Partiamo dagli atti vandalici cui è stata fatta oggetto la statua di Montanelli. Nessuno di noi si identifica con gli atti vandalici in generale e tuttavia può provare a spiegarseli. Imbrattare la statua di Montanelli è stato un modo per attirare l’attenzione su di lui e sul tema del sessismo e del razzismo. Ma è chiaro per tutti che i vandali non abbiano trovato altri mezzi per esprimere il proprio dissenso non avendo dalla propria parte le istituzioni o il potere che avrebbe loro permesso di non dedicare proprio una statua e prima ancora un giardino a uno come Montanelli. O avrebbe permesso loro di rimuoverla con mezzi legali. Inoltre, dare un giudizio di merito sulle “armi” che si usano per fare lotta politica o di opinione, chiama in causa le priorità e la scala di valori della nostra società. Io peraltro non avrei dedicato un monumento, una via, un giardino a uno come Montanelli. Purtroppo, a conferma dell’arretratezza del dibattito (storico, politico e quant’altro) italiano, siamo finiti a parlare della vernice con cui è stata imbrattata la statua di Montanelli, ma non di razzismo, colonialismo e sessismo, colpevolizzando qualsiasi azione conflittuale secondo una prospettiva da ordine pubblico.
Basterebbe, peraltro, ricordare un fatto recente. Luca Traini, già candidato con la Lega Nord nel 2017, nel febbraio 2018, sparò a un gruppo di immigrati africani ferendone 6 e sparando pure contro una sede del PD. In quell’occasione i leader della destra furono molto meno netti nella condanna addebitando anzi tutto alla politica immigrazionista del centrosinistra. E che dire della strage di Firenze del 13 dicembre del 2011 attuata da un sostenitore e attivista di Casa Pound, tale Gianluca Casseri, in cui persero la vita due senegalesi? Anche qui sfido chiunque a trovare toni particolarmente scandalizzati. Peraltro, l’indignazione colpì invece coloro che, dimostrando danneggiarono dei porta-piante durante le manifestazioni antirazziste dei giorni seguenti. Sono più importanti le vite umane o gli oggetti inanimati? A voi l’ardua risposta.
Si dice, troppo spesso, che la questione della sposa bambina di Montanelli deve essere compresa contestualizzandola, capendo così che “si faceva così”, all’epoca. Si tira in ballo il madamato, versione italiana a tutto vantaggio italiano delle usanze locali note sotto il nome di damoz (nozze per mercede), per giustificare, contestualizzare e “umanizzare” la questione. Il contesto che spesso odora di giustificazione si muove tra quello spazio temporale e quello del gesto isolato. Qualcuno tira in ballo, con più di qualche ragione, l’alleanza tra patriarcati in colonia. Quella della contestualizzazione, a mio avviso, è un’arma spuntata, poiché se si deve contestualizzare, allora si contestualizzi. E allora dobbiamo parlare dell’aggressione colonialista, delle imposizioni di relazioni oppressore-oppresso che naturali non sono, ma vengono “accettate” o assimilate per istinto di sopravvivenza, di tutto un contesto culturale in cui il fascismo aveva creato dei topos topoi concettuali come superiorità razziale, di civiltà e quindi l’altro polo, quello soccombente, quello degli “inferiori” per contingente o storica arretratezza tecnologica o diversa evoluzione/sviluppo socioculturale. Ecco; più che di “inferiori”, il fascismo si è voluto occupare di “diversi”, di coloro che diversissime ragioni non hanno voluto o potuto omologarsi alla ragione dominante del regime. Vale la pena qui ricordare che il madamato sarà vietato nel 1938 con le leggi razziali, sempre per unilaterale necessita e decisione degli oppressori, coerentemente senza il contributo o la presa di coscienza del punto di vista degli oppressori, dei colonizzati. A questo punto dobbiamo chiarirci una cosa: Destà è l’unica assente da questa storia, l’abbiamo vista in foto da bambina, non l’abbiamo sentita parlare, non le abbiamo chiesto un parere su quanto successo. Sentire la sua voce, poterla intervistare, sarebbe stato importante proprio sotto il profilo della ricerca storica. Ci avrebbe aiutati nella contestualizzazione. Qui ovviamente i piani di interesse si intersecano sono diversi: fascismo, colonialismo, violenza di genere e violenze in generale. Vediamo, più da vicino alcuni aspetti, quelli meno conosciuti del nostro giornalista. Partiamo da un libro apparso nel 2007 per i tipi di Feltrinelli, di Renata Broggini, intitolato Passaggio in Svizzera. L’anno nascosto di Indro Montanelli 1944-1945. Il libro parla dei nove mesi passati da Montanelli in Svizzera. L’autrice nota che sul quel periodo, documenti alla mano, Indro da informazioni imprecise, abbellite, inventate e truccate. Le fonti dell’inchiesta della Broggini sono gli archivi federali di Berna e Bellinzona e l’Archivio di Stato di Roma. Abbiamo dei memoriali, epistolari, scritti di Indro, testimonianze nuove. La tesi, fondata su queste fonti, dell’autrice è che Montanelli manipoli la propria biografia per accreditarsi come antifascista dopo l’iniziale entusiasmo per il fascismo. Lo fa a Lugano. I fuoriusciti sospettavano (sbagliando) in lui una spia e gli rimproveravano la finta fuga autorizzata dai tedeschi. Da leggere pure il rapporto con l’agente Osteria, il “Dottor Ugo” e il fatto di una condanna a morte mai subita.
