Il famoso trattato di strategia militare attribuito al generale Sun Tzu, vissuto – si pensa – fra il 6° e il 5° secolo a.C. in Cina, è uno di quei testi che possiamo definire “virali”, tante sono le citazioni che lo riguardano. Tanto è vero che ne è stata tratta una versione adattata al mondo del business. La sorte di Sun Tzu, parimenti a quella di un filosofo cinese di grande interesse come Confucio, è stata certamente simile a quella di tanti uomini occidentali come il nostro Machiavelli o Erasmo da Rotterdam, per non citare poi la tradizione greco-romana, che sono divenuti – nel bene e nel male – dei punti di riferimento e di paragone costanti nel tempo ed argomento di interrogazione della contemporaneità.
Dal mio punto di vista, l’interesse precipuo di quest’opera risiede nel suo essere un cameo della cultura cinese. Un frammento in grado di riprodurre il tutto, una tessera che si inserisce perfettamente nel mosaico complessivo, nel disegno globale plurimillenario di quel continente.
Come si compone, dunque, questo cameo? Esso si compone di tutti i tratti caratteristici della cultura cinese, ad iniziare dalla tendenza a rimanere “coperti”, a non far emergere i propri pensieri profondi, a non essere espliciti nelle proprie scelte e strategie di vita (politiche, militari, sociali) a dir poco, cercando – sempre e comunque – di evitare il confronto. La cultura cinese che tende sempre all’equilibrio (una legge fisica universale, peraltro) cercherà sempre di evitare lo scontro, anche quello preventivo, in virtù dell’intrinseca capacità della realtà a sistemarsi da sé. Può succedere, anche se non è certo, che una questione problematica cambi qualitativamente la sua essenza nel corso del tempo, anche di un tempo breve, fino a renderla qualcosa di diverso, magari inoffensivo.
Questo ha a che fare con la questione dello spreco di energie: perché sprecarsi in anticipo, se poi le cose si sistemano da sole o cambiano strada? L’evitare ostacoli è, infatti, un’altra delle caratteristiche del caso. Evitarli piuttosto che affrontarli.
C’è poi tutta la questione morale, massimamente relativistica e fondata sulla constatazione della imperfezione umana, per il cui miglioramento, a conti fatti, non si possono concepire sforzi assoluti, tantomeno “guerre sante”. L’equilibrio va continuamente ricercato, il mondo, anche nella sua follia, ha un senso per come è ed è inutile cercare di porvi rimedio ideologicamente o religiosamente. Altro discorso, invece, ha a che fare con il benessere materiale, punto sul quale ad esempio il buddhismo fornisce un substrato ideologico fondamentale. Il miglioramento delle condizioni materiali di tutti è il veicolo per il primeggiare di tutti, ma senza rimanere gli unici, tanto basta essere i primi e ritagliarsi uno spazio d’azione il più ampio possibile.
Potremmo riassumere queste sfaccettature della cultura cinese nel concetto di pragmatismo. Ovvero; quelle elencate sono tutti epifenomeni che appartengono al fenomeno principale, all’insieme che li riunisce, che si chiama pragmatismo. Il cinese medio, infatti, è sempre molto pragmatico, persona concreta e che bada al sodo, a prescindere da certe inclinazioni festaiole che la cultura cui appartiene esprime. Questo è un punto a cui prestare molta attenzione quando parliamo di Cina e della sua cultura; è un punto molto presente nel testo citato e non a caso.
Questi, secondo me, sono i temi importanti ed in buona parte evocati parallelamente al testo in questione ed i motivi per cui esso merita di essere letto e compreso.
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