Intellettuali e popolo. Le idee dominanti nella società…- in una data epoca storica - sono quelle della classe dominante. K.M. Alla luce di questa affermazione di Marx, possiamo ben capire ed intraprendere una analisi sui "professionisti dell'intelletto". L'approccio metodologico ai problemi della nostra società, da parte degli intellettuali di sistema, è sempre privo di energia e grinta, soprattutto quando mancano dei modelli ideologici a cui appoggiarsi e su cui strutturare le proprie congetture. Mancano soprattutto la scienza e l'obiettività. Tuttavia, costoro non hanno da applicare alcuna scienza per cambiare il mondo, avendo trovato il modo e la sistemazione del proprio privilegio. Tutt'al più si possono arrovellare nel bisogno di trovare un metodo migliore, legandosi al carrozzone vincente del momento, per trovarsi in buona posizione per la spartizione della ricchezza prodotta da chi lavora veramente e non solo a parole, da chi impegna la propria forza, intelligenza e i propri soldi per mandare avanti la baracca. L'Italia ne ha conosciuti tanti di questi intellettuali, sia di destra che di sinistra; da coloro che vedevano la rivoluzione ad ogni piè sospinto durante gli anni '70, a quelli che si dichiarano, in seguito a certe "esperienze nel movimento", per un nuovo approccio alle questioni sociali in cui non ci sarebbe più spazio per tematiche classiste, ma unicamente per reclami alle istituzioni in una logica tutta interna ai giochi e alla dialettica di palazzo. Quintessenza, questa, della negazione di ogni rimasuglio di quella "democrazia" ideale astratta della nostra società contemporanea a cui quelli si richiamano. Il "sistema" abbisogna e genera da sé, tramite la ripartizione oculata di quote di prodotto sociale alle classi medie che di ritorno dipendono quindi dal "sistema" stesso (cioè dalla sua "classe dirigente"), genera da sé dicevamo, uno stuolo di "professionisti dell'intelletto" che dalle più disparate posizioni del panorama dominante dichiarano che "per ora non si può fare meglio di così" e che "in ogni caso le istanze di cambiamento vanno pacificamente inoltrate alle autorità istituzionali". Queste sono le menti che dovrebbero preparare il futuro e il cambiamento! In realtà esse sono solo la caricatura patetica di una società che sopravvive sulla falsità storica, la mistificazione, lo sfruttamento per ottenere il quale si usa qualsiasi mezzo...... Il Manifesto 21/7/91 (articolo di R.Rossanda): "Dal momento che l'economia del blocco dell'Est s'è bloccata, e il sistema si è rivelato non autosufficiente (soprattutto, ma non solo a livello della tecnologia) il varco (gli elementi del capitalismo innestantesi nel socialismo ndr.) era aperto. Non a caso la Cina di Mao aveva cercato di non contrarre debiti con l'estero: i debiti sono dipendenze, per far fronte alle quali sarebbe occorso mettere il proprio apparato economico al ritmo di crescita e sfruttamento della forza lavoro dei paesi creditori". Si parla di economia dell'Est facendo un unico fascio tra Urss (dove c'è stata la rivoluzione socialista), paesi satelliti (dove il "socialismo in un solo paese" è stato, per lo più, importato alla fine del secondo conflitto mondiale) e la Cina (dove il Partito è sopravvissuto dopo essersi "emendato" ed aver introdotto elementi di mercato). Già da ora l'autrice da segni di superficialità nell'analisi. Qui non è detto quando l'economia dell'Est si sia bloccata, né quali caratteristiche strutturali essa avesse poco prima di bloccarsi o nel momento del blocco. Si dà, insomma, per scontato che in tutti i paesi sopracitati quando un partito comunista si portasse al governo del paese ci fosse l'instaurazione della società socialista, di punto in bianco. Ma il socialismo si ha semmai dopo anni di dittatura della classe lavoratrice a seguito di un confronto armato di lotta sociale fra classi antagoniste che instaura questo potere. La lotta di classe con esiti vittoriosi si è avuta - fra tutti i paesi citati - solo in Urss ed in Cina. È invece stata