di Sergio Mauri
Niccolò Machiavelli è il fondatore della scienza politica. Prima di lui la politica segue – pedissequamente – la morale cristiana. Machiavelli è un pensatore amorale (non immorale!) della politica; secondo lui la politica deve trovare in sé e per sé ragioni e morali, non cercarle o farsele imporre dall’esterno. Egli, dunque, svincola morale e politica. Il suo è un approccio saggistico nel quale dispiega il metodo logico-deduttivo.
La politica è rapporto di forza, aggiramento dell’ostacolo (diplomazia). Sotto questo profilo egli individua due tipi di Principi: la volpe e il leone. La sua riflessione ha tre forze propulsive: la politica con una propria morale; la storia maestra di vita; la scrittura dilemmatica, a biforcazioni. Problema centrale de “Il Principe” è il rapporto fra virtù e fortuna. L’opera è composta di 26 capitoli raggruppati in 4 sezioni. Essa si apre con una lettera dedicatoria a Lorenzo di Piero de’ Medici. Le 4 sezioni riguardano:
1) l’analisi dei vari tipi di Principato;
2)la questione delle milizie;
3)le virtù del nuovo principe;
4)il tema della fortuna, ovvero della casualità, che si chiude con l’esortazione ai Medici affinché liberino l’Italia.
Machiavelli ci parla della grande crisi di passaggio dall’Umanesimo, soprattutto fiorentino, alla contemporaneità. Si tratta di un’epoca in cui tramontano certe utopie, ad esempio quella della concordia fra le filosofie, anche come premessa alla concordia politica. Queste utopie collassano tra ‘400 e ‘500. Siamo nell’epoca della scoperta dell’America e del passaggio dalla potenza delle città a quella degli Stati nazionali. Questi ultimi, grazie alla crisi dei Comuni prima e delle Signorie poi, invadono e si spartiscono l’Italia. Un’Italia debole e misera, come già la definivano Dante e Petrarca, politicamente e militarmente debole e misera.
Machiavelli pensa il mondo della grande crisi del passaggio tra l’Umanesimo e le sue utopie. Dal 1494 con la discesa di Carlo VIII° e poi di Luigi XIII°. Travolgono la Repubblica fiorentina, di cui anche Machiavelli era l’esponente. Poi il ritorno dei Medici, il sospetto che ricade sul Machiavelli di complotto contro il nuovo padrone. L’esilio di Machiavelli all’Albergaccio, vicino Firenze. Lì nascono il Principe e i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio. La differenza tra le due opere è questa: che nella prima si parla della fondazione di un nuovo Stato a partire dalla virtù di un singolo; nel secondo caso si affronta il tema della durata dello Stato. Nei Discorsi Machiavelli indica quale migliore forma di governo la repubblica “mista”, prendendo ad esempio quella romana, con un equilibrio interno di poteri.
Egli ritorna, poi, alla politica, ma con incarichi di basso profilo.
Per Machiavelli bisogna andare “drieto la verità effettuale” e non perdersi nell’immaginazione. Leopardi, grande ammiratore di Machiavelli, commenterà: la filosofia deve essere vera e dolorosa.
In Machiavelli è proprio così. Vero è ciò che è analizzabile e verificabile effettualmente. Questo principio si deve applicare all’uomo in generale, per cui la filosofia deve avere una visione realistica e disincantata della natura dell’uomo. Non ci devono essere illusioni sulla natura dell’uomo. Si possono modificare ordini e forme in cui la natura immutabile dell’uomo si esprime, ma non la natura stessa dell’uomo.
Gli uomini, egli sostiene nel Capitolo 17° del Principe, sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori” e “fuggitori di pericoli e cupidi di guadagno”. L’uomo, per sua natura, cerca sicurezza, cerca ordini che lo mettano al sicuro. Principio essenziale dello Stato moderno contemporaneo.
Ma allora, come si fa a essere sicuri e contemporaneamente cupidi di guadagno? La contraddizione è viva e produttiva, da cui nascono continuamente conflitti e tumulti, ma questi fanno la ricchezza di una nazione. Impediscono che una nazione stia ferma. Quindi, la contraddizione è produttiva perché chiama continuamente alla costruzione di nuovi ordini, poiché gli uomini cercano di combinare costantemente l’esigenza di securitas con il bisogno di guadagno inteso nel senso più ampio possibile.
