E’ possibile, secondo voi, che un immigrato senegalese diventi amico di un cittadino italiano? Soprattutto: è auspicabile? Chiunque, dotato di un po’ di cervello, direbbe di si. E’ una risposta facile? E’ una risposta da conformisti? Quanto di differenza e quanto di rassomiglianza c’è fra senegalesi ed italiani? Questo è un quesito posto all’ordine del giorno dalla realtà che si muove intorno a noi: ma siamo in grado di giudicare questa realtà? Abbiamo gli strumenti necessari? La democrazia ci ha insegnato che tutti noi abbiamo il diritto di esprimere giudizi, opinioni, dichiarazioni di fede, indipendentemente dalle nostre capacità intellettuali, dal censo, dalla nostra storia personale. Ma già in quell’avverbio, indipendentemente, vedo una fessura dalla quale entra l’aria fresca e stimolante del dubbio. Sembra che ci si dica: vi doniamo generosamente questo diritto che è meglio definire come facoltà, ma in quanto indipendente dalle vostre capacità d’analisi e possibilità esecutive esso è virtuale e come tale viene considerato dall’espressione più profonda della realtà, il Pragma…qualora essa fosse dotata di volontà. La tavola da gioco dei pensieri umani e delle relazioni che li presuppongono, è disposta in modo tale che il gioco possa essere fluido ed ininterrotto: è piatta. Un quadrato bianco, un quadrato nero. L’uno davanti all’altro; l’uno in diagonale rispetto all’altro.
Pedine bianche, pedine nere. Le mosse possibili sulla scacchiera della vita sono moltissime. Dico moltissime e non lo dico a caso. Non dico infinite, infatti: viviamo nella dimensione del finito. La nostra è una dimensione di finitezza dove le cose periscono e il tempo, per lo più veloce ed inesorabile, passa. Il tempo scorre, sembra una misura che ha un senso; in realtà è nulla, piccolezza infinitesimale, entità trascurabile: è la vera mancanza di senso. La pedina di un colore mangia quella dell’altro colore e così avanza di una o più posizioni sul tavolo da gioco.
L’italiano teme la concorrenza del senegalese che prenderemo come esempio generico, ma significativo, di straniero. L’italiano teme di perder strada nel lavoro, nelle graduatorie per le abitazioni pubbliche, nel controllo del territorio. Il senegalese si sente in ritardo, vuole dei risultati, in certi casi utilizza il vittimismo furbesco per far breccia nella società italiana. Però le regole sono quelle; le mosse sono quelle.
Così ognuno muove nella direzione di quello che crede essere il proprio interesse; scavalca l’avversario, lo aggira, crea le condizioni per la propria predominanza, mangia l’avversario, il concorrente.
C’è una grande, in senso metafisico, mano che muove tutte le pedine della scacchiera; non necessariamente due. Possono essere due ma una è sufficiente ed è il caso tipico. La mano, sceglie, prepara, studia la strategia – perché provvista di volontà – di ogni singola mossa, giù giù fino al contesto generale, alla logica del gioco. Che colore ha questa mano deus ex machina, padrona della scacchiera? Non ha colore. Non ce l’ha perché è una mano metafisica; ma se anche fosse una mano reale, non avrebbe alcun colore: non è necessario che ce l’abbia.
Che succede sulla scacchiera percorsa da questa inesorabile quanto invisibile mano? Può succedere che il proprietario di un’azienda assuma il senegalese al posto dell’italiano, perché il primo riesce a far valere di meno i propri diritti essendo maggiormente bisognoso. Può essere che nelle liste degli alloggi popolari i senegalesi, in qualche caso, vengano prima degli italiani perché sono più poveri. Può anche essere che l’italiano in certe aziende non ci metta nemmeno piede perché non vuole sporcarsi troppo le mani. Può perfino succedere che qualcuno sobilli gli italiani a resistere all’inserimento dei senegalesi nella loro società, con argomenti quali il loro benessere, il fatto che gli africani non abbiano voglia di lavorare, la necessità di mantenere intatte le loro tradizioni e cultura. Le tradizioni e la cultura si sono formate in tempi lunghissimi, espropriando quelle precedenti e con l’apporto di popoli anche molto diversi non solo per culture, ma anche per posizione geografica, e sono in continua trasformazione; in questo campo la cristallizzazione non esiste.
Può contemporaneamente accadere che influenti guide spirituali senegalesi cerchino di acquisire delle posizioni che non competono loro tentando di separare i senegalesi dalla società che li ospita, giudicata ostile.
C’è l’orologio. Serve a limitare il tempo tra una mossa e l’altra. In caso contrario le azioni verrebbero rimandate sine die e l’entropia si impossesserebbe della società. L’orologio misura il tempo; certo l’uomo africano non considera il tempo come lo consideriamo noi: quale saggezza! Egli non è ossessionato dal tempo, dal suo trascorrere. Egli applica un naturale relativismo alle cose che nel tempo ed attraverso esso si manifestano. Se, paradossalmente non succedesse mai nulla vorrebbe dire che il tempo si è fermato.