trapiantata, senza rivoluzioni di classe dei lavoratori dei paesi interessati, ai paesi satelliti. Questa è stata una contraddizione importante nel panorama del blocco sovietico. Un pò diversa è la storia della Cina, laddove quando il partito comunista prende il potere lo fa grazie ai contadini che, con i pochi operai di fabbrica (molti erano stati sterminati tra Canton e Shanghai) e gli intellettuali dissenzienti e rivoluzionari, instaurano di fatto la dittatura dei lavoratori e chiamando il tutto "nuova democrazia". Detto per inciso i signori del "Manifesto" erano tra quelli che vedevano positivamente la rivoluzione comunista nella Cina di Mao e questa sostenevano, pur tra piatti polemismi. Sembra strano che intellettuali come la Rossanda non abbiano visto certe contraddizioni di fazione in Cina. Per loro esiste solo la superficie delle cose, le invettive ed i proclami in politica. Il sottostare di tutto ciò alle rigide e determinanti leggi dell'economia, dove cioè si generano i tanti citati interessi, questo approccio scientifico, non li riguarda. Ma allora questo blocco dell'economia che non riesce a diventare socialista - nonostante si dia per scontata l'esistenza del socialismo nonostante si parli di elementi di capitalismo innestantesi nel socialismo! - quando si verifica? Con Krusciov come sostiene una parte di Rifondazione? Non riescono a vedere questi intellettuali o semplici militanti cosa è successo in Urss negli anni '20 e dopo la morte di Lenin? La sconfitta del cambiamento rivoluzionario si ingenera lì ed intorno, certamente. Sta nella mancata rivoluzione europea, sta nella incapacità della sola Russia ad essere autosufficiente economicamente. Non ci viene detto, quindi, quando, come e perché questa fantomatica economia dei paesi che noi osiamo al contrario del "Manifesto" che pudicamente non pronuncia il nome maledetto, chiamare paesi del "socialismo reale", magari anche del socialismo possibile, abbiano ceduto nel confronto col capitalismo. Ma con quel "la Cina di Mao aveva cercato di non contrarre debiti con l'estero..." l'analisi continua ad accusare la sua natura idealistica attribuendo la possibilità di scelta per "libero arbitrio" alla Cina ed in conseguenza a questa scelta in grado di porsi su di un binario socialista. Se non si cominciano ad analizzare i rapporti di produzione e scambio e a domandarsi in che maniera essi si modificano dopo l'avvento di Mao, in una indagine scientifica che prenda in esame il prima il durante e il dopo di questa operazione politica, non si giungerà a nessun tipo di conclusione seria. La correlazione dei debiti con le dipendenze è foriera di confusione; nella analisi della struttura socio/economico/politica non possiamo prendere in esame una sua manifestazione come il meccanismo del debito/credito, ma la sua determinante, cioè il rapporto di produzione. Da qui si innescano i qui pro quo; si pretende di spiegare il fallimento del socialismo con categorie, metodi ed affermazioni di principio che non rappresentano una realtà che si vorrebbe socialista, ma che purtroppo rimane dipendente da una realtà capitalista, come appunto è quella del meccanismo debito/credito. E poi; quando era l'Urss a detenere dei rapporti economici, di scambio, con la Cina, questi rapporti erano o non erano dei rapporti di dipendenza? L'articolo in questione non si pone volutamente questo problema, anche perché poi bisognerebbe dare una caratterizzazione ai rapporti medesimi, ponendo in essere uno sforzo analitico che potrebbe causare qualche debacle al corpus ideologico opportunista ed insufficiente degli intellettuali di sistema. Infine; la dipendenza (secondo Rossanda) pone in essere l'adeguamento dello sfruttamento della forza lavoro ai livelli delle metropoli imperialiste e quindi il paese (la Cina in questo caso) si trasformerebbe in paese capitalistico. Prima dell'adeguamento l'economia non è capitalistica! Notare qui il solito atteggiamento pudico nell'affibbiare il termine "maledetto". La Cina prima di cadere nella "trappola" della