[In solidarietà con quanti in Europa lavorano nella Pubblica Istruzione, ma anche in quella privata; con un occhio di riguardo particolare a coloro che lottano ancora per la cultura e la conoscenza a fronte di una deprivazione culturale sostanziale a danno della società in Europa ed in particolare in Italia. Contro coloro che dichiarano che “in Italia di cultura non si vive”.]
La scuola, periodicamente, è al centro di polemiche, lotte, attenzioni da parte delle forze governative che, in qualche modo, hanno contribuito al suo sfascio, se non altro per non essere intervenute a bloccarne le degenerazioni, e dei mezzi d’informazione che hanno utilizzato la sua crisi creandovi artificiosi dibattiti e mercificazione delle notizie. In questa situazione di oggettiva crisi permanente dell’istituzione scuola, dalla sua spettacolare apertura nel ‘68, nessuno, tantomeno il mondo politico, nelle sue più varie articolazioni, ha avuto il coraggio di inquadrare il fenomeno nel suo naturale contesto: la crisi economica mondiale. La fine della ricostruzione, la rottura degli accordi di Bretton Woods, segnano un’epoca. E’ da qui che dobbiamo partire per qualsiasi discussione sulla crisi istituzionale, sociale, politica e, nel mondo delle idee, di valori della società attuale. Noi viviamo in un sistema post-ideologico e post-politico, dove le grandi linee guida del passato non hanno più corso, dove la crisi – che rappresenta la messa in discussione di un sistema politico ed economico – non ha alternative credibili. Non solo; viviamo in un sistema in grado di assorbire tutte le manifestazioni prodotte da questa crisi trasformandole in una parte del proprio modo di essere: il mercato.
A livello politico, da un pò di tempo, una prima parte dello scontro è tra un’idea di scuola pubblica e una di scuola privata. I sostenitori della scuola pubblica hanno sempre detto che non si può riconoscere come pubblico un insegnamento istituito o impartito da una parte. Su questo principio essi fondano le proprie posizioni e sviluppano il discorso dicendo che caratterizzante il sistema pubblico è lo svincolo, in chi insegna come in chi apprende, a qualunque vincolo di idee. Questo perchè la Repubblica è basata sulla libertà di pensiero, insegnando la molteplicità delle idee senza dimenticarne nessuna. Questa, essi hanno sempre sostenuto, è la democrazia. Chi, invece, sostiene la scuola privata (confessionale o aziendale), parte dal ragionamento che la società è ormai adulta e che lo Stato non è altro che un contenitore di diverse comunità che possono decidere per i propri figli la formazione che meglio credono a spese dello Stato contenitore in quanto anche raccoglitore di tasse. In particolare, la parte cattolica ha sempre preteso il sovvenzionamento pubblico, aggirando il divieto “senza oneri per lo Stato”, dicendo che: se si somma la libertà di istituire scuole, garantita dalla Costituzione, al diritto allo studio, garantito anch’esso, il divieto costituzionale appare smentito dalla Costituzione stessa. Lo Stato, visto come quantità di forme diverse (somma delle comunità) piuttosto che come qualità delle relazioni sociali (garanzia di imparzialità fra tutte le parti in causa). In sintesi, per costoro, ad ognuno la fede sua, la scuola sua, gli insegnanti suoi, gli allievi suoi, ma con i soldi di tutti.
Da qui in avanti, purtroppo, qualcuno si arrabbierà, ma la verità va detta. Anche se questa verità fosse solo mia, andrebbe detta lo stesso. Credo che la scuola pubblica non sia migliore di quella privata per una sorta di privilegio di nascita o di pulizia morale, poiché parla a nome di una collettività di cui rappresenta – univocamente – realtà ed interessi diversi. Nella scuola pubblica, da sempre albergano corruzione, scarsa professionalità, repressione ideologica in nome di un “libero Stato democratico”. Essa è, inoltre, serbatoio di posti di lavoro per un ceto medio intellettuale che cerca garanzie e soddisfazione alla propria esigenza di inserimento sociale in posizione di mediazione tra i grandi interessi e gli strati sociali bassi, condannati ad un ruolo meramente esecutivo. Ed è finanziata in maniera, appunto, pubblica da chi paga le tasse (statistiche alla mano) che per circa il 75% circa è un lavoratore dipendente con qualifica operaia o assimilata. Il funzionamento della scuola non cade dal cielo, ma è possibile grazie ai quattrini che queste persone pagano già in busta paga. Questi, pagano abbondantemente il diritto allo studio dei propri figli. La scuola privata, specularmente, viene finanziata sempre dai soliti noti (per lo più lavoratori dipendenti come abbiamo visto), ma anche attraverso altri canali: “strappi” alle finanziarie, Regioni, Comuni, aziende. Essa non è moralmente migliore di quella pubblica e il suo discreto successo si fonda su alcuni presupposti di privilegio (e sfruttamento): bassissimi costi del personale ecclesiastico, costi minori degli insegnanti nelle scuole private, agevolazioni delle strutture vaticane e finanziamenti delle banche vaticane (si parla tanto di IRAP, ma loro lo pagano?), nonché degli organi ecclesiali addetti alla scolarizzazione.
Nei momenti di crisi economica in cui questo sistema non riesce a garantire i servizi alla collettività (sanità, istruzione, poste, trasporti, ecc…) che li ha pagati con le imposte, questi ridivengono ciò che erano sempre stati nel codice genetico della società capitalista (post-politica e post-ideologica quanto ci pare): merci da comprare sul mercato. I servizi ridivengono quindi oggetto di possibile profittabilità, centro d’interessi economici. Sappiamo che c’è una strategia che lo Stato legittima implicitamente per far naufragare il settore pubblico e farlo diventare un ghetto per i poveri che non possono permettersi di pagare una seconda volta un servizio che si sono già pagati in busta-paga. (Magari quei soldi servono a pagare gli interessi sul debito pubblico o altro ancora). Lo Stato, allora, deve divenire esplicitamente un comitato d’affari per i vari potentati economici in cerca di lucrosi affari.
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