Facciamo l’esempio di un* cittadin* non particolarmente integrat* nella società, cioè di un cittadin* disoccupat*, senza grandi legami sociali, single e senza figli, come ce ne sono tanti nel nostro paese. Un cittadin* che, in più, non condivida i valori dominanti. Non è un esempio di integrazione riuscita. In parte questo cittadin* è integrat* in un meccanismo sociale che è fatto per integrat* e che – per propria autodifesa – la società, nel suo complesso, tende a difendere ad oltranza. Il suo livello d’integrazione, scarso, c’è quasi esclusivamente grazie al fatto che i suoi antenati hanno fatto molto più di costui/costei per integrarsi. E credevano nell’integrazione e nei suoi frutti. O, per meglio dire, credevano nella possibilità di trasformazione relativamente rapida della società in cui vivevano, in un senso positivo e confacente le loro esigenze quotidiane. La rapida trasformazione industriale, l’inurbamento, la scienza e la tecnica che prendevano piede velocemente cambiando radicalmente volto al mondo che li circondava.
Come pure avevano fiducia nelle modalità attraverso le quali arrivarci. C’era – peraltro – una dimensione del collettivo molto più ampia, chiara e riconoscibile di oggi. Si potrebbe, con una certa sicurezza e sostegno di argomenti, affermare che questo cittadin* sia piuttosto un esempio di rigetto bidirezionale (suo e di coloro che lo hanno rigettat*) e come tale considerat*. Mi sembra, inoltre, che dal punto di vista linguistico la parola integrazione sia tipica in chi detiene il potere per cooptare, controllare, rendere inoffensivi eventuali minacce al proprio ordine che viene chiamato società. L’integrazione non è un termine neutro, è anzi decisamente discriminante. Sottintende l’adeguamento ad un ordine preesistente la propria volontà e data di nascita. Nel momento in cui prefigura un dono (l’accettazione) pretende il pagamento di un debito (la propria identità) in nome del perpetuarsi della società, con i suoi pregi e difetti.
Difficile, a questo punto, dare una valutazione senza ombre e senza dubbi alla pretesa di integrare chi viene da fuori e non ci conosce bene o pur conoscendoci non ha intenzione di diventare uguale a noi. Perché non possiamo pretendere di accettare qualcuno solo se questo qualcuno ha prima accettato noi. Si tratta di una conditio sine qua non abbastanza ipocrita, che prefigura una sottile quanto subdola forma di violenza e discriminazione in chi viene sottoposto a questo tipo di esami. Rimane, oltretutto, pacifico che una discreta percentuale di italian* così come una considerevole parte di chi viene da fuori, amino integrarsi, magari proprio in quanto condizione per dimostrare il proprio successo sociale, in un mondo competitivo, non solidale, pieno di ostacoli.
Allora, è giusto, vale la pena integrarsi, è corretto portare avanti delle politiche atte all’integrazione, quando questa sia tutto meno che una scelta realmente libera, ragionata ed accettata a prescindere da quello che si ha in cambio (i fantomatici diritti da difendere o riconquistare)?
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