di Sergio Mauri
Karl Paul Polanyi (1886-1964) è stato uno dei più influenti pensatori del XX secolo, particolarmente noto per il suo lavoro nel campo dell’economia politica e della sociologia economica. La sua opera più celebre, “La grande trasformazione”, pubblicata nel 1944, ha lasciato un’impronta indelebile nel dibattito intellettuale sul capitalismo, sulle sue crisi e sul ruolo dello Stato nell’economia.
Nato in Ungheria, Polanyi visse e lavorò in diversi paesi europei prima di trasferirsi negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Il suo background multiculturale e la sua vasta esperienza personale influenzarono profondamente il suo pensiero, che fu plasmato anche dagli eventi tumultuosi del suo tempo, tra cui la Grande Depressione e la crescita del totalitarismo in Europa.
Il nucleo della teoria di Polanyi si concentra sulla critica del libero mercato e sulla necessità di una regolamentazione statale dell’economia per proteggere la società dalle sue stesse forze distruttive. Secondo Polanyi, la visione del mercato come un sistema autonomo separato dalla società è un’illusione pericolosa. Egli sostiene che il capitalismo non può esistere senza un contesto sociale e istituzionale che lo sostenga e lo regoli.
Una delle sue principali argomentazioni è che il libero mercato non è una condizione naturale dell’umanità, ma piuttosto una costruzione sociale che richiede costanti interventi e regolamenti per funzionare in modo equo e sostenibile. Polanyi identifica tre istituzioni chiave che hanno permesso al capitalismo di emergere e prosperare: la terra, il lavoro e il denaro. La sua analisi rivela come queste “merci fittizie” siano state sottoposte a processi di commodification, cioè trasformate in oggetti scambiabili sul mercato.
Secondo Polanyi, la “doppia mossa” del capitalismo consiste nel tentativo di svincolare queste istituzioni sociali dal controllo sociale e di sottometterle alle leggi del mercato. Tuttavia, egli avverte che questa “auto-regolazione” del mercato porta inevitabilmente a crisi sociali ed economiche, poiché mina le basi della coesione sociale e della solidarietà umana.
Nella sua analisi storica, Polanyi identifica il XIX secolo come un periodo di “liberismo di mercato”, in cui le forze del capitalismo selvaggio e della deregolamentazione hanno portato a profonde disuguaglianze e a una crescente instabilità sociale. Le crisi economiche e sociali di questo periodo hanno scatenato reazioni politiche e sociali, che hanno portato all’adozione di politiche di protezione sociale e di intervento statale nell’economia.
La Grande Depressione degli anni Trenta è stata vista da Polanyi come una diretta conseguenza del tentativo di applicare il liberalismo di mercato in modo assoluto. Le sue conseguenze disastrose hanno portato alla creazione di nuove istituzioni e regolamenti statali volte a mitigare gli effetti devastanti del capitalismo non regolamentato.
Tuttavia, Polanyi avverte che il percorso verso una maggiore regolamentazione e protezione sociale non è lineare e che il capitalismo può ancora minacciare la coesione sociale e l’equilibrio ecologico. Egli osserva che le forze del libero mercato sono costantemente in conflitto con i bisogni umani fondamentali e con i limiti del mondo naturale.
La sua visione è quella di un’economia incastonata nella società e nella natura, dove il benessere umano e la sostenibilità ambientale sono prioritari rispetto al profitto privato e alla crescita illimitata. Propone una riconciliazione tra economia e società, in cui lo Stato assume un ruolo attivo nel plasmare l’economia secondo i valori e gli interessi della collettività.
L’eredità di Karl Polanyi risiede nella sua critica radicale del capitalismo e nella sua proposta di un’economia orientata al benessere umano e alla sostenibilità ambientale. Le sue idee continuano a essere ampiamente discusse e contestate nel dibattito contemporaneo sull’organizzazione economica e sociale, offrendo un quadro concettuale prezioso per comprendere le sfide e le opportunità del nostro tempo.