dipendenza era (sembra) socialista. Notare quel "ritmo di crescita e sfruttamento della forza lavoro dei paesi creditori" tra l'altro non caratterizzati nei rapporti di produzione; si potrebbe a questo punto dire che la differenza fra paesi socialisti e capitalisti stia tutta in quel "ritmo" che sarebbe basso per i primi e alto per i secondi, come se un paese come il Togo, a basso ritmo, fosse perciò soltanto ed automaticamente socialista. A guardar bene queste illazioni non sono solo contingenti a questo discorso, ma riguardano ben più seriamente le concezioni di linea politica che questi "sinistri" promanano, infine, anche a casa nostra: democrazia sui posti di lavoro, diritti, democrazia sindacale, diminuzione dell'orario di lavoro (ma si badi bene, non messa in discussione del modo di produrre), diritti delle donne (certamente, ma all'interno di una strategia di liberazione complessiva). Si tratta dell'ennesima riproposizione dei diritti di cittadinanza che la borghesia declama a parole da lungo tempo, ma che nega (e non potrebbe fare altrimenti) nei fatti. Concezione questa, vecchia almeno e forse anche più, della Rivoluzione Francese, superata in modo definitivo dall'oggettivo modo di essere della società capitalistica, nella quale riproporre il diritto di cittadinanza significa contribuire a mistificare i rapporti sociali nei quali siamo tutti uguali formalmente, ma tutti diversi nella sostanza. "E accanto alla crisi dell'economia si rivelava, in stretto legame, una crisi di politica, per la quale il modello socialista cessava di essere capace di quella mobilitazione che, per spuria o meramente progressista che fosse, aveva avuto nell'Urss e nei paesi in via di sviluppo; anche quelli che, senza aderire ad esso, pensavano di trovare nel blocco del "socialismo reale" un appoggio per svincolarsi dalla dipendenza dall'ovest. Ma anche qui si era ormai rivelata la incapacità dell'Urss, ma anche della Cina, di proporre loro un qualsiasi modello valido di crescita: la "via di sviluppo non capitalistica", di cui molto si parlò negli anni '60, ebbe vita breve". Altro tentativo di analisi che rimane per l'appunto solo un tentativo per giunta - ovviamente - idealista. Idealista in senso strettamente filosofico perché manca totalmente l'unica analisi scientifica possibile, quella che parta dai rapporti di produzione esistenti e si proponga dopo, e solo dopo aver dato un nome e un cognome ai rapporti produttivi medesimi, di dare una caratterizzazione ai fenomeni sovrastrutturali. Sembra, ad un occhio nudo, ma attento, che si descriva la parabola discendente della credibilità di una storia che parte dall'Ottobre Rosso per arrivare ai "tempi attuali" in cui il fenomeno "socialista" sembra incapace di smuovere qualsiasi cosa, ma per semplice volontà autoriflessa degli uomini su sé stessi. Il marxismo ci insegna, fra le tante cose, che non sono le idee a smuovere le classi in lotta, ma interessi materiali ben precisi, senza per questo sottovalutare l'elemento ideologico ed ideale. Quando i movimenti negli anni '60 e '70 erano in lotta, perché erano in lotta e chi ne deteneva la direzione politica? Erano in lotta le classi medie colpite dai primi venti della crisi post-bellica ed erano loro a dare questa direzione politica, non certo la classe operaia che entrerà in lotta appena con l'autunno "caldo" del '69, ma che non riuscirà mai a sostenere una indipendenza politica di classe e quindi tantomeno una politica rivoluzionaria. L'ondata libertaria e ribellista di quegli anni è estranea al bagaglio di lotte e di tradizioni politiche operaie. Ma l'autrice questo non ce lo dice; purtroppo devono spiegarlo sempre gli altri. Forse dà per scontato di parlare ad un pubblico di gente che la pensa come lei sul socialismo e su tutto il resto. Allora, la spiegazione che l'autrice dà del fallimento dell'ideale socialista? Nessuna spiegazione reale, molte spiegazioni che si fondano invece su "quello che gli uomini pensano di sé stessi e degli altri" e sui loro rapporti