Esiste una tradizione profonda, una cultura così radicata (in Occidente) che riesca a innervare anche la politica, i suoi segni e i suoi valori? Un qualcosa di pre-politico che sia la matrice ultima dei fenomeni sociali che la politica vorrebbe rappresentare? E’ uno dei temi del libro, bellissimo, di Luciano Canfora, grande intellettuale italiano di formazione comunista. Proprio da questo tema vorrei partire nella mia recensione, mentre poi, accennerò soltanto a ciò di cui il libro tratta.
Il tema della cultura profonda è strettamente collegato con quello (anche molto caro al Canfora) della gestione, nel tempo, del potere. Il potere in quanto fenomeno di questa cultura profonda. Secondo Canfora, ed io ad un certo livello che poi spiegherò, c’è uno stretto legame tra radici culturali di una determinata collettività umana e conservazione del potere. Ovvero; ogni collettività umana organizzata conserva il potere in uno specifico modo, in un modo tutto suo, attraverso gesti, costumi e atti peculiari.
Tuttavia, uno degli aspetti del libro è quello di evitare, come sempre nei libri del Nostro, di parlare della dinamica della lotta sociale per porsi ad un livello alto, di astrazione filosofica. Il potere come cosa in sé che non tocca e non è il prodotto della dinamica della lotta fra le classi, dei rapporti di forza tra le classi stesse. Inutile dire che non era il tema del libro poiché l’autore sa benissimo come potere e lotta di classe siano inscindibili.
Qui, a mio avviso, cade il primo “asino”. L’argomentazione mi sembra esoterica, spiritualista. Non materialista e, ancor meno, marxista. Che per uno storico comunista non è male come intoppo!
A prescindere da ogni altra considerazione, lo storico Hobsbawm spiegava molto bene che cosa fosse la tradizione, che definiva come un’invenzione e, quindi, in definitiva, come una falsificazione. Ricordo che la tradizione è parte integrante di quella che chiamiamo cultura profonda.
La domanda, quindi, che si ricollega alla tesi di Canfora è: esiste qualcosa di più forte delle determinazioni sociali immediate, ma al contempo storicamente determinate? E’ possibile che, delle forze esterne ai rapporti fra le classi e alla lotta che tra di esse impera, siano preponderanti e possano dirigere la storia?
Marx stesso aveva svelato l’arcano spiegandoci che le ideologie, le culture, le religioni, sono il risultato di un lungo processo storico in cui è la lotta fra le classi, cioè la dinamica concreta della società nelle sue articolazioni e divisioni oggettive ad averne determinato la nascita e l’evoluzione, quella forma particolare, quella peculiare espressione storica.
Se la tesi di Canfora fosse fondata, non ci sarebbe bisogno della lotta di classe, del confronto sociale e nemmeno della mediazione sindacale degli interessi contrapposti, anzi, smonteremmo il principio della necessità di ribellione dei subalterni – uno dei fondamentali del marxismo (e non solo, ma della società capitalistica in generale) – e verrebbe non solo a mancare, ma sarebbe disinnescato con tutta la gioia di chi, sullo sfruttamento di molti, vive. Proprio in virtù del fatto che , secondo Canfora, la lotta di classe non serve ed il punto è semplicemente quello della continuità (certamente non letterale) del potere. Proprio di ciò si tratta; di una liberazione apparente della semplice sostituzione dei vertici, di un mero cambio di segno o, se preferite, di facciata. Il potere, per come lo conosciamo, è destinato ad esistere sempre e comunque, mentre il socialismo, prima e fondamentale fase nella lunga strada della costruzione del comunismo, una società di liberi ed uguali, non farà altro che riprodurre gli schemi del capitalismo poiché è nella struttura profonda dell’umano, nella sua cultura più profonda, ad esserci la soluzione ai quesiti del mutamento sociale e, questa cultura profonda, non è da ricercare mettendo in discussione relazioni sociali ingiuste, bensì nel riconoscere una continuità con queste, perché – dopotutto – non solo le potenzialità e i sentimenti dell’uomo, ma la sua storia non sono altro che ripetizione perpetua di un lancio di dadi i cui risultati, nella loro sommatoria finale, saranno sempre gli stessi.
Il libro, scritto in modo scorrevole e con densità di argomentazioni e di notizie spazia lungo un percorso di falsificazioni e costruzioni di fatti a posteriori. Da Stalin che fa sparire il famoso testamento di Lenin per farlo poi ricomparire ritoccato un anno dopo, al famoso diario mancante di Gramsci e alla lettera di Ruggiero Grieco, indirizzata allo stesso Gramsci in carcere, di cui si è già parlato in altre uscite editoriali, ma dopo decenni di reticenze e semi-falsità. Molto godibile la parentesi cinese, con l’operazione di riconciliazione dopo la morte di Deng Xiaoping, affidata ad una lettera fatta pubblicare ad Hong Kong. Da leggere con molta attenzione.
Un percorso di cui non vi racconterò i particolari, lasciandoveli scoprire e gustare fino in fondo, ma nel quale alcuni ci fanno una pessima figura: uno per tutti proprio Stalin. Il buon vecchio georgiano la cui figura è stata sempre al centro di feroci polemiche e di concreti timori, ma del cui potere concreto all’epoca dei fatti ormai non c’è più alcun dubbio. Fu il risultato di un falso! Ovviamente, la cosa non è così semplice, poiché Stalin rappresentava, a quel tempo, al meglio la continuità della classe dirigente sovietica e la possibilità di sopravvivenza dello Stato nato dalla rivoluzione socialista del ’17.
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