di Sergio Mauri
Scarica la versione PDF: Osservazioni sulla letteratura italiana degli inizi
Le origini e i Siciliani.
Iniziamo parlando del rapporto con la latinità medievale, con una civiltà letteraria imponente, al cui interno operano miti e forze intellettuali destinate a segnare in modo indelebile tutta la cultura dell’Occidente. Ciò è chiaro se pensiamo al classicismo, così vitale da sopravvivere alla crisi delle strutture sociali di cui era l’espressione e pensiamo al cristianesimo, messaggio spirituale dirompente che insinua nelle fibre del mondo medievale fino a caratterizzarne ogni aspetto pubblico, la scuola come le istituzioni etico-politiche.
Dal passato la nuova cultura letteraria deriva le sue nozioni fondamentali: il concetto di un’attività intellettuale che trascende ogni circostanza empirica e quotidiana pe disporsi su un piano di valori assoluti, occasioni di un irrinunciabile impegno pedagogico, di esemplarità e di edificazione morale. Dall’altra parte la conseguente tendenza a superare i particolarismi nazionali (le differenze etniche come le pressioni locali o municipali) per realizzarsi in una dimensione cosmopolitica, di più ampia circolazione delle idee, all’interno della quale il distacco da una realtà mediocre, fatta di sofferenze e di aspirazioni circoscritte eppure pungenti e vive, concorre a definire il privilegio dell’intellettuale europeo, la sua funzione di prestigio, ma anche di aristocratico isolamento.
La questione storiografica.
La nozione di “origine”, in relazione alla letteratura, è molto discutibile, smentita dalla persuasione che per i fenomeni storici e quindi culturali (letterari, linguistici, ecc…..) non si possa parlare di apparizioni improvvise, di una nascita in senso biologico e naturalistico.
Perciò, la nostra letteratura è la continuazione di quella latina, così come l’italiano dell’uso pratico può dirsi la continuazione della lingua latina. Questa affermazione deve estendersi all’intero territorio delle lingue romanze. Non esiste frattura fra il mondo classico ancor vegeto nei prodotti della latinità medievale e il mondo dei volgari nazionali, delle lingue e letterature emergenti nell’area romanza.
Il concetto di continuità, sostitutiva di ogni interpretazione delle “origini” in chiave catastrofica e antagonistica (come crollo della civiltà classica; dissidio fra mondo laico e clericale; opposizione delle lingue romanze al latino) si riassume nel concetto storiografico di tradizione. È un concetto che va inteso dialetticamente, riferito a un naturale processo evolutivo, scosso da tensioni interne, da forze centrifughe che, mentre esaltano l’attualità del passato, tendono a caratterizzarsi individualmente, nei vari centri dell’Europa medievale, come altrettante espressioni di una nuova cultura.
Tradizione classica e classicismo medievale.
Sintetizzando e schematizzando al massimo i risultati di un’indagine storica, è possibile indicare nella crisi dell’Impero romano e nella diffusione del cristianesimo i fatti più gravidi di conseguenze per le letterature delle “origini” romanze e perciò della nostra più antica letteratura. I caratteri fondamentali di essa sarebbero inspiegabili se non tornassimo alle vicende storiche e spirituali di un’Europa che assiste all’insediamento dei barbari nelle terre romanizzate e conosce l’irresistibile affermazione del cristianesimo, al costituirsi di una “Sancta romana respublica”, la cui forza espansiva e la stessa compattezza politica e amministrativa si fondano sull’intransigenza di una dottrina religiosa rigidamente monoteistica, aliena dal tollerante sincretismo del paganesimo e dei suoi culti.
Il classicismo come risorsa pedagogica è comune a tutta la cultura medievale. Si tratta di un elemento conservativo di primaria importanza senza il quale la tradizione non avrebbe resistito con altrettanta compattezza al conflitto ideologico scatenato dal pensiero cristiano. All’origine vi è la profonda persuasione che le lettere pagane abbiano in sé un patrimonio irrinunciabile di civiltà; un patrimonio che va rinnovato alla luce della vera religione, sottratto al principio della cultura intesa edonisticamente come “otium” e riportato a un fervido impegno divulgativo e di edificazione morale.