sovrastrutturali. L'esatto contrario del materialismo storico e dialettico e della critica dell'economia politica, come metodi d'indagine sulla realtà. Per il marxista - colui che dovrebbe essere interno alla storia del socialismo, anche di quell'esperimento fallito che passa sotto il nome di socialismo reale - la parabola discendente del "socialismo reale" è la parabola discendente giocata dal ruolo di tale variante (in parte revisionista) di "socialismo". Ruolo controrivoluzionario di una politica nata dalla sconfitta di una rivoluzione di lavoratori i cui termini dialettici sono stati descritti nel punto precedente. Oggi il ruolo controrivoluzionario di tale politica è evidente per chiunque: essa è riuscita a far odiare il nome del "comunismo" e del "socialismo" di cui è usurpatrice alle più larghe masse da una parte ed a renderlo non credibile o deludente e traditore dall'altra. Eppoi, una via di sviluppo non capitalistica nei '60? Senza una rivoluzione dal basso che, peraltro, proprio il PCI temeva come la morte? Il fondo della inconcludenza ideologica è toccato: si procede astraendo sempre dalla dialettica concreta dei fenomeni sociali. Lenin lo chiamerebbe "soggettivismo in sociologia". Tutto il contrario del marxismo, quindi. "I primi a rendersene conto sono stati alcuni paesi terzi: nel corso del '91, il Medio Oriente s'è accorto che su un appoggio dell'Urss come ai tempi di Suez non poteva più contare. È vero che da allora i paesi arabi s'erano in gran parte riconsegnati agli Usa, ma anche perché era venuto in chiaro come l'Urss di Breznev usasse i paesi terzi come pedina sullo scacchiere mondiale, piuttosto che fungere da retrovia e sostegno d'una loro evoluzione emancipatrice. O che non volesse farlo o che non ne fosse in grado, le ex colonie portoghesi lo avevano sperimentato con più asprezza di chiunque altro: il caso del Mozambico è eloquente. Anche l'eccezione cubana è diventata sempre meno rilevante, malgrado le parole di Fidel: Cuba sa da un pezzo di dover concedere direttamente o indirettamente agli Usa, se non la propria situazione interna, la forza eversiva del proprio modello in America Latina. Non solo la morte del Che, ma la solitudine nella quale l'Urss lasciò il Cile parlavano chiaro". Qui, invero, ci sono grosse dosi di verità e sagge parole. Tuttavia, non è "ragion sufficiente" il fatto che l'Urss usasse come pedine i paesi arabi, perciò che questi ultimi si orientassero sul fronte opposto. Tanto più che gli Usa non li hanno usati certamente di meno. Cioè, la scelta operata dagli arabi non s'era prodotta su un piano ideale di libero arbitrio o di arbitrio interessato della serie "visto che l'Urss non ci emancipa ce ne andiamo cogli americani". Si era invece operata su un piano di specifici ed articolati interessi materiali, nel senso di legarsi al carro del blocco economicamente e politicamente più forte per realizzare le proprie aspirazioni nazionali. Il passo successivo è discutibile come pochi: si sostiene che l'Urss invece che fungere da volano emancipatore, non l'ha fatto, sottintendendo un problema di volontà. L'Urss non poteva scegliere: nell'era del capitalismo-consumismo nessuna coalizione economicamente autosufficiente di stati (ad ampia rappresentatività popolare) può permettersi una politica antimperialista. L'Urss era socialista nei mitici anni '60, come lo era nei '30? Per rispondere dobbiamo ricordare che la forma politica riflette - con molteplici articolazioni nei vari paesi - la struttura economica della società di appartenenza, e non il contrario! Non si tratta della storiella su chi sia nato prima, l'uovo o la gallina. E il superamento di questa storiella si chiama economia politica, ma l'autrice e tutto il giornale se ne sono dimenticati: in fondo è una questione di metodo! Già nel '21 con l'introduzione della NEP, Lenin avvertiva che c'erano dei reali pericoli di involuzione a forme di capitalismo. Tutta la questione risiede in ciò: l'appoggio o meno ai paesi arabi o ad altri paesi entrava nella logica della spartizione