Sottrarsi allo schematismo delle appartenenze. Per non rinunciare al molteplice, al complesso che c’è in noi. L’argomento tocca, anche, il concetto di identità su cui avevo già scritto ampiamente. Siamo, per prima cosa, esseri umani e poi, forse, una fede religiosa ci possiede, così come una fede politica. Siamo parte di una comunità nazionale, regionale, cittadina, di una famiglia, di un gruppo di interessi, di una classe sociale. Non potremo mai essere una sola cosa: chi lo sostiene è in cattiva fede. L’identità è un puzzle impossibile da completare.
Il messaggio di civiltà che ci ha lasciato il premio Nobel Ivo Andrić ha a che fare con la possibilità (la promessa?) di una ricomposizione armoniosa dei conflitti, coscienti che, alla fine, le differenze brandite come spade sono solo un arma impugnata per disperazione, ignoranza od opportunismo. Egli non aveva mai pensato in termini di facile ottimismo (era, al contrario, ben dotato di pessimismo della ragione), bensì fermamente convinto che la pedagogia ed un uso educativo della storia potessero segnare la differenza nella battaglia per un mondo migliore. Il suo attaccamento all’idea jugoslava, alla quale rimarrà fedele fino alla morte, caratterizza la peculiarità dell’uomo e del progetto. Un progetto di condivisione e convivenza in una realtà statuale plurinazionale in grado di essere involucro e volano di progresso per tutti. Un progetto statuale e politico che, è bene ricordarlo, includeva anche la minoranza italiana, come altre minoranze presenti sul territorio dell’ex-Jugoslavia, sia prima che dopo l’esodo giuliano-dalmata.
L’esperimento è fallito. Crollato sotto le contraddizioni interne delle piccole classi dominanti regionali, a causa dell’aiuto interessato di una parte dell’Occidente che ha visto nella dissoluzione della Jugoslavia un’opportunità per rimettere in discussione ruoli e strategie imperiali (Germania in primis). E’ crollato perché alla classe dirigente occidentale servono braccia e materie prime che qui scarseggiano. Ma, tuttavia, l’esperimento è fallito dopo decenni di successo. Il fallimento finale è stato sul piano economico, politico e culturale. E’ una classe dirigente intera che ha fallito, ma nel senso che non è stata capace di trovare la forza per portare ancora avanti, come risultato incontrovertibile, il proprio progetto. Non è stata in grado di opporre una forza almeno uguale e contraria a coloro che la volevano far fallire.
Tuttavia, dobbiamo ricordare che l’unità del progetto federale jugoslavo ha avuto dei contrari in patria, soprattutto nelle file di coloro che si erano costruiti delle ricchezze non sempre lecite dentro e fuori quel paese. Molti dei contrari, come gli ipernazionalisti Tudjmann e Izetbegovic, solo per fare due esempi, sono stati lasciati costruirsi uno spazio politico personale all’interno della Lega dei Comunisti e, come nel secondo caso, a fare il professore seminando odio anti-nazionale in Bosnia, episodio per cui fu condannato a 14 anni di reclusione di cui 6 scontati. Tuttavia, ancora, se non ci fossero stati dei distruttori che sobillavano, nelle cancellerie austro-tedesche, e statunitensi, ed armavano i contendenti, non avremmo avuto la soluzione che abbiamo avuto.
Su di un piano strettamente letterario, il suo lavoro è stato giudicato a volte, addirittura, come opera di un dilettante, altre come quella di un genio. Gli scandinavi, coloro che assegnano i premi Nobel, non sono dei trogloditi ed hanno una visione spassionata e progressista della storia e della cultura. Chi lo giudicò di bassa statura intellettuale era decisamente contrario alla sua visione politica unitaria, tollerante, contro la violenza e per il prevalere della cultura e del ragionamento in ogni questione. E i risultati, in effetti, si sono visti: si è alfine realizzato, nei Balcani, ciò che i suoi detrattori speravano. Eccoci, perciò, di fronte a dei paesi senza riferimenti, etnicamente ripuliti, sotto ricatto finanziario, considerati solo come bassa forza lavoro o vittime di rapine delle proprie ricchezze naturali. Se questo era l’obiettivo, ci sono riusciti.
Il Ponte sulla Drina, sua opera letteraria miliare, è un affresco storico della Bosnia in cui si realizza la necessità di Andrić di poter “narrare liberamente”. Quel narrare la Bosnia, la sua storia, includeva la sua totale immedesimazione e compenetrazione come autore, in quel paese, in quei sentieri e viottoli, in quelle chiese e minareti. E’ la prova del suo amore totale verso la storia sua e di coloro che lo precedettero. La costruzione di ponti era l’atto d’amore dell’autore verso i popoli che abitavano quelle terre. Anche ne La cronaca di Travnik l’autore descrive con minuzia le divisioni culturali fra gli abitanti, la cui quiete è disturbata dagli eventi, dopo l’istituzione di due uffici consolari nella cittadina, l’uno napoleonico, l’altro autroungarico. Anche qui, l’imperturbabilità della vita che scorre ignara, come in Tolstoj, fa da sfondo alle generazioni che passano nel punto più controverso d’Europa: quello dove si gioca lo scontro tra Oriente e Occidente.
Il suo comportamento discreto, profondamente scettico e tuttavia deciso nel capire quale fosse la soluzione meno peggio, soprattutto in politica, e ad appoggiarla, era il suo tratto distintivo, di maggior rilievo. Il suo porsi molto asciuttamente, senza fronzoli, seriosamente, con pudicizia e timidezza, raramente indulgendo a vacuità di qualche tipo è un tratto tipico del linguaggio del corpo delle popolazioni balcaniche, a pari merito con un grottesco tono sarcastico, risultato delle lunghe sofferenze e dell’asservimento secolare, dei popoli slavi meridionali. Cosa quest’ultima, imprescindibile, se si vuole veramente capire quella storia, quelle persone, quelle scelte di unità territoriale nella federazione del dopoguerra. Scelte in parte forzate e colme di opportunità contingenti, ma pur sempre creatrici di nuove familiarità, fraternità, dialogo.
Torna utile ricordare, inoltre, che egli visse a Trieste tra il 1922 e il 1923, diplomatico a Palazzo Skulijevic in Piazza Venezia, rappresentante di quel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni appena usciti dalla prima guerra mondiale. Fu testimone, quindi, della politica fascista indirizzata alla cancellazione del pluri-secolare retaggio asburgico da una parte e impegnata a distruggere la cultura, l’economia e l’immagine degli slavi del sud, per mezzo di un martellante razzismo che, bisogna ricordarlo, ha messo radici nella Venezia Giulia ed ancor oggi non è stato del tutto debellato.
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