di Sergio Mauri
Da un po’ di tempo leggo critiche, ma anche lodi, nei confronti di questo gruppo e se tu sei arrivato qui, significa che ti interessa l’argomento e, forse, segui il gruppo. Cercherò quindi di farti capire la mia opinione su questo gruppo musicale, premettendo che il gruppo stesso non merita né critiche distruttive, né lodi sperticate.
Io ho un diploma di conservatorio e ho pure insegnato musica (e strumento) qualche anno fa. Ho, inoltre, alcuni lavori depositati alla SIAE, come compositore. I Måneskin li ho ascoltati per caso un paio di volte, nulla più e, per di più, non sono un loro fan. Devo confessarvi che non mi piacciono perché fanno soprattutto cover. Comunque, e qui affrontiamo la prima critica, non è vero che sono musicalmente basici come dice qualcuno. Le competenze strumentali e musicali in genere le hanno, ve lo assicuro; dopotutto per interpretare una cover ci vogliono pure quelle. Sanno inoltre tenere la scena. Gliel’hanno insegnato e non è poco: è ciò che si richiede a un musicista.
Continuiamo con le critiche che ho letto. Vorrei precisare che di certo tutta la musica di oggi è costruita dalle case discografiche, che poi sono gli operatori economici e culturali del settore, ma lo era già dagli anni Sessanta del secolo scorso, poiché è da lì (e dalla liberazione giovanile) che nasce tutto. Anche il business connesso ai giovani e alle cosiddette “mode giovanili”. Una volta c’era più creatività, si dice. Certo, ma per lo più tale creatività era dettata dalla necessità di sperimentazione in un settore che stava muovendo i primi passi; erano dei tentativi di focalizzare la produzione per il mercato.
Oggi, tuttavia, di giovani in Italia ce ne sono pochi, demograficamente nel Regno Unito e negli USA son messi meglio, ma qui i fenomeni tipo Måneskin non nascono per irretire i giovani italiani, anche se per una certa percentuale contano pure quelli, ma credo nascano come fenomeno commerciale puro, generalmente inteso. I Måneskin, infatti, hanno una proiezione internazionale e, di questi tempi, è l’unica vera proiezione di livello economicamente significativo nel mondo dell’arte come della musica.
Non sono nemmeno d’accordo, e qui vediamo l’ultima critica che voglio affrontare, sul fatto che il sistema costruisca e imponga i fenomeni culturali tout-court: ci sono indagini preliminari, ricerche di mercato che confermano le merci da mettere sul mercato stesso. Quindi, certamente il sistema economico, nella fattispecie le case discografiche, creano il fenomeno, dopo analisi più o meno attente e lo lanciano sul mercato. Poi, non è detto che non si verifichino delle cantonate, più o meno gravi.
Ciò che manca del tutto, nella critica che va per la maggiore, la domanda sul perché possono piacere questi fenomeni piuttosto che altri. Sarebbe infatti molto più interessante capire perché, tra le opzioni possibili, pubblico e case discografiche si incontrano: perché alle persone piace? Anche perché, ricordiamocelo bene, nessuno punta una pistola alla testa dei consumatori per obbligarli a un consumo piuttosto che a un altro. Potranno essere anche spinti in una direzione piuttosto che in un’altra, persuasi a farlo, ma non sono obbligati a farlo.