Si tratta di un libro fondamentale, che è stato reso possibile grazie all’apertura degli archivi ex-sovietici al lavoro di storici seri come lo è Leonid Mlečin, giornalista di vaglia. A dire il vero, non si tratta di una scoperta. Già eravamo a conoscenza del ruolo di Stalin nella creazione di Israele, come abbiamo sempre saputo dell’importanza rivestita dall’Unione Sovietica (superiore a quella angloamericana) nel salvare l’Europa dalla barbarie nazifascista. Il problema, però, si chiama revisionismo storico, il cui obiettivo è quello di sottacere i dati di fatto e produrre equazioni come: Stalin era un anti-semita = i comunisti sono anti-semiti = tutti quelli di sinistra sono anti-semiti. Il fatto poi che nel periodo in cui l’Unione Sovietica era governata da Stalin ci fosse un gran numero di ebrei nei posti chiave del governo stesso, incluso il KGB, (qui due su tutti, Jagoda che fu pianificatore della rete dei gulag sovietici e Kaganovič uno dei suoi collaboratori più fidati e di lungo corso) viene aggirato con la sua semplice omissione.
Queste operazioni di revisionismo o depistaggio che dir si voglia sono utili per costruire alleanze politiche, quali ad esempio quelle in vigore tra le classi dominanti dell’occidente euro-americano e una classe dirigente israeliana ultra-reazionaria e razzista che gode del pieno sostegno delle prime. Certo, per maneggiare la storia come fosse un alambicco da cui far colare ad libitum qualsiasi intruglio atto a ridisegnare la realtà secondo i propri interessi materiali bisogna essere non solo spietati, ma privi di dignità. Ma andiamo con ordine.
Dunque i sovietici hanno avuto un ruolo basilare non solo nella creazione dei Israele ma anche nella liberazione degli ebrei nella parte orientale dell’Europa e in questa direzione va letta la loro scelta di aiutarli a costruirsi una patria indipendente in Palestina. Al tempo stesso è chiaro che Stalin, vero animale politico, volesse assestare un colpo forte all’imperialismo britannico facendolo retrocedere dal Medio Oriente. Fu l’URSS a riconoscere per prima de iure lo Stato d’Israele, seguita poi a ruota dai paesi satelliti del blocco socialista e furono sempre i sovietici, via Cecoslovacchia e Jugoslavia, a far arrivare agli ebrei le armi necessarie a resistere all’attacco convergente di egiziani e giordani, armi che poi avrebbero fatto la differenza decidendo le sorti del conflitto a favore degli ebrei. Gli arabi all’epoca non solo erano contrari all’instaurazione di uno Stato d’Israele, ma erano per lo più refrattari al socialismo. Fra di essi, pochissime e politicamente inefficaci erano le formazioni rivoluzionarie di ispirazione socialista.
La luna di miele fra un Israele socialisteggiante (ricordiamo gli esperimenti kolchoziani in terra palestinese dell’epoca) e l’URSS viene meno e ciò ha inizio nel momento dell’emigrazione degli ebrei sovietici e dagli altri paesi socialisti verso la loro terra promessa. Questa cosa, che poteva avere delle serie ripercussioni destabilizzanti sul piano economico, demografico ma anche politico, viene vista con sospetto dalla classe dirigente sovietica e non solo da Stalin; classe dirigente che, dai tempi della guerra civile, si era dovuta confrontare con le dinamiche inerenti il nemico esterno/interno. Da qui ha inizio la fine del rapporto ed inizia la guerra politica agli ebrei: non di anti-semitismo si tratta, ma di persecuzione politica, tanto è vero che nella classe dirigente sovietica abbiamo un gran numero di ebrei in posizioni di rilievo e comando.