La prospettiva storica nel Medioevo.
L’assoluta mancanza di ciò che oggi definiremmo prospettiva storica può farci pensare al classicismo medievale come a una cultura scompostamente eclettica, disposta a tutto, incapace di distinguere la qualità di testi spesso lontanissimi tra loro. Eppure, quel modo di avvicinare il passato, apparentemente acritico e caotico, ha una sua logica. Essa si spiega quando si comprende che per la comune coscienza medievale ciò che importa non è capire il passato nella sua realtà obiettiva, scandendolo quindi nei suoi tempi reali e riferendolo di volta in volta alle correnti di pensiero che lo costituiscono nell’estrema varietà e mobilità della sua fisionomia. Ciò che importa è la possibilità di catturare una verità morale che, impressa nel passatocome una sigla indelebile, ne garantisce la sostanziale unitarietà offrendosi alla coscienza dei moderni con la magistrale efficacia di un messaggio univoco, compatto e coerente. Gli scrittori pagani, quelli cristiani, la Bibbia, gli scritti storici ed enciclopedici, eruditi e d’evasione, si ritrovano così sotto un’insegna che li accomuna disponendoli a un’interpretazione che trascende la lettera del testo, i suoi obiettivi contenuti, alla ricerca di un significato nascosto, elementare ed eterno. È qui la prima radice del simbolismo medievale, l’atteggiamento forse più caratteristico di quell’età.
Formazione del volgare.
È un fenomeno risalente a tempi molto remoti, risalenti almeno agli anni del principato di Augusto. In quel periodo si scoprono le prime tracce del lungo processo evolutivo che porterà alla dissoluzione del latino nei sistemi linguistici dell’Europa romanza. Il dato originario più importante è costituito dalla progressiva divergenza del latino parlato dalla lingua scritta. Le differenze affiorano nel periodo augusteo, ma il distacco dalla norma si accentua successivamente fino a indurre i grammatici a segnalare perentoriamente gli “errori” più comuni ed intollerabili. Nella cosiddetta “Appendix Probi” (secolo III°) un anonimo maestro di scuola ammonisce: “calida non calda”, “speculum non speclum”, “vetulus non veclus”, ecc.. I tentativi correttivi riguardano un moto ormai irrefrenabile di modificazioni linguistiche (segnatamente fonetiche nei casi sopra riportati) destinate in gran parte a confluire, con esiti diversi, negli idiomi romanzi.
Il complesso delle innovazioni fonetico-morfologiche che fin dall’età dell’Impero premono sulla norma grammaticale, pregiudicandone la stabilità, rientra nella nozione assai in uso di latino volgare. Si tratta di elementi disgregatori che operano dall’interno, per così dire: consuetudini espressive di una lingua di uso orale – che riguarda evidentemente anche il parlato delle classi colte e non solo quello di ascendenza plebea – tendente a costituirsi in un sistema alternativo rispetto al latino scritto, ma pur sempre soggetta a un meccanismo di interazione, d’influenza reciproca, per il quale la forza centrifuga è in qualche modo compensata dal richiamo di segno opposto della stilizzazione letteraria.
Stiamo parlando di una lingua che abbraccia un territorio estesissimo la cui relativa compattezza spirituale si fonda sul prestigio, l’efficienza politica ed amministrativa di Roma. La crisi dell’Impero accellera i fenomeni di differenziazione linguistica, sempre all’interno dell’organismo latino, già imponenti fin dall’inizio della colonizzazione romana.
Certamente notevole l’azione del sostrato, l’incidenza sulla lingua dei colonizzatori dei caratteri più vitali delle parlate indigene. Queste, in uso prima della romanizzazione e poi costrette a cedere all’autorità del latino, vi lasciarono la propria firma, determinando alcune particolarità di pronuncia e imponendo un certo numero di vocaboli relativi alla realtà locale (nomi di piante e animali, nomi di forme del suolo).
