di Sergio Mauri
Qual è la posta in gioco, nello scontro in atto in Venezuela, da un punto di vista di classe?
Direi molto alta, capace di fare storia in America latina e di proiettare il suo significato anche in Europa. Non a caso, a ogni candidato che ha avuto nel suo programma la lotta al capitalismo – da Tsipras in Grecia, a Iglesias in Spagna a Melenchon in Francia e persino ai 5Stelle in Italia – si è posto il ricatto del chavismo, chiedendogli di prendere le distanze dalla rivoluzione bolivariana. Con la vittoria di Chavez nel 1998 è emerso infatti un inedito blocco sociale a dominanza “plebea” che ha rivitalizzato le lotte degli operai e degli studenti dando rappresentanza a soggetti tradizionalmente esclusi, come gli indigeni, gli afrodiscendenti, gli emarginati, le donne, e le Forze armate: che in Venezuela hanno un’origine e una storia diversa da quella del “gorillismo” repressivo che ha agito in America latina al soldo di Washington durante le dittature degli anni ’70-80. Gli ufficiali progressisti hanno partecipato alla cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez, nel gennaio del 1958, e hanno accompagnato molte rivolte di carattere progressista e socialista durante gli anni della IV Repubblica, terminati con l’arrivo di Chavez e con l’approvazione della nuova Costituzione nata dall’Assemblea Costituente, nel 1999. L’avanzatissima Carta Magna, declinata nei due generi, restituisce dignità e diritti ai soggetti rappresentati dal chavismo e apre il quadro a un progetto socialista i cui contorni sono andati via via definendosi in un rapporto proficuo fra tradizione e innovazione. Una battaglia permanente con le forze conservatrici, particolarmente inclini al golpismo, che cercano costantemente di sovvertire la dialettica democratica con l’appoggio dei potentati internazionali. La partita che si sta giocando a tutt’oggi è quella fra due modelli di paese: da una parte il socialismo bolivariano che cerca di depotenziare dall’interno lo Stato borghese dando sempre più rappresentanza alle forze proiettate verso il socialismo, dall’altra l’arco di opposizione, composto da una ventina di partiti dell’Alleanza Mud (Mesa de la Unidad Democratica) che mira a restituire alle classi dominanti i propri privilegi, rimettendo le mani sulle immense risorse (petrolifere e naturali) del paese.
E da un punto di vista geopolitico?
Grazie all’esempio di Cuba, che dopo aver esportato rivoluzione non ha mai smesso di esportare solidarietà ovunque ve ne fosse bisogno, il Venezuela chavista ha intessuto – prima con Chavez e poi con Maduro – nuovi rapporti sud-sud, nel continente latinoamericano e nel sud globale. Relazioni non asimmetriche, non basate sull’imposizione di piani di aggiustamento strutturale modello Fmi, ma sull’interscambio alla pari: io ti do il petrolio, tu mi dai i medici, gli insegnanti, il grano o la tecnologia. E’ così che si sono costruite alleanze alternative basate su consonanze politiche come nell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America. Si è cercato di orientare a sud altri organismi commerciali come il Mercosur, o si è impostata la Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici che comprende tutti i paesi americani tranne Usa e Canada (33 in tutto). E ancora, si è sostenuta la politica dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) per contrastare l’egemonia di Washington. Chavez ha costruito una trama di relazioni con paesi non subalterni agli Usa come Cina, Russia, Iran. Oggi, a dispetto della propaganda mediatica, che lo dipinge come un paese fallito che calpesta i diritti umani, il Venezuela dirige importanti commissioni Onu, come quella della Decolonizzazione e il Movimento dei paesi Non allineati, il secondo organismo internazionale per grandezza dopo l’Onu. Una posizione che rende più difficile gli attacchi degli Usa e dei loro vassalli, che Trump vorrebbe spingere fino all’aggressione armata. Ma intanto arrivano pessimi segnali dai paesi neoliberisti. Il golpista Michel Temer, che governa il Brasile dopo aver espulso Dilma Rousseff, ha consentito agli Usa di effettuare manovre militari congiunte in Amazzonia, e il numero di basi militari Usa è aumentato in tutti quei paesi, come il Perù e la Colombia, che gli Stati uniti controllano. Nella ridefinizione di un mondo multipolare, ad appoggiare il Venezuela sono principalmente paesi come la Bolivia o il Nicaragua, che condividono il sogno del libertador Simon Bolivar di una seconda indipendenza e l’orizzonte del socialismo del XXI secolo. Sono, però, soprattutto i movimenti popolari a livello globale, che hanno ricevuto impulso e rappresentanza dal nuovo corso innescato dal chavismo e che ora è in pericolo. Recentemente, oltre 200 rappresentanti provenienti da tutti i continenti si sono riuniti a Caracas per partecipare alle 4 giornate intitolate Todos Somos Venezuela e per decidere campagne di solidarietà con il socialismo bolivariano.
Perché, secondo lei, in Occidente e quindi pure in Italia, c’è una manipolazione informativa così elevata su ciò che accade in Venezuela?
