di Sergio Mauri
Come fa a essere oggettiva una storia della filosofia del diritto che riguarda solo il diritto occidentale? Chiaramente non può. L’importante è dirlo, denunciarlo. Parliamo di un particolare fenomeno giuridico. La prima catalogazione possibile è tra giusnaturalisti e neopositivisti. I primi si riferiscono (genericamente) alla natura delle cose che deve trovare recepimento all’interno della regolamentazione giuridica. Si ipotizza l’esistenza di un ordine naturale, il quale dovrebbe essere indipendente dalla volontà del giurista. Abbiamo un criterio di valutazione che ci permette di poter predicare la legittimità di un comando o meno. Per i giusnaturalisti esiste dunque un diritto naturale al quale il diritto positivo deve adeguarsi. Se non si adegua è un diritto sbagliato. Un diritto contorto, cioè, sbagliato, quindi, abbiamo una visione dualistica: il diritto naturale, superiore; il diritto positivo fatto dagli uomini. La visione giusnaturalistica più importante nasce con la Scolastica, con Tommaso d’Aquino, che istituisce un giusnaturalismo che produce i suoi effetti ancora oggi.
Il diritto per essere tale deve essere giusto. Abbiamo dunque un criterio di valutazione contenutistica pesante: è il contenuto del diritto che lo legittima. Obbedire al diritto è nella natura delle cose. C’è una forte commistione fra diritto e morale. Far pagare il biglietto sull’autobus, secondo il regolamento, fa parte del diritto positivo che è sottoposto alla natura delle cose, se lo Stato, però, pone a rischio il nostro diritto alla vita, abbiamo il diritto di ribellarci, sempre in linea di principio. Digressione sul linguaggio, composto da ambiguità e vaghezza. Il linguaggio naturale è pieno di difetti. L’uso del linguaggio da parte dei giuristi è problematico. La violenza delle istituzioni ha un cappello di moralità, una sovradeterminazione di ciò che siamo. Cosa succede nel XVII secolo che si oppone alla costruzione giusnaturalista? Le guerre di religione. Il giusnaturalismo non riesce più a garantire la pace. Ognuno ha la propria concezione o visione del mondo, basta col giusnaturalismo e una visione dualistica. Il diritto è uno solo che si collega con la capacità coercitiva di farsi obbedire. Senza tanti discorsi sul giusto e l’ingiusto. Dal Leviatano: “La legge è per ogni suddito l’insieme delle norme che oralmente, per iscritto o con altro segno sufficiente a manifestare la sua volontà, lo Stato gli ha ordinato di applicare per distinguere il diritto dal torto, vale a dire ciò che è contrario alla norma da ciò che non lo è”.
Significa: smettiamola di discutere sul giusto e sull’ingiusto, il diritto è circoscritto a quello che il sovrano tra di noi ha ordinato. Quindi, quello che ha ordinato è giusto, diritto; quello che ha proibito è torto, è sbagliato.
È una fondazione convenzionale, quindi, in assenza di questo comando del sovrano, le nozioni di diritto e torto, giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo. Dove non c’è potere comune non v’è legge, dove non v’è legge non c’è giustizia. Giusto è quello che viene comandato (Hobbes). Chi può comandare? Vediamo Marsilio da Padova che vive nel 1300. Ciò che gli interessa è lo scontro papato-Impero. Marsilio a Parigi scrive un trattato, Il difensore della pace, nel 1324. Marsilio sostiene una tesi forte, cioè che l’autorità di fare le leggi spetta soltanto a colui il quale facendole farà sì che le leggi siano meglio osservate o addirittura assolutamente osservate. Il diritto lo fa chi riesce a farsi obbedire, erogando eventuali sanzioni. Le sanzioni bisogna saperle erogare, aggiunge Marsilio. Il papa si arrabbia. Per Marsilio, allora, il diritto è slegato alla morale, ma è legato alla forza. L’unica cosa attraverso cui possiamo vagliare il diritto è la forma, cioè la fonte, l’organo di produzione. Una prospettiva oppositiva potrà essere considerata integrante del diritto non per ciò che dice, ma per il potere che l’ha posta in essere, se si trattava di un potere autorizzato a farla.