Alla molteplicità delle situazioni che caratterizzano la diffusione del latino nelle varie regioni dell’Impero rimanda un secondo fenomeno, il diverso modo dell’apprendimento a seconda della struttura sociale dei popoli sottomessi. A questo proposito possiamo osservare che l’assimilazione del latino attraverso ceti socialmente e culturalmente elevati (come fu in Gallia) offre le migliori garanzie di un buon uso linguistico tendenzialmente conservativo. Tali garanzie si riducono fino ad annullarsi nel caso opposto, di una penetrazione attraverso gli strati più umili e facilmente esposti a influenze eterodosse.
Il cristianesimo opera non solo in senso distruttivo, come un elemento di disgregazione della “norma” classica a vantaggio dell’espressione subalterna. Esso tende a sostituirsi alla tradizione pagana in tutto e per tutto, assumendo per sé quel prestigio culturale che il mondo romano e imperiale andava perdendo.
Non a caso la sua lingua – il “latino cristiano” – agisce presto come un potente polo d’attrazione. Si pensi alla relativa rapidità con cui, in seguito alla evangelizzazione dei paesi posti fuori dei confini dell’Impero, il latino ecclesiastico penetra in Germania, in Irlanda e poi ancora in Polonia e in Finlandia. La sua efficacia si apprezza soprattutto al momento in cui, dopo il drammatico cedimento delle strutture imperiali, le comunità barbariche si dispongono ad assumere la lingua dei sottomessi, assecondando un processo di romanizzazione che tra le sue ragioni annovera proprio l’autorità della Chiesa di Roma, e con questa il fascino irresistibile di una lingua alla quale risulta in gran parte consegnato il patrimonio culturale della nuova religione.
I Provenzali.
Il fatto nuovo del XII° secolo è l’imponente fioritura della poesia francese in lingua d’oc e d’oil. Nel secolo XI° la Chanson del Roland di un non meglio specificato Turoldo si pone a capo di una tradizione epica (le “chansons de geste”) nutrita di valori etico-religiosi che impronteranno di sé una cospicua produzione popolareggiante. All’epopea carolingia del ciclo di Orlando si accompagna nel nord della Francia, fin dal secolo XII°, il ciclo dei romanzi bretoni, relativi alle imprese leggendarie di re Artù e dei suoi cavalieri.
L’influsso esercitato in Italia dalla lirica d’arte dei Provenzali, poeti in lingua d’oc, fu immediato. Si trattò dell’espressione di una società aristocratica e raffinata in cui si tratta la tematica amorosa, laddove gli ideali coltivati e celebrati sono quelli cortesi e dell’eleganza. Nel canto dei trovadori provenzali l’avventura dell’amore si dispone in una rete di soluzioni convenzionali al cui centro è posto il “servizio”, l’omaggio del cavaliere alla dama, rappresentata come un signore feudale, inaccessibile eppure desiderata per la sua grazia e la sua virtù. È inutile la ricerca nella produzione trovadorica di un momento di abbandono e di cedimento sentimentale. Si tratta di una letteratura tutta di maniera, compiaciuta di sé, del suo prezioso intellettualismo e della sua spiccata inventiva tecnica. Ai Provenzali, perciò, va il merito di aver fissato le istituzioni della lingua poetica moderna, definendo e arricchendo i sistemi metrici più in uso nella nostra più remota poesia lirica. Gli schemi lasciati in eredità ai nostri poeti, dai Siciliani al Petrarca, sono le canzoni, le ballate, le serventesi, i discordi, i contrasti, le pastorelle. Il segno più vistoso della fortuna che la maniera provenzale incontra nella nostra penisola è ben espressa da un gruppo di rimatori, tutti dell’Italia settentrionale, che ne riproducono la lingua: Alberto Malaspina di Lunigiana, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo, Rambertino Buvalelli, Bartolomeo Zorzi, Sordello da Goito.
