Il tema è quello dell’identità che ognuno di noi ha, non ha, crede di o vorrebbe avere. Un tema difficile, complesso, praticamente impossibile da maneggiare, visto che è continuo il rischio che la questione degeneri sfuggendo di mano. Forze politiche e religiose hanno costruito e continuano a blandire veri o presunti fondamentalismi identitari con la tecnica della paura; con la strategia dello slogan ricattatorio e terroristico; con l’agitazione di conflitti inattuali o addirittura inesistenti.
Eppure, una chiave per comprendere chi siamo e come possiamo vivere assieme agli altri in modo consapevole ed equilibrato, ci deve pur essere. Prenderemo in esame 3 punti di vista interessanti, uno del videomaker Elio Scarciglia, l’altro dello scrittore Amin Maalouf autore del libro L’identità e, infine quello dello scrittore e critico d’arte Robert Hughes, tre persone in apparenza diverse, ma che, nell’affrontare il tema, giungono a conclusioni simili. Potremo così articolare, argomentandolo, un nostro discorso nel merito.
Elio Scarciglia, da me interpellato appena prima di iniziare le riprese per il video Prima di tutto l’uomo, che in parte affronta anche il delicato tema dell’accettazione delle diversità, rispose al mio quesito premettendo che, secondo lui, la cosa per cui noi umani viviamo, talvolta senza averne piena coscienza, è la relazione con l’altro da sé, una relazione che ha a che fare con l’esigenza di conoscere l’altro confrontandovisi. Un confronto tra mondi, temperamenti, caratteri, identità, appunto. L’identità, aggiunse, non può essere altro che la storia strettamente personale di ognuno di noi; ciò che ci fa e ci identifica è la nostra storia, nostra e di nessun altro, irripetibile. Quale è il meandro più profondo in cui l’identità di nasconde? Nelle piccole cose che più sono piccole più sono significative, più danno il dettaglio in grado di individuarci chiaramente di fronte agli altri e a non confonderci con essi. Il dettaglio è ciò che ci delinea in modo indubitabile.
La definizione che da Amin Maalouf dell’identità è molto simile. Il suo testo, tuttavia, completa ciò che abbiamo già affermato assieme ad Elio Scarciglia. L’identità, egli dice, è un qualcosa che integra, riempie, arricchisce ed unisce. E’ un qualcosa che si forma continuamente, cambia, trasvaluta nel divenire delle nostre vite. Non è dato una volta per tutte. Non è statico né fermo. Non potrebbe, d’altronde, esserlo visto che l’uomo non è un essere radicato allo stesso modo in cui può esserlo un albero: in un unico posto per tutta la sua vita.
E’ falso, dice, affermare che ci sia, in ognuno di noi, una sola appartenenza, come se, dalla nascita, avessimo una matrice data una volta per tutte, senza che le esperienze quotidiane, i conflitti, le vittorie e le sconfitte in qualche modo contassero nella nostra formazione di esseri umani. Scegliere soltanto una di queste appartenenze, rifiutare la complessità emarginando tutto ciò che non ci piace o ci responsabilizza particolarmente o, ancora, ci estromette da un gruppo sociale, ci danneggia psicologicamente, distrugge una parte costituente di noi stessi.
Secondo Amin Maalouf, scegliere proditoriamente soltanto una delle componenti della sua personalità si scontra con questa realtà di fatto:
che si tratti della lingua, delle credenze, del modo di vita, delle relazioni familiari, dei gusti artistici o culinari, le influenze francesi, europee, occidentali si mescolano in me ad influenze arabe, berbere, africane, musulmane… Un’esperienza arricchente e feconda se il giovane si sente libero di viverla pienamente, se si sente incoraggiato ad assumere tutta la propria diversità; al contrario, il suo percorso può risultare traumatizzante se, ogni volta che si dichiara francese, certuni lo considerano come un traditore, addirittura come un rinnegato e se, ogni volta che afferma i suoi legami con l’Algeria, la sua storia, la sua cultura, la sua religione, si trova esposto all’incomprensione, alla diffidenza o all’ostilità.