del globo, quindi nella lotta fra Usa e Urss. Com'è possibile che l'Urss fosse capitalista, ci chiederanno molti? Infatti l'URSS non era capitalista nel senso occidentale del termine, era una forma di economia chiusa socialisteggiante dove lo sviluppo bloccato della stessa riportava in auge alcune forme del rapporto di produzione capitalistico; lì esistevano tutte le categorie economiche capitaliste: moneta, salario, credito, debito, interesse, profitto, diversificazioni salariali, proprietà statale dei mezzi di produzione, anche se con meno sperequazioni che in Occidente. Il Manifesto 21/7/91 (articolo di M. Matteuzzi): "Il mondo non è diviso fra paesi capitalisti e paesi comunisti, i blocchi ideologici contrapposti si sono sciolti, il muro di Berlino non c'è più, l'Impero del Male è caduto. Adesso il mondo è diviso fra paesi capitalisti molto ricchi e paesi capitalisti molto poveri, i blocchi sono puramente economici, nuovi "muri della vergogna" stanno sorgendo o facendosi più impenetrabili un pò ovunque, dal nuovo ordine mondiale è nato il grande impero del Nord. Risultato: non più d'un quarto dell'umanità viaggia in prima mentre gli altri tre quarti sopravvivono accalcandosi nei carri bestiame". Prima di tutto ribadiamo che la contrapposizione tra paesi capitalisti e paesi "comunisti" era e continua ad essere non sufficientemente indagata. Ed oggi come oggi (2020) questa cosa risulta pure un pò falsa, essendoci stato uno sviluppo incredibile dell'Asia (continente ex-colonizzato) di parti consistenti dell'America Latina e di qualche enclave africana. Tanto che, nei carri bestiame si ritroveranno i paesi occidentali, prima che se ne possano accorgere. E tutte le giravolte politiche dell'Occidente sono a testimoniarlo. La differenza da un punto di vista economico fra le due tanto sbandierate società, secondo una stretta analisi economicista consisteva nel diverso rapporto tra Stato e mercato nelle due diverse realtà. Tuttavia, per Matteuzzi e il Manifesto, la differenza risiedeva nella forma della proprietà. Non nel modo della produzione come il marxismo ci ha spiegato, ma nella forma della proprietà che questo modo di produrre genera da sé. Qui, nell'analisi dei post-comunisti quello che in Marx "in ultima analisi" è la realtà del nostro divenire umano, diviene elemento che sparisce, e non si vede proprio. È l'ennesima falsificazione della teoria marxista. Ma passiamo oltre, dove vedremo come i pseudo-comunisti usano le armi della critica del pensiero dominante applicandola alla nuova realtà creatasi dopo la fine della guerra fredda. Usano armi spuntate per costruire un castello politico tutto ideologico (cioè basato sulla falsa coscienza) quanto superficiale. Prima, gli intellettuali anche di sinistra della classe dominante s'erano affrettati a creare e sostenere l'artificio ideologico del mondo diviso in blocchi politico-sociali contrapposti e ovviamente come ogni impiegato di fascia alta, a parteggiare per uno dei due blocchi in lizza. Ora caduta quella costruzione ideologica, se ne deve creare un'altra. Si crea tutto meno la teoria ed eventualmente la prassi politica per il cambiamento; si pensano tutti i modi possibili per mediare gli interessi del capitale variabile (la forza lavoro) con quelli del capitale fisso (il capitale morto di ciò che è già stato prodotto), ma mai si giunge ad una rottura dialettica di questi interessi ed all'azione conseguente che diviene, allora si, rivoluzionaria. Questa mediazione, come sappiamo, è stata la fortuna politica della socialdemocrazia riformista e piccolo-borghese, ma anche degli pseudo-comunisti. Ed ecco pronta la nuova costruzione artificiale ideologica universale, pronta per tutti gli usi, possibilmente per un uso politico domestico fatto di elezioni anticipate e scorribande istituzionali. Nord contro Sud. Paesi ricchi contro paesi poveri. Dunque non più classi contrapposte, ma Stati che hanno un differente posizionamento nello scacchiere internazionale, in contrapposizione economica. E allora viva la