Lo studio dell’antichità classica, in cui la filologia coeva ha un ruolo fondamentale, possiede la caratteristica di coprire tutte le discipline. A questo proposito dobbiamo ricordare che la geometria, la matematica, la scienza naturale, la medicina, l’astronomia, la storia stessa e la fisica, hanno il loro inizio proprio nel mondo antico.
Ha quindi senso occuparsi della storia antica?
Il problema, credo, sia posto male, ma nasce spontaneo dal fatto che la cultura moderna si afferma in contrapposizione con quella antica, com’è naturale e logico che sia.
Ciò che è utile in questo tipo di studi è che il metodo di indagine intuitiva inerente al lavoro su una civiltà remota è una palestra intellettuale indispensabile a prescindere dal tipo di scienza moderna cui ci si vuole accostare.
Ad esempio, lo studio delle lingue classiche sono uno strumento per connettere, attraverso un processo intuitivo, un testo non immediatamente chiaro e comprensibile. Lo stesso procedimento intuitivo è alla base della matematica, della filosofia e della scienza. La traduzione dalle lingue classiche – tuttavia – è peculiare perché esse sono un frammento di una civiltà remota. Hanno un sistema espressivo, una sintassi, degli strumenti lessicali molto lontani da noi, per cui l’esercizio di capire cosa c’è scritto in un testo, mettiamo greco, non è semplicemente finalizzato alla decifrazione di ciò che vi è contenuto, è un modo di mettere alla prova la capacità intuitiva-ricostruttiva dello studioso. Perciò, perdere questo pezzo di pensiero umano sarebbe insostenibile. Possiamo, in definitiva, definire l’antichità come un interlocutore prolifico e costante.
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