Sul tema dell’identità, Robert Hughes nel suo libro La cultura del piagnisteo, fa delle affermazioni interessanti affermando che:
La comunità americana non ha altra scelta che quella di vivere prendendo atto delle diversità; ma quando le diversità vengono erette a baluardi culturali ne viene distrutta.
Aggiungerei che le diversità, per essere feconde, devono vivere nel reciproco rispetto che significa soprattutto reciproca conoscenza e, in parte, immedesimazione. Senza questo impegno attivo e costante non possiamo costruire una civiltà degna di questo nome.
La stessa cosa succede e, soprattutto è successa nella terra in cui vivo: Trieste. Una pluralità di nazionalità, con dei confini culturali e linguistici piuttosto labili che si sono sentite minacciate dall’altro da sé, anche quando questi era il suo vicino o un suo familiare. Una serie di costrutti ideologici creati dalle classi culturalmente evolute che andavano a fornire carburante alle opposte necessità di affermazione economica e sociale. Il filo conduttore di queste ideologie dei “distinguo” è stato quello di evidenziare le differenze, di buttare a mare le ricchezze culturali e di relazione, in nome di una scelta univoca e selettiva che amputava parti consistenti di storie personali, riduceva ad uno la complessità e l’articolazione di tutti i discorsi. L’abbandono del buon senso che voleva valorizzare le molte appartenenze che compongono ognuno di noi otteneva, come risultato, un mondo più povero e diviso. Sicuramente meno tollerante. Oggi, dopo l’afflusso di nuovi immigrati soprattutto dall’ex Jugoslavia ed in assenza di un collante ideologico superiore, come poteva essere quello dell’Impero Asburgico, si ripropongono, potenzialmente, nuove esclusioni, nuove reciproche ghettizzazioni.
Sul tema, trasponendolo nella realtà americana, vediamo come si esprime Robert Hughes:
Questo [gli Stati Uniti, ndr] è sempre stato un paese eterogeneo e la sua coesione, poca o tanta che sia, può basarsi soltanto sul rispetto reciproco. Non c’é mai stata un’Amercia quintessenziale in cui tutti avessero lo stesso aspetto, parlassero la stessa lingua, adorassero gli stessi dei e credessero nelle stesse cose. Anche prima dell’arrivo degli europei, gli indiani non facevano che saltarsi alla gola a vicenda. L’America è una costruzione della mente, non di una razza o di un ceto ereditario o di una terra ancestrale.
Amin Maalouf, da parte sua, insegna a diffidare delle parole, anche di quelle apparentemente più chiare e nette. Per questo è necessario chiarire la nozione di identità, non nel senso di rifondarne il significato ontologico, ma per ribadirne i contorni in modo da capire di che cosa stiamo parlando. L’identità di un individuo è ciò che fa si che egli non sia identico a nessun’altra persona. Nemmeno la clonazione sarebbe in grado di creare due individui identici: lo sarebbero, al limite, solo al momento della “nascita”, subito dopo comincerebbero a diversificarsi. Inoltre, in virtù delle sue appartenenze prese separatemente, l’individuo ha una certa parentela con un gran numero di suoi simili; attraverso gli stessi criteri, presi tutti insieme, possiede la sua identità personale che non si confonde con nessun’ altra. Quindi, riassumendo, potremmo affermare che con ogni essere umano abbiamo alcune appartenenze in comune, ma che nessuna persona al mondo condivide tutte le nostre appartenenze.
