Nell’agosto 1998, in pieno “Sexgate”, Bill Clinton fece bombardare il Sudan con decine di missili da crociera Tomahawk, mossa di dubbia legittimità costituzionale. Il principale bersaglio era un impianto farmaceutico. Secondo gli USA era di proprietà di Osama Bin Laden, e in realtà produceva armi chimiche. Secondo altre versioni, era proprio un impianto farmaceutico, e conteneva una buona metà delle scorte di medicinali dello stato africano. Si contarono decine di morti e feriti. Tutti civili. Molti governi protestarono. L’ONU avviò un’inchiesta, che gli Stati Uniti riuscirono a bloccare. Questa singola atrocità ha distrutto metà delle scorte farmaceutiche di una nazione Africana e le sue attrezzature per rifornirle, con un costo umano enorme. Un anno dopo l’attacco, “senza i farmaci salva-vita prodotti [dai macchinari ora distrutti], il numero dei morti dovuti al bombardamento del Sudan continua, silenziosamente, a crescere…
Cosi, decine di migliaia di persone — molti di loro bambini — soffrono e muoiono di malaria, tubercolosi, ed altre malattie curabili… [La fabbrica] forniva medicinali a basso costo per gli esseri umani e tutti i medicinali veterinari localmente disponibili in Sudan. Produceva il 90 per cento dei principali prodotti farmaceutici del Sudan… Le sanzioni contro il Sudan rendono impossibile l’importazione di una adeguata quantità di medicinali necessaria a coprire il grave vuoto lasciato dalla distruzione della fabbrica….. [L]‘azione intrapresa da Washington il 20 agosto 1998, continua a privare il popolo del Sudan dei farmaci necessari. Milioni si staranno chiedendo come la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja celebrera’ questo anniversario” (Jonathan Belke, Boston Globe, 22 agosto 1999). Il bombardamendo da parte degli Stati Uniti “sembra aver sconvolto il lento evolversi del movimento verso un compromesso tra le opposte fazioni del Sudan”, e aver messo fine ai promettenti passi verso un’accordo di pace per porre fine alla guerra civile che dal 1981 ha seminato 1,5 milioni di morti, e che avrebbe anche potuto portare la “pace in Unganda e all’intero bacino del Nilo.” L’attacco ha apparentemente “sconvolto… quei benefici che c’era da aspettarsi da uno spostamento politico del cuore del governo Islamico in Sudan” verso “un’impegno pragmatico con il mondo esterno”, e dagli sforzi attuati nei confronti delle crisi interne al Sudan, “per porre fine all’appoggio del terrorismo, e per ridurre l’influenza dei radicali Islamici” (Mark Huband, Financial Times, 8 settembre, 1998).
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