Sono molti i passaggi del libro che andrebbero riportati e discussi. Dai passaggi sulla storia di quella del mondo arabo sotto la dominazione britannica, al clima interno all’URSS sempre in bilico fra stabilizzazione delle conquiste rivoluzionarie e forze centrifughe che di volta in volta vanno a minare le prime. Scelgo, tuttavia, due passaggi per tutti: il primo quando Mlečin individua le responsabilità dei paesi arabi:
Oggi, ricordando il passato, si può dire che la storia del Medio Oriente avrebbe preso tutt’altro corso se i paesi arabi limitrofi non avessero subito deciso di soffocare lo Stato ebraico. […] Per tutto il Ventesimo secolo gli arabi […] hanno risposto “no” a ogni proposta. Se nel 1919 non si fossero opposti alla Dichiarazione Balfour, l’esigua popolazione ebraica di Palestina non avrebbe ottenuto che una limitata autonomia e gli ebrei avrebbero dovuto accontentarsi della condizione di minoranza nazionale all’interno di uno Stato arabo, come i cristiani maroniti in Libano. Se alla vigilia della Seconda guerra mondiale gli arabi avessero accolto la proposta britannica di costituire in Palestina un minuscolo Stato ebraico e un grande Stato arabo, Israele con la sua piccolissima estensione sarebbe risultato veramente minuscolo. Nel 1947 gli ebrei palestinesi dovettero scegliere tra la possibilità concreta di creare un proprio Stato su un territorio molto circoscritto e la continuazione di una lotta senza speranza per ottenere tutta la Palestina. Non rifletterono a lungo e sulla carta politica del mondo comparve lo Stato di Israele. […] Gli arabi palestinesi, al contrario, tra la possibilità di costituire uno Stato sul territorio assegnato loro dalle Nazioni Unite e la lotta per avere l’intera Palestina, scelsero quest’ultima. Lo Stato palestinese per il quale gli arabi si battono da tanti anni e per il quale hanno sacrificato tante vite, proprie e altrui, sarebbe potuto sorgere nel maggio del 1948. Ma a impedirlo non furono gli ebrei, bensì i governi degli Stati arabi che con le loro posizioni oltranziste impedirono di fatto agli arabi palestinesi di proclamare il proprio Stato. E così ebbe inizio la tragedia del Medio Oriente.
Il secondo è tratto dalla prefazione di Luciano Canfora, storico e filologo, con la quale mi trovo in particolare sintonia. Canfora osserva acutamente che
le cause del progressivo capovolgimento di posizione furono molteplici: la rottura di Tito e l’ossessione staliniana di vedere affermarsi posizioni analoghe, di autonomia rispetto all’URSS, nei vertici delle altre democrazie popolari: vertici che, specie in Cecoslovacchia, erano in larga parte rappresentati da comunisti di origine ebraica: il forte antisemitismo residuale tuttora allignante sia in Russia che in Ucraina e Polonia; la convinzione che a lungo andare la politica di emigrazione dall’Est Europa in Israele (inizialmente favorita molto intensamente da Stalin) portasse a un danno per gli Stati socialisti “europei”. […]
Ma, come afferma ancora Canfora
una considerazione si può formulare di fronte al fenomeno più rilevante: quello dell’appoggio netto dell’URSS staliniana alla nascita di Israele Paese “socialista” nel bel mezzo di monarchie feudali, e del successivo distacco. L’URSS entrò in collisione anche con altri paesi socialisti affermatisi fuori della stretta azione politico-militare sovietica: Jugoslavia prima, Cina poi. E’, dunque, forse l’incapacità della dirigenza staliniana (ma anche kruscioviana e brezneviana) ad ammettere la possibilità stessa di un policentrismo dell’area socialista la causa principale di questa vicenda e, alla fine, del crollo stesso dell’URSS.
In sostanza e ancora, anche nel caso dei rapporti tra URSS e Israele, siamo messi di fronte alla questione della dinamica costante che ha sempre accompagnato l’esperimento sovietico, stretto tra costruzione interna del socialismo ed allargamento dello stesso a livello mondiale.
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