Perciò; l’identità è costituita da una moltitudine di elementi, virtualmente illimitati; tutte le appartenenze dell’individuo non hanno la stessa importanza e comunque non nello stesso momento. Nessuna di esse è del tutto insignificante; partecipano alla costituzione della personalità e, per lo più, non sono innate. Tutti questi elementi si ritrovano in tutti gli individui sebbene mai nella stessa combinazione. Gli avvenimenti delle nostre vite, affermano Scarciglia e Maalouf, sono capaci di influire di più sul nostro sentimento di identità ed appartenenza rispetto ad una retaggio millenario. Una persona nata da un matrimonio misto o che a sua volta si sposi o stringa un significativo rapporto di amicizia con qualcuno che stia al di fuori del proprio gruppo religioso, nazionale, etnico, non potrà più vedere le cose e, soprattutto, le questioni identitarie con gli occhi di prima o dall’angolazione presuntuosamente monolitica di coloro che pensano di essere fatti in un modo solo. E, soprattutto, collocheranno la questione ad un livello di importanza differente rispetto a come facevano prima e rispetto agli altri individui. E, forse, possiamo dire che sono proprio queste esperienze o questi dati di fatto ad essere necessari per comprendere veramente la complessità del mondo. Coloro che non hanno o non vogliono ammettere di avere confidenza con queste complessità, è probabile siano affetti solo da paura ed ignoranza, nel senso di una mancanza di consapevolezza sulle proprie origini.
Sugli oppositori della molteplicità di elementi che compogono l’identità culturale, afferma Robert Hughes:
…neoconservatori che fanno del multiculturalismo un babau (come se la cultura occidentale fosse mai stata altro che “multi”, vitale grazie al suo eclettismo, alla sua facoltà di felice emulazione, alla sua capacità di assorbire forme e stimoli “stranieri”)…
Infine: il sesso o il colore della pelle sono determinanti per l’identità? Sesso e colore della pelle sono delle caratteristiche fisiche date dalla nascita. A dire il vero, tuttavia, nemmeno questi due elementi sono sempre innati e, comunque, non lo sono gli altri, quelli più strettamente collegati alla sfera spirituale o a quella culturale. Elementi come il sesso o il colore, per quanto determinanti, hanno sull’esistenza delle persone un significato profondamente diverso: nascere donna in Pakistan o in Nord Europa non è proprio la stessa cosa, come per un uomo non è lo stesso nascere a Vienna o a Bagdad. Lo stesso si potrebbe dire per la questiona del colore. Un nero, a seconda del luogo di nascita, fuori o dentro il continente africano, in America Latina o in Europa, dovrebbe affrontare questioni culturali e/o legislative molto diverse tra loro, proprio come riflesso della considerazione che avrebbe all’interno delle varie comunità con cui entrerebbe in contatto.
Concludendo, ancora una volta ha ragione Amin Maalouf quando dice essere la concezione tribale dell’identità che prevale ancora nel mondo intero, favorendo
…una concezione ereditata dai conflitti del passato che molti di noi rifiuterebbero se la esaminassero più da vicino, ma alla quale continuiamo ad aderire per abitudine, per mancanza di immaginazione o per rassegnazione, contribuendo così, senza volerlo, ai drammi dai quali domani saremo sinceramente sconvolti.
Bisognerebbe, dunque, concepire la propria identità come risultante di molteplici appartenenze, alcune etniche, altre religiose o politiche, vedendo dentro di sé diverse confluenze, contributi e influssi. Solo in questo modo eviteremmo di schierarci pericolosamente, “noi” contro di “loro”. Nello stesso momento dovremmo affrontare seriamente il problema delle “comunità ferite” e risolvere, certamente, i loro problemi, ma senza scivolare mai, come invece spesso succede, nell’accondiscendenza verso atteggiamenti di vendetta o che esse (le vittime) si propongano come dei nuovi oppressori. Bisogna, inoltre, gridare con forza che la concezione “tribale” insita in tutti i conflitti identitari, non è per niente naturale e deve essere combattuta e fatta sparire dall’orizzonte umano, al pari di altre concezioni come la supremazia di un sesso verso l’altro, di una razza sull’altra, dell’uomo nei confronti della natura.
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