I Siciliani.
La lezione dei trovadori, già accolta dal gruppo dei rimatori italiani in lingua provenzale, torna ad imporsi nella nostra penisola, questa volta nel meridione, alla corte dell’imperatore Federico II° di Svevia. Quel periodo contrassegna i temi e le forme di una produzione lirica che esercita un patrocinio sulla cultura poetica italiana ben oltre i confini materiali della “scuola”. Lo vediamo nella rapida diffusione della maniera siciliana negli ambienti settentrionali e nella sua fortuna presso le generazioni avvenire, almeno fino al Quattrocento. La tematica prevalente è quella amorosa che presuppone il distacco da una realtà di passioni politiche e di risentimenti morali e una rinuncia a una verità psicologica risultato dell’analisi degli affetti privati e del sentimento personale.
Oggi sappiamo che Dante conosceva i testi siciliani in una veste sostanzialmente diversa da quella originaria. Egli li leggeva infatti trascritti da copisti toscani che ne avevano alterato la primitiva fisionomia linguistica, adattandola alle peculiarità fonetico-morfologiche della Toscana.
La letteratura in Toscana.
L’attività letteraria interpreta le esigenze culturali della nuova società. Lo scrittore non è più un impiegato di corte. È calato nella vita cittadina, diviene sensibile alle richieste di un pubblico più largo, di quella borghesia che, lacerata da contrastanti tensioni, costituisce comunque la spina dorsale del mondo del Comune. Quest’ultimo può immediatamente riflettersi nelle rime politiche dei “siculo-toscani”, accese di passione civile e impegno militante oppure nelle scritture storiche che, nella seconda metà del secolo, preannunciano la grande stagione trecentesca della cronaca politica, dove il passato si incontra con i valori della civiltà mercantile. Caratteristico del periodo è lo Stilnovo, segnato dai modelli provenzali, che rimanda a un gusto convenzionale che, messo a punto dai Siciliani, acquista sempre più il valore di un segno distintivo. È l’emblema di un’aristocrazia nuova, quella dell’ingegno e del sentimento che nel mito del “cor gentile” si dispone ora ad affermare la superiorità dell’ideale borghese sui pregiudizi di casta che insistono sulla nobiltà di sangue.
Il confronto sul terreno della tradizione cortese, mentre per un aspetto manifesta la coscienza negli intellettuali del Comune delle proprie risorse etico-culturali, ne rivela la tendenza a chiudersi in una sorta di sovramondo letterario, all’interno del quale la realtà ne esce del tutto trasfigurata, filtrata negli schemi dell’indagine interiore e come neutralizzata negli arabeschi di una scrittura astratta e preziosa. Il pericolo di un divorzio fra la letteratura e la vita è presente. Ma a scongiurarlo non valgono le parodie anticortesi, il realismo comico dei giocosi, prigionieri essi stessi di una letterietà ostentatamente rovesciata, ma non meno accademica di quella dello Stilnovo. Quel pericolo sarà evitato dal maggiore discepolo degli Stilnovisti, Dante Alighieri, alla cui lucidità politico-culturale si deve il grande tentativo, in un momento di crisi delle istituzioni pubbliche, di quelle cittadine non meno che di quelle universali (Papato e Impero), di collegare i problemi più urgenti del mondo contemporaneo a una tradizione di civiltà che si è andata formando su valori intellettualmente più ardui e ricercati della nuova aristocrazia borghese.
I rimatori siculo-toscani.
L’eredità dei Siciliani viene assunta in Toscana da un cospicuo gruppo di rimatori del pieno e tardo Duecento, la cui esperienza si definisce di “transizione” con riguardo al suo aspetto di passaggio dalla maniera siciliana a quella successiva dello Stilnovo. Oggi parliamo di poesia “siculo-toscana” che rileva un duplice dato culturale: il saldissimo collegamento con la tradizione federiciana e la fisionomia storico-sociologica di un movimento letterario che vive profondamente la realtà della Toscana comunale, riflettendone l’ideologia e gli interessi politici, si possono apprezzare, tuttavia, alcuni aspetti non immediatamente rilevabili ad un’analisi che si riferisca solo ad un processo evolutivo di scuole poetiche e generi letterari..
