ottobre 2001)
Un campione di nuovo giornalismo, Enrico Mentana, che si dice di sinistra, ha detto che bisogna essere contenti perché il capo del Governo ha una macchia in meno. Bastava un provvedimento di legge per pulirla, ma il guaio è un altro.
E allora approfondiamo. Berlusconi, dopo due condanne in primo e secondo grado, viene mandato assolto dalla Cassazione in quanto, nel suo ruolo di numero Uno Fininvest (ai tempi del reato non era ancora Mediaset), non poteva sapere cosa stava succedendo ai piani bassi dell’azienda.
Nel 1998, la stessa sezione della Cassazione, nel famoso procedimento Banco Ambrosiano (anche se obiettivamente la fattispecie era diversa, in quanto riguardava amministratori e sindaci del Banco), a carico di De Benedetti applicò il principio opposto, che volgarmente viene enunciato con la frase “non poteva non sapere”.
Berlusconi invece non sapeva. E noi ci crediamo. Ma che cosa non sapeva?
Che alcuni dirigenti Fininvest si davano da fare per corrompere la Finanza (l’ha detto la Cassazione).
Non sapeva che alcuni ufficiali della Finanza erano disonesti nel farsi corrompere dai numeri 3-4-5 della Fininvest.
Ci crediamo. Infatti 15 giorni dopo il pagamento delle mazzette, tale Massimo Maria Berruti, ufficiale della Finanza durante quei controlli, veniva assunto da Fininvest. Se Berlusconi avesse saputo, non avrebbe mai commesso una svista così palese.
E non avrebbe candidato a maggio lo stesso Berruti facendolo diventare deputato.
Berlusconi non sapeva queste cose, altrimenti non avrebbe mai detto agli italiani che voleva fare dell’Italia come delle sue aziende, cioè un luogo dove si pagano i finanzieri per evitare i controlli (l’ha detto la Corte di Cassazione).
I dirigenti Fininvest condannati nel processo, sono rimasti al loro posto, alcuni sono diventati parlamentari, uno è deceduto e al funerale Berlusconi lo difese per quello che aveva fatto.
Di tutte queste cose, nella lettera-omelia sul “Corriere della Sera”, non compare traccia.
Inoltre nella stessa lettera viene riproposta la tesi che siano stati i pm di Mani pulite a far fuori il primo Governo Berlusconi.
Anche qui, nessun rispetto per i fatti. Il solo motivo per cui il Cavaliere gettò la spugna, nell’autunno del ‘94, fu la certezza – dopo il voltafaccia della Lega – di un voto parlamentare di sfiducia. Il famoso invito a comparire per corruzione non giocò alcun ruolo. Subito dopo averlo ricevuto, il 22 novembre, lo stesso Berlusconi escluse qualsiasi effetto politico, proclamando in un messaggio televisivo: “Non mi dimetto e non mi dimetterò”. L’8 dicembre, in un’intervista al “Messaggero”, il premier minimizzò l’incidente al punto da esibirsi in uno sperticato elogio del suo accusatore, Antonio Di Pietro: “La sua ansia moralizzatrice è patrimonio di tutti”. E il discorso delle dimissioni da palazzo Chigi, il 21 dicembre, fu tutto un’invettiva contro Umberto Bossi: in esso non c’era una parola sull’iniziativa della Procura di Milano. Eppure tutto questo non ha impedito che, nel tempo, la fandonia di un presidente del Consiglio brutalmente destituito dai magistrati nascesse e mettesse radici nel pubblico dibattito. (Claudio Rinaldi su “Repubblica” del 27 novembre 2001)
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