Per gli italiani, invece, inseriti nell’Europa e nella sua cultura a cui applicano modeste licenze derivate dalla dolcezza del Mediterraneo, il tempo è importante; non di vitale importanza, però! Cioè non tale da programmare tutta la propria vita, come è d’uso nel mondo anglosassone. I popoli latini si lasciano un piccolo spazio per l’improvvisazione, per la novità, per la sorpresa.
Per gli italiani il tempo è una questione sensibile, sicuramente. Non solo; diviene, a causa dell’evoluzione della loro società, strettamente connesso con la loro vita: soprattutto al Nord, il tempo è denaro.
Ma questo benedetto orologio che regola la vita c’è, in Italia come in Senegal. Sono semplicemente tarati in modo diverso. Questo vuol dire che comunque, prima o poi, la sveglia suona.
I direttori di gara fanno parte di quella categoria di persone che vengono educate ad un’etica inflessibile, almeno nelle migliori intenzioni. Devono essere super partes, controllare che il gioco, con le sue regole rigidamente stabilite, si svolga senza sorprese. E già; il punto è che, nonostante le apparenze, le sorprese sono bandite. Le regole sono quelle, stabilite una volta per tutte, modificabili (se possono esserlo) con la frequenza del passaggio di un’era geologica. E, se venissero modificate, devono esserlo con tutti i crismi e le sofferenze dell’evento conciliare. Il loro occhio scrutatore, il loro cervello impegnato nel continuo processare le analogie e nella sintesi di disparati fatti, ci rassicurano sulla tenuta dell’architettura. Ma se di Direttori controllano e giudicano, chi giudica e controlla i Direttori? Antica questione, risolvibile ma irrisolta.
In fin dei conti, però, c’è già chi, o cosa, li controlla: l’ordine superiore. Accettato, temuto, interiorizzato da tutti: ognuno di noi si chieda che cos’è quest’ordine superiore. Certamente troverà una risposta. Nei propri tabù, limiti, paure.
E così, dopo aver combattuto coi problemi dell’accettazione e degli interessi fatti passare per contrapposti, italiani e senegalesi si devono purificare l’anima rendendo confessione al proprio spirito, superiormente ordinato, di quello che sta o non sta dentro i confini del giusto; del bene e del male, diremmo.
Ognuno, cristiani gli uni mussulmani gli altri, deve rendere conto alla propria morale, alla propria gente, alla propria famiglia, alla propria ideologia. Ognuno paga un prezzo in moneta pesante all’ordine superiore. Può accadere che l’italiano interroghi la sua coscienza e sia disponibile col senegalese per spirito cristiano. Può succedere che un senegalese rispetti e contraccambi un favore mosso dalla sua spiritualità mussulmana.
Il pubblico presente di solito a questi incontri riflette, parteggia, rumoreggia, impara qualcosa di nuovo ma, indefettibilmente, partecipa ad un rito e, da questa partecipazione, ricava una conferma della trascendentalità dell’ordine superiore. Grazie alla ripetizione delle regole per un tempo troppo lungo per le capacità di comprensione dell’essere umano. Il pubblico vuole delle conferme, quindi, che le regole non sono affatto cambiate e vuole conoscere chi sarà il vincitore. Dalla ritualità delle regole fino al nuovo dominatore si ripeterà la rassicurante esperienza dell’immutabilità del corso degli eventi.
Come in ogni disfida mortale da Colosseo che si rispetti, il pubblico, proprio perché forte del proprio numero, cede alla vertigine della propria potenza; il pollice verso può indurre in tentazione chiunque, anche l’anima più candida.
In una discussione tra senegalesi ed italiani lo schieramento diviene inevitabile ma non per sedarla, bensì per portare alle estreme conseguenze l’azione degli uni o degli altri.
E cosa ne dicono, cosa tessono le rotative della grande e piccola stampa, i palinsesti televisivi? Visto che ne sanno il meno possibile, ne dicono solamente dell’abbigliamento, dei tic, degli sguardi pieni di significato che i giocatori e il circo che li circonda, si danno.
E così, mentre sulla carta stampata, quando si parla di stranieri, vediamo sempre e solo gli extracomunitari – badate bene, non i senegalesi o le persone chiamate, al limite, col nome che si rifà alla loro nazionalità – in tivvù ci vanno ma solo grazie a qualche coraggioso e perciò sparuto direttore di trasmissione. Sull’altra sponda del grande fiume di questa torbida esistenza, ci sono gli italiani che, sull’argomento extracomunitari, sentenziano e straparlano. A quale scopo? Forse per ripetere il tranquillizzante rito di cui sopra?
La scacchiera è sempre la stessa, col suo numero di caselle bianche e nere prefissato. Le pedine si muovono con una, apparentemente, nobile discrezione sulla scacchiera della vita, dove, chi parla di imprevedibilità lo fa solo perché il suo cervello non è in grado di analizzare gli indizi, come un individuo avvezzo ad interpretarli farebbe.
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