I legami con i Siciliani è solido, ma non proprio di filiazione naturale. L’apertura alla tematica civile-morale potrebbe, da sola, escludere ogni rapporto di immediata derivazione da una poetica rigorosamente amorosa come quella siciliana. Potremmo piuttosto privilegiare la “pista” provenzale d’ispirazione etico-politica, sul modello dei serventesi trovadorici. Tuttavia, nemmeno questa comparazione può essere soddisfacente suggerendoci – piuttosto – che l’incontro con il passato si realizza attraverso una fittissima rete di mediazioni etico-intellettuali la cui matrice va ricercata nelle strutture stesse del mondo comunale.
A corroborare questa idea bisogna rivedere i dati che si riferiscono alla nuova realtà dello scrittore. Questi non è più funzionario di corte, ma cittadino, impegnato anche letteriamente a sostenere la sua parte in un quadro assai mosso, spesso drammatico, di rivalità partigiane e di conflitti con l’esterno, potremmo dire soprattutto proteso all’affermazione di un suo ruolo specifico nella società del tempo: un ruolo di direzione morale, di insegnamento e di ammonizione che lo scrittore giudica di sua spettanza, come un privilegio dell’arte e della cultura. Di qui lo speciale rapporto con la tradizione, un rapporto elettivo e non di consanguineità, alla cui base opera la convinzione di un primato della civiltà cortese nel suo complesso. Per il poeta toscano attingere alla tradizione significa innalzarsi a un prezioso patrimonio spirituale, derivandone la prerogativa di un’indiscussa autorità.
Breve nota su Guido Guinizzelli.
Guinizzelli ha il ruolo di iniziatore dello Stilnovo, su segnalazione dantesca, nel Purgatorio,affidato alla notissima canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore”. La sua produzione è incerta tra il vecchio e il nuovo, tra innovazione e tradizione. Se è vero che la polemica sulla nobiltà di sangue contrapposta alla nobiltà del cuore si aggancia a precedenti ben noti nella tradizione cortese, è anche vero che mai prima della canzone guinizzelliana quel motivo era stato svolto con altrettanta consapevolezza etico-culturale: con quella lucidità e tensione di ragionamento che sono il segno di una radicata persuasione, di una certezza razionale che, tradotta nello svolgimento serratamente sillogistico del discorso, si giova dell’evidente familiarità del poeta con i metodi più recenti della dimostrazione filosofica.
Breve nota su Guido Cavalcanti.
L’idealizzazione dell’amore in senso spiritualistico, l’intuizione guinizzelliana che Dante svilupperà nella Vita Nuova è una posizione che non si estende a tutti gli Stilnovisti. Cavalcanti è del tutto indifferente ad ogni possibilità di traslazione dell’amore cortese sul piano religioso. È il maggiore degli Stilnovisti fiorentini, personalità di primo piano di tutto il secolo poetico. Mai venne meno la sua tensione intellettuale e luce impietosa dell’analisi, se non forse quando la rappresentazione si fa ricordo, memoria di una realtà sentimentale rivissuta in un’atmosfera di sogno.
Dante, poeta della Commedia.
Dante fu intellettuale militante nella cui coscienza culturale le esperienze del passato, la tradizione medievale e romanza, le conquiste dello Stilnovo, si incontrano con i grandi miti del classicismo cristiano. Questi ultimi tornano rinnovati e rafforzati, alla luce di un’ideologia che ne trae gli elementi vitali facendoli rifluire nella struttura del poema, in una compagine inventiva saldissima e aperta alle aspirazioni più varie del presente.
