Molto diffuso, in certi ambienti di (a)sinistra, il mito che il lavoro interinale venga scelto dalle aziende perché costerebbe la metà. Questo ad esempio è ciò che scrive Adriana Chiaia nell’introduzione al già citato libro “La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler”, edito da Zambon.
Nulla di più falso. I costi sono addirittura maggiori, perché ai costi contrattuali vanno aggiunti quelli dell’intermediazione dell’agenzia. E non ditemi che esistono agenzie che lavorano senza tenere conto delle contrattuali sindacali vigenti: mi capitò, una volta, che l’agenzia interinale si mise in mezzo per far rispettare un contratto nazionale contro i datori di lavoro che pretendevano di usare i vecchi parametri salariali, ovvero del precedente rinnovo contrattuale.
Un conto, dunque, è affermare che, per un comunista o uno che non ama questo sistema socio-politico, il lavoro interinale sia ignobile; un altro conto è dire che, capitalisticamente parlando, il lavoro interinale non risolve le contraddizioni del sistema. Ma ben diverso è raccontare palle per attaccare (?!) un’istituzione discutibile.
Ma allora, dove sta l'”affare” per il datore di lavoro, assodato che finanziariamente non lo è? L’affare risiede solo ed unicamente nel fatto che non c’è relazione diretta fra datore di lavoro e lavoratore interinale, essendo questa dislocata interamente fra l’agenzia e il lavoratore. Pertanto il datore di lavoro non ha obblighi nei confronti del lavoratore.
Per questa ragine l’avvitarsi dello scontro sul lavoro interinale e sulla legge Biagi cui abbiamo assistito anni fa , assume dei connotati ancora più ambigui e foschi, innesti terroristici inclusi. Posto che il sistema capitalista vive di crisi sistemiche più o meno costanti e che questa crisi è realmente pesante, perché concentrarsi su di un solo aspetto della stessa, e forse nemmeno il peggiore di tutti?
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