Forse il suo ricostruirsi un’identità si capisce meglio quando scopriamo che negli archivi della Library of Congress ci sono tre lettere scritte da Montanelli all’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce tra il maggio e il settembre del 1954. Dalle lettere si evince il seguente progetto di Montanelli: dare vita in Italia a una forza anticomunista eversiva che nel caso di vittoria delle sinistre entri in azione con dei “bastonati”. Una
Gladio ante litteram. Montanelli ipotizza anche un colpo di Stato. (Fonte La Repubblica 19/12/98. “Quando Montanelli tramava con l’America”. Pure in Adnkronos: 19/12/98: “Montanelli: 1954, reclutare 100 mila bastonati contro PCI”). Da ricordare che accusò Tina Merlin di sciacallaggio per aver parlato dei rischi del Vajont mentre lui aveva difeso l’azienda solo perché contrario alla nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Montanelli è protagonista anche di un becero attacco a Camilla Cederna, nel marzo 1972, dalle colonne del Corriere della Sera. Dalle pagine di Play boy attaccherà pure Giulia Maria Crespi, comproprietaria del Corriere della sera, con argomenti sessisti. Sempre su Play boy nell’aprile del 1974 si vanterà dell’impresa di Abissinia.
Nel 1982 è intervistato da Enzo Biagi per il programma “Questo secolo”, visionabile su YouTube col titolo: “Montanelli e la sposa bambina: un animalino docile”. Nulla di eclatante, dopotutto nel suo libro del 1936 XX Battaglione eritreo già scriveva di “nostra fatale superiorità”. Nel 1995, il 25 novembre, dopo il forzato rientro di Erich Priebke (il boia delle Ardeatine) in Italia sul Corriere della Sera esce un intervento di Indro in cui chiede siano processati anche agli attentatori(!).
Il 12 febbraio del 2000, in risposta a una lettera di una lettrice nella rubrica “La stanza di Montanelli”, del Corriere della Sera, in cui scrive riferendosi a Destà “Faticai molto a superare il suo odore”.
Indro muore nel 2001, nel 2002 gli intestano i giardini, nel 2006 la statua. Sindaco di Milano è Gabriele Albertini (CDX). Da notare che a Camilla Cederna ci vollero 16 anni per l’intestazione dei giardini. Ricordiamo Camilla Cederna per la sua inchiesta su Pinelli e sul presidente Leone.
Il 16/6/2020, la scrittrice Silvia Ballestra in un articolo su Internazionale ripercorre la storia di Montanelli senza sconti sulla questione Destà. Dobbiamo però approfondire due aspetti della questione: i livelli di contestualizzazione (il 1935 e il 2019-2020) e la “guerra topografica”. Non è dimostrabile che nel 1935 si facesse così, visto che il madamato non era praticato da chiunque e in Italia sarebbe stato reato comprare una ragazzina di 12 anni.
In conclusione, alcune osservazioni. Innanzitutto, pochissimi hanno sottolineato il fatto che manchi qui la voce di Destà che, dal punto di vista della ricerca storica sarebbe stata fondamentale. Inoltre, l’attribuire – usando l’argomento a propria discolpa – certi tratti culturali a ben definiti gruppi umani, in questo caso gli africani del Corno d’Africa, è una pratica essenzialista, prima ancora che passibile di razzismo. L’essenzialismo, ormai abbandonato, si basa sulla credenza che le caratteristiche relative ad una determinata appartenenza sociale (il genere, la “razza”, l’etnia, la classe sociale) si basino su qualità innate dell’individuo. Le teorie essenzialiste suggeriscono che le differenze tra i gruppi non siano dovute a fattori ambientali o sociali, ma si basino su caratteri interni all’individuo considerati stabili e immodificabili.