Sia negli Usa, che in America latina, che in Europa, le grandi concentrazioni mediatiche sono attori politici che rispondono ai potentati economici, e funzionano da apripista per le guerre di quarta generazione: devono prepararne il terreno, screditando i governi non graditi, capovolgendo la verità dei fatti, creando disorientamento e paralisi per far accettare le aggressioni come l’unica scelta possibile per ripristinare i “diritti umani”. Vi sono inoltre interessi concreti da parte di tanti imprenditori di origine italiana, che hanno fatto fortuna in Venezuela e spesso finanziano l’opposizione golpista per paura del socialismo. C’è la paura dell’esempio, il timore che il “contagio” possa estendersi anche in Europa: nonostante le enormi difficoltà, il Venezuela continua a destinare oltre il 70% degli introiti ai piani sociali. E non chiede il permesso al grande capitale internazionale. Da noi, invece, la crisi continuano a pagarla i settori popolari, mentre nel mondo 60 famiglie detengono la ricchezza di tutto il pianeta…
Io credo che la sinistra e i democratici italiani abbiano – sostanzialmente e volontariamente – disertato le questioni poste dal Socialismo del Siglo XXI e dal Bolivarismo. È d’accordo con me e per quale ragione – secondo lei – ciò è accaduto?
Sì, in Italia e in Europa gran parte della sinistra ex socialdemocratica ha dismesso la lezione di Marx. Al punto che, quando si affaccia un’opzione anticapitalista, si accomoda sempre altrove o la contrasta, riproponendo vecchie alleanze e programmi che provocano disaffezione elettorale. Una situazione simile a quella scompaginata in Venezuela dalla vittoria elettorale di Chavez negli anni della IV Repubblica. Maduro oggi sta subendo – fatte le debite proporzioni storiche – lo stesso tipo di attacco di quello subito da Salvador Allende in Cile, e che ha portato al golpe pinochettista dell’11 settembre ’73. Però non riceve lo stesso appoggio di allora, perché i termini della questione – della questione di classe – sono stati stravolti dal bilancio viziato del Novecento da parte di una sinistra che ha dismesso il suo impegno verso i settori popolari, al punto che di “casa, terra e lavoro” sembra parlare solo il papa Bergoglio.
Quali sono state le maggiori conquiste della rivoluzione bolivariana?
Sul piano economico-politico forse la principale innovazione è stata quella delle Misiones, piani di sostegno economico ma anche di auto-organizzazione dal basso che mirano a costruire il potere popolare e ha minare le fondamenta dello Stato borghese. In questo modo, nel periodo 1999-2013, la povertà si è ridotta dal 50% al 27% e quella estrema è passata dal 16,9% all’8,8%. Il tasso di disuguaglianza, misurato in base all’indice di Gini è passato dallo 0,48 allo 0,39 ponendo il Venezuela ai primi posti per riduzione delle disuguaglianze. Nel 2010, il Venezuela è stato il primo paese al mondo a cui l’Unesco ha dato una qualificazione di 96 punti su 100 per le mete raggiunte in materia di inclusione, alfabetizzazione e educazione. Nel 2014, il Venezuela figurava al quinto posto al mondo per numero di matricole universitarie. Sul piano internazionale, il paese bolivariano ha assunto un ruolo rilevante nella riconfigurazione del mondo multipolare e per la stabilità del continente, innalzando la bandiera della “diplomazia di pace”.
C’è chi sostiene che il governo guidato da Maduro stia andando verso scelte neoliberiste, rinnegando il socialismo. Le sollevazioni, quindi, non sarebbero altro se non la conferma di questa deriva. Che ne pensa?
Tutte le decisioni assunte dal governo Maduro fin dalla sua elezione dopo la morte di Chavez, nel 2013, sono state di segno opposto a quello neoliberista. Per capire la natura delle violenze scatenate dall’opposizione, basta guardare da quali quartieri siano partiti: quelli più ricchi, governati dall’opposizione. Solo una decina di municipi, sui 334 esistenti, sono stati interessati dalle violenze e in modo circoscritto. Gli obiettivi che le destre hanno preso di mira, indicano i loro programmi: strutture pubbliche, ospedali pediatrici gratuiti, cliniche veterinarie ambulanti, afrodiscendenti bruciati vivi… Con Maduro, il salario minimo e le pensioni sono aumentati fino a oltre il 130%. Maduro intende affrontare le difficoltà economiche fuori dal modello Fmi, che peraltro è stato espulso dal paese. Per costruire un nuovo modello economico che generi ricchezza emancipandosi dalla dipendenza dal petrolio, non si chiedono sacrifici al popolo, ma lo si tutela e organizza. Questo emerge dai lavori dell’Assemblea Nazionale Costituente, lanciata da Maduro il 1 maggio e per la quale, il 30 luglio, sono stati eletti 545 partecipanti, provenienti da diversi settori sociali, soprattutto lavoratori. Maduro è un ex operaio del Metro, sindacalista, con un passato giovanile nei gruppi di estrema sinistra. Il suo intento dichiarato è quello di approfondire la “rivoluzione bolivariana” iniziata da Chavez, immettendola in modo irreversibile nel cammino della transizione al socialismo.
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