L’occidente – fulcro del sistema capitalistico mondiale – è divenuto in questi ultimi decenni – parallelamente alla totale sussunzione alla prassi economica del capitale – luogo senza ideali e/o senza elaborazioni di alternative politiche-economiche. Un continente desertificato da ogni opposizione (se escludiamo il movimento anti-G8….) con una evaporazione culturale senza precedenti attraverso la quale, oggi, possiamo verificare pienamente le ripercussioni del pensiero unico.
E’ il mondo che ben ci descrive Ken Loach nel suo film “In questo mondo libero”. Un mondo – quello “libero” – dove conta solo la possibilità di far soldi e di avere uno spicchio di successo personale; cose, queste due ultime, che nel nostro mondo non sono condivisibili, ma attuabili sono nella singolare, individuale ed esigua atomizzazione sociale.
Tutto ciò a spese degli altri – gli altri “atomi sociali “ – ovvero delle persone con i propri specifici bisogni. Essi sono monetizzabili, diventano prodotti vendibili, e sono attivamente solleticabili, senza remore. Qualsiasi aspetto e necessità della vita umana possono diventare oggetto di un mercato e momento di sfruttamento per le debolezze sociali ed umane di ognuno di noi.
Anche la protagonista del film è in realtà una persona “normale”; una donna assimilabile in tutto e per tutto alla classe lavoratrice. Un giorno decide, con l’attivo aiuto della sua amica Rose, che può far da sé e guadagnare dei soldi, fare successo, sfruttando la miseria del prossimo; lavoratori dell’est o del sud del mondo, persone in fuga da persecuzioni politiche che si offrono, privi di qualsiasi mezzo di sostegno, sul mercato del lavoro. Chi è debole, si adatta a qualsiasi cosa, si sa.
Il realismo provocatorio di Loach è un ottimo strumento di critica sociale; senza rovinarvi il film raccontandovelo, è interessante notare che esso è sicuramente il frutto di una grossa e seria ricerca compiuta sul campo, attraverso la quale si capiscono gli interessi in gioco, quegli stessi interessi che organizzano la tratta di manodopera che più è indifesa meglio serve alla bisogna.
Ma si comprende altrettanto bene che in questa nostra struttura sociale gerarchica nella quale il cambio di classe è praticamente impossibile perché non necessario, a pagare e a farsi la guerra sono coloro che occupano gli strati bassi della nostra piramide sociale. Coloro che detengono le redini del comando ed operano per sé e per il mantenimento di un ordine che li privilegia, sono irraggiungibili. Entità che, grazie al loro essere interni ai meccanismi della creazione di valore economico e mediatori nella scala dei poteri politici ed istituzionali, mai saranno (o vorrebbero essere) messi in discussione. Nell’ultima scena del film è chiaro chi paga: sempre gli stessi, cioè altri poveri, altri lavoratori che letteralmente danno i loro soldi alle agenzie di reclutamento al lavoro nella speranza di sfamare le loro famiglie; una tassa che le classi subalterne espropriate (1), pagano ai propri aguzzini.
(1) E’ qui interessante notare che alcuni studi sono stati pubblicati sui costi reali in termini di distruzione di macchine, tecnologie, costi sociali (impoverimento generale) generati dall’intervento del blocco occidentale, sia contro le classi non possidenti interne, sia nei teatri militari periferici del Terzo Mondo in veste antisovietica, sia contro la Russia rivoluzionaria e fino alla caduta del Muro dell’89, sia sul piano della pura competizione economica nei confronti di un paese (l’URSS) uscito stremato da due guerre mondiali a cui per sopravvivere veniva imposto di difendersi con armamenti sempre più sofisticati dirottando dai settori di interesse sociale risorse consistenti.
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