geopolitica, nuovo tratto caratteristico degli aspiranti capipopolo. A parte il fatto che volendo stilare una graduatoria seria ci accorgeremmo che anche fra i cosidetti paesi ricchi ci sono quelli assai meno ricchi di altri, ma quello che colpisce è il tratto politico della risoluzione eventuale del problema. Anche se poco trattato, sarebbe quello di una modificazione della produzione finalizzata ai bisogni e non al profitto per far salire il livello di vita di questi paesi poveri. Ma com'è possibile avviare una produzione per i bisogni senza socialismo? Ovvero senza il presupposto d'una rivoluzione dal basso che prima abbia messo in condizione quella data società di funzionare sul modo di produrre socialista? Questi pseudo-comunisti non dicono infatti che ci vuole il socialismo per poi cambiare i rapporti fra paesi a grande concentrazione industriale e tecnologica e quelli che tutto ciò non hanno. Vorrebbero, nella loro enorme pusillanimità, che ciò fosse possibile senza cambiare di una virgola la società presente. Lasciando, magari, inalterati i loro privilegi. Non solo. Vorremmo sapere com'è possibile pretendere che la società capitalistica, quella società della produzione anarchica di Marx, proprio quella, riesca o si possa incanalare in un tipo di sviluppo armonico che comprenda tutti, proprio tutti. O Marx era pazzo a dire quello che noi vediamo sotto i nostri occhi ogni giorno, oppure gli pseudo-comunisti sono dei manipolatori delle coscienze. Noi ovviamente propendiamo per la seconda ipotesi. Poi il falso storico di dividere il Nord dal Sud in una contrapposizione per lo meno strumentale e superficiale: paesi che al loro interno hanno delle severe suddivisioni in classi? E allora non paesi poveri contro paesi ricchi, ma classi in ogni paese in opposizione d'interessi. Perché, come dice Marx nel terzo libro del Capitale: "È innanzitutto una falsa astrazione considerare una nazione, il cui modo di produzione è fondato sul valore, e per di più organizzata capitalisticamente, come un corpo collettivo che lavora unicamente per i bisogni nazionali". Conclusioni. Ciò che vale la pena di registrare dopo queste pagine è la contrapposizione reale fra sogni e realtà, fra soggettivismo ed oggettivismo, fra empirismo e scienza. Ora, la opinione dominante tende a dare per scontato che: questo sistema economico e sociale sia l'unico possibile ed eterno e che, quindi, esso corrisponda all'umana natura; che siano le idee che fanno muovere il mondo. Quello fra i due punti che ci sembra il più importante da demistificare è il secondo. La classe dirigente ci relega in una gabbia ideologica di tipo idealistico in cui la spiegazione ultima della realtà umana risiede nell'idea assoluta. Su questo la classe dominante ha costruito campagne ideologiche soprattutto contro il materialismo in quanto filosofia. Ma la prima falsità sta proprio qui: la classe dominante dà del materialista, inteso come valore negativo, a chi come il marxista parte da presupposti obbiettivi e reali nell'analisi del mondo, mentre essa stessa è materialista per prima allorquando pianifica scientificamente il profitto, i licenziamenti per salvare le proprie tasche, per accumulare ricchezza e potere economico e politico. Primo compito è proprio quello di uscire da questa gabbia; pensare che ciò che muove l'uomo sono gli interessi materiali, oggettivi. Il difetto di tutti gli pseudo-comunisti alla "Manifesto" giace nel pensiero, nell'essere sempre in retroguardia rispetto a ciò che si muove nella società, nel non vedere più in là del limite angusto dettato dalla classe che li domina e di cui talvolta sono parte integrante e dai suoi rapporti sociali, nell'accettare il punto di vista della classe dominante mediando sempre e comunque gli interessi delle classi subalterne presso quelle dominanti. La base di tutto ciò risiede nell'impostazione idealistica del pensiero, funzionale al sistema di sfruttamento attuale.
Intellettuali e scheletri negli armadi.
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