Se ogni modifica che allunga la vita lavorativa (anche con incentivi) è in sé negativa, in particolare rispetto alle possibilità dei giovani, e preparatoria di ulteriori allungamenti futuri, il peggio è rappresentato dalla riaffermata modifica dei coefficienti di calcolo. Già nella riforma Dini, oltre al gravissimo passaggio al calcolo contributivo su tutta la vita lavorativa, l’altro strumento surrettiziamente usato per il taglio drastico delle pensioni è stato il complesso riferimento al coefficiente di calcolo che equivaleva al passaggio dal riferimento al 2% del salario all’1,75 %, con cioè una riduzione netta del 15%, solo per questa via, delle pensioni. Alcuni dati.
Nel settore privato, tra il 1993 e il 2002, la Ptf è cresciuta del 10,5 per cento, circa sette punti percentuali in più dei salari reali. Il divario sembra dare ragione a chi sostiene l’incapacità del modello di relazioni industriali di redistribuire gli aumenti di produttività ai salari. D’altro canto, la tesi della crescita eccessiva può trovare un qualche motivo di sostegno nel fatto che la disponibilità di lavoro non utilizzato è in Italia molto più ampia che in altri paesi, specialmente nelle regioni meridionali (solo il 55 per cento dei nostri potenziali lavoratori è occupato, contro il 65 per cento in Germania, il 61 in Francia, il 64 della media europea e il 72 per cento degli Stati Uniti). I sacrifici salariali del passato decennio hanno ridotto questo divario di occupazione, che tuttavia rimane molto ampio.
I salari nel settore privato dal 1993 al 2003 (fino al terzo trimestre) sono praticamente rimasti invariati in termini reali (+0,3 per cento all’anno). I dati INPS, disponibili per il periodo 1996-2003, addirittura puntano ad una crescita dei salari inferiore a quella dell’inflazione. Da quando l’euro circola nelle nostre tasche, inoltre, i lavoratori percepiscono un’inflazione superiore a quella misurata dall’Istat (vedi Guiso). Questo spiega perché siano in molti a ritenere di avere subito una perdita del potere d’acquisto della propria retribuzione. In ogni caso, i dati di cui sopra si riferiscono ai salari medi. Sono perfettamente compatibili col fatto che una quota consistente dei salariati abbia subito perdite del potere d’acquisto effettivo (non solo percepito) delle loro retribuzioni, mentre una quota parimente consistente ha visto un aumento del potere d’acquisto effettivo del proprio salario. In effetti i differenziali salariali sono aumentati, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno qualificati, quelli maggiormente rappresentati dal sindacato. I salari sono comunque cresciuti meno del prodotto per lavoratore, il che significa che la quota del reddito lordo destinata ai lavoratori dipendenti sotto forma di salario si è ridotta di circa il 10 per cento.
Fonte: lavoce.info
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