Poco si sa della sua giovinezza. Tuttavia, il suo primo incontrocon la cultura dovette averlo nella scuola annessa al convento di Santa Croce a Firenze, dove è molto probabile egli abbia avuto il modo di procurarsi i primi rudimenti della sua cultura teologica. Contrae un debito culturale con Brunetto Latini. La calda devozione del discepolo per il maestro che segna il tono di un celebre episodio dell’Inferno (XV°) non deve trarci d’inganno. Quella testimonianza di stretta ed intensa familiarità è smentita da dati obiettivi in nostro possesso. Dante frequentò Brunetto Latini solo saltuariamente: ebbe contatti casuali, i più prevedibili fra un diciottenne e un intellettuale al culmine della sua fama. Ciò nonostante e malgrado le riserve avanzate nel De Vulgari Eloquentia e nel Convivio verso l’artista Brunetto, non c’è dubbio che questi abbia costituito per Dante un importante punto di riferimento, offrendo il modello di un ideale letterario nutrito d’impegno civile e maturato nell’incontro fra la sapienza tecnica retorica degli antichi e le tendenze più vive della cultura contemporanea. Il suo ricordo, superate nella maturità le ragioni di una diffidenza ingenerosa, riaffiora alla memoria circondato da una venerazione nella quale finalmente si scioglie un antico obbligo di gratitudine. Tuttavia devono passare gli anni perché la lezione etico-culturale di Brunetto dia i suoi frutti. L’incontro con Cavalcanti, invece, ha più immediata risonanza. Dante ne trae incoraggiamento ad aggiornare la sua cultura letteraria adeguandola alle esperienze più recenti del circolo stilnovistico.
Osservazioni sulla genesi e composizione della Commedia.
Dante mira a una risposta alla crisi storica che travaglia il mondo medievale fra Due e Trecento. Mira ad una risposta globale che additi la via d’uscita dalle strettoie in cui si è venuta a trovare la cristianità, privata delle sue guide naturali, impostegli dalla stessa volontà divina e che la malizia degli uomini non ha voluto seguire. L’impero non ha ormai nessun potere reale in Italia e gli imperatori si tengono lontani dalla penisola; il sogno di un impero universale inizia ad apparire come irrealizzabile. Nemmeno la calata di Enrico VII°, in cui Dante aveva sperato, riesce a modificare questo dato. La crisi non risparmia neanche il Papato; il tentativo di Bonifacio VIII° di restaurarne l’autorità universale era miseramente fallito di fronte all’ostilità delle nuove forze che erano entrate in gioco nella scena politica e che nell’avvenire avrebbero sempre più trovato spazio per la loro affermazione: le nuove nazionalità europee, insofferenti di qualunque vincolo alla loro autonomia e politicamente ben più potenti dei comuni italiani.
Anche la Chiesa era in crisi profonda e la lunga cattività avignonese avrebbe segnato il momento più grave della sua parabola discendente. Intanto, al logoramento delle istituzioni, anche la qualità del sentimento religioso dei fedeli andava cambiando e di fronte all’universalismo medievale si affermava una devozione che portava in primo piano i problemi della salvezza individuale, tendendo ad anteporli a quelli della res publica cristianorum nel suo complesso. Nella notte del 7 aprile 1300, Giovedì santo, Dante che è nel mezzo del cammin di sua vita, cioè ha 35 anni, si ritrova smarrito in una “selva oscura”. Cerca di fuggire risalendo le pendici di un colle, ma tre fiere – una lonza, un leone, una lupa – lo respingono inesorabilmente verso la selva. A questo punto al poeta appare Virgilio che gli indica l’unica possibile via di salvezza: un viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio; Virgilio stesso sarà la guida di Dante in tale viaggio e lo affiderà poi ad un’anima più degna, Beatrice, che lo condurrà attraverso i cieli del Paradiso fino alla suprema visione di Dio. Rassicurato dal fatto che Virgilio è stato inviato a lui proprio da Beatrice e che questo viaggio si svolge sotto la protezione della stessa Vergine Maria e di Santa Lucia, Dante inizia il suo lungo cammino. L’Inferno è concepito dal poeta come un’enorme voragine, dalla forma di cono rovesciato, che con il suo vertice giunge fino al centro della terra. Le anime dei dannati sono suddivise in 9 cerchi, secondo 3 grandi categorie di peccati: l’incontinenza, la violenza, la malizia (ad eccezione del 1° e del 6° cerchio, con le anime del limbo e degli eretici). Tra la pena che Dante riserva ad ogni gruppo di dannati e la colpa commessa esiste sempre un rapporto che viene definito col nome di contrappasso.