Precedentemente, nell’Umanesimo, l’uomo era immerso nella vicissitudine che aveva aspetti cosmici e astrali. Nel realismo machiavellico tutto ciò è praticamente assente. In Machiavelli l’uomo non è più prigioniero della vicissitudine, è egli stesso vicissitudine ininterrotta.
L’uomo è animale inquieto, produce inquietudine nel mondo. L’umanesimo si svolge quindi tra Leon Battista Alberti e Machiavelli in una visione di tragica antropologia dell’umano che si prolungherà fino a Leopardi.
Nella visione complessa di Machiavelli non solo l’uomo si adatta alla situazione ed è perfido, ma è anche capace di virtù, di elaborare progetti e muoversi per realizzarli. L’uomo è anche colui che, sfruttando la cupidigia generale, riesce a guidarla verso dei fini, degli obiettivi. Questo è l’uomo politico, questa è la virtù politica.
Il politico, quindi, è colui che attraverso le figure invincibili dell’uomo (l’uomo perfido, quello adattabile, eccetera) riesce a sfruttarne le energie realizzando delle idee. Il politico, quindi, non cerca di realizzare il “mondo come dovrebbe essere”, ma individua dei progetti realistici sulla base del mondo com’è, intravedendone gli esiti possibili che lo trascendono.
Quindi il politico è colui che ha la virtù di governare l’esistente per condurlo a dei fini.
Con quali mezzi? Con tutti i mezzi possibili!
Il fine si realizzerà se il Principe sarà in grado di costruire un nuovo ordine. Il politico, quindi, non fa ordine, ma crea un nuovo ordine. Deve far coesistere il bisogno di sicurezza con la cupidigia. Questa è la virtù. Per costruire il nuovo ordine il politico dovrà ricorrere a tutti i mezzi necessari. Quindi il politico non potrà mai essere innocente, “ma dovrà anche conoscere il diavolo”. Il male è necessario. Il politico è anche animale perché dovrà usare violenza e astuzia, essere leone e volpe per raggiungere un fine razionale.
Le idee del politico, senza l’uso della forza saranno disarmate se non inutili.
Per Machiavelli anche la dimensione profetico-religiosa ha la sua importanza, ma solo all’inizio del tumulto, mentre poi occorre un’organizzazione politica dotata di forza effettuale. Per Machiavelli all’arte della politica, allora, va aggiunta l’arte della guerra, altrimenti si rischia di essere dei profeti disarmati.
L’ordinatore è quindi innanzitutto un sovvertitore. L’ordine nasce dal tumulto, dalla contrapposizione.
Roma fu grande e libera grazie alle lotte tra patrizi e plebei, grazie ai tumulti che tengono vivo l’organismo romano che grazie alla contraddizione, senza una prevalenza definitiva, riesce a creare un ordine. Nella contraddizione e nel conflitto ognuno cercava un ordine superiore provando ad affermare il proprio senso di libertà.
Ciò che interessa Machiavelli è il potere che costituisce l’ordine, non le forme passeggere di esso (monarchia, repubblica) , gli interessa l’auctoritas. Ciò che conta è che il regime politico deve avere auctoritas. Quindi potremmo anche dire che il Principe è un’indagine sull’auctoritas.
Per Machiavelli il modo migliore per rovinare una Repubblica è quello di immobilizzarne la costituzione. Quindi: costituire un nuovo ordine; custodirlo con ogni mezzo; trasformarlo. Questa è l’auctoritas.
Come si fa a fare scienza di questo panorama politico instabile? La politica non è scienza, ma tekne, cioè arte, e milizia e politica si devono combinare, perciò la filosofia della politica la deve comprendere. La scienza politica deve rivolgersi alla individuazione delle regolarità. Non c’è una metafisica della politica, c’è un’analisi, una individuazione delle regolarità della politica su cui è possibile basare la prassi politica.
Bisogna individuare le norme e i principi fondamentali. Alcuni principi, regole, norme fondamentali, non i principi universali che non ci sono. Non leggi universali, ma alcuni principi regolativi. Regola fondamentale è che bisogna superare la dispersione dei poteri. Dai vari attori deve poi emergere un’auctoritas (il Principe), superare il conflitto divergente. Qui, allora, varrà ribadire che la “virtù” del Principe è la sua capacità di realizzare un determinato fine, e di sottomettere la “fortuna” (la casualità) seguendo le leggi naturali della politica intesa come scienza autonoma.
L’auctoritas deve sapere che per realizzare questo fine è necessaria una nuova milizia, dotata di forza non solo militare.
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