Il complesso organismo del poema consiste di un esame meditato della natura e delle azioni dell’uomo, di cui vengono esaminate le naturali disposizioni, e cioè le stesse profonde ragioni del suo agire e la fenomenologia di quell’agire, rifacendosi a solidi precedenti dottrinali. Dono queste le ragioni strutturali del poema. Tuttavia, per comprenderle in tutta la loro portata è necessario, ancora una volta, riferirsi alle motivazioni storiche, oltre che personali, dell’opera di Dante. Le tracce della sua appartenenza a un’età di crisi, di passaggio dall’autunno del Medioevo all’alba della nuova età, la Commedia le ha impresse nel suo stesso organismo. L’armonia fra l’individuo e l’universo, la coscienza sicura di appartenenza alla totalità dell’essere, derivante dalla fede in un aldilà in cui tutti i contrasti del mondo scompaiono, era stata il postulato sotteso alle realizzazioni dello spirito medievale. Ciò è anche in Dante, ma la percezione della totalità dell’essere non è in lui diretta, immediata, bensì è una conquista che viene effettuata elevandosi faticosamente al livello della trascendenza; e “i suoi personaggi”, è stato detto, sono già individui che si contrappongono consciamente ad una realtà che li imprigiona (Lukacs).
Le terzine dantesche son tali che il secondo endecasillabo dell’una rima col primo ed il terzo della successiva, nella quale il secondo ha a sua volta una nuova terminazione in modo da generare anch’esso una nuova terzina; da cui prenderà poi ancora lo slancio quella successiva. Si viene così a creare una catena rigorosa in cui ogni terzina si lega alla precedente ed alla seguente con un ritmo serrato naturalmente logico che è lo stesso del sillogismo, il tipo di argomentazione deduttiva preferito dalla scolastica; e per concludere ogni canti è necessario porre il punto fermo di un verso isolato. D’altra parte anche la scolastica era ormai in crisi e la fiducia che nutriva Tommaso d’Aquino nella possibilità di inquadrare le verità religiose in un sistema razionale non poteva più essere tranquillamente condivisa. Si affermava invece l’opinione di chi credeva che fede e ragione fossero due sfere del tutto separate e che i tentativi per conciliarle fossero destinate in partenza al fallimento; contemporaneo di Dante era Duns Scoto, il più importante sostenitore di queste teorie. Dante percepisce la crisi speculativa del suo tempo, ma il suo sforzo poderoso è rivolto nella direzione di un’affermazione dell’unità fra fede e ragione, superando l’istanza di stabilire per l’una e per l’altra delle sfere autonome. Ma è uno degli ultimi tentativi di realizzare un sogno tipicamente medievale: coloro che in seguito tenteranno la strada del poema allegorico, ponendosi quasi sempre sulle orme di Dante, non cercheranno più di recuperare un’unità definitivamente compromessa e non riusciranno più a comprendere il programma culturale della Divina Commedia. Per Petrarca il modello filosofico non sarà quello scolastico, ma Sant’Agostino, si riallaccerà direttamente alla tradizione platonica. Il primato nel campo della filosofia non sarà da lui assegnato alla metafisica, ma alla morale. Le scienze fisiche che tanta parte hanno nel sistema speculativo dantesco, costituiranno per lui un obiettivo polemico e le considererà altra cosa